Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ogni suono ha un corpo e rimanda inevitabilmente a una fonte sonora. Nella storia della musica si possono distinguere repertori “corporei” e altri che tendono ad allontanarsi dalla corporeità. In questo contesto in cui si indaga la relazione tra corpo e musica, il tema della voce assume una certa rilevanza in quanto rimanda immediatamente a un soggetto.
Il corpo è la parte fisica di un oggetto materiale ed è anche la parte fisica che costituisce la struttura dell’essere umano. Le due nozioni non sono del tutto disgiunte, soprattutto se ci domandiamo in che modo il corpo ha a che fare con la musica. Può essere inteso come materia, cioè il suono di un corpo fisico, ed è questo il caso degli strumenti: essi, ad esempio, si distinguono per il modo in cui, attraverso una differente relazione con il corpo fisico, si ottiene il suono. Uno strumento può essere pizzicato, toccato, percosso, vi si può soffiare dentro, e dunque il suono della musica è suono di una materia sonora prodotta da una materia fisica. Ma l’intrinseca fisicità sonora, prodotta ad esempio dalla percussione di un pezzo di legno contro un altro, può anche essere alterata, riprodotta, manipolata, simulata tramite processi elettrici, elettroacustici, elettronici, digitali. Oppure può essere prodotta tramite sintesi sonora, ovvero una musica del tutto artificiale che però alle nostre orecchie suonerà comunque “naturale” proprio perché la musica, in sé, assume intrinsecamente un corpo e dunque si fa inevitabilmente “natura”, evanescente e invisibile, ma pur sempre presente ai sensi.
Veder pizzicare la corda di un’arpa e semplicemente ascoltarne il suono sono però fenomeni ben diversi. Il significato che il suono porta con sé, il rinvio alla propria fonte (il suono di un passo nella foresta, il suono di una moneta che cade sul pavimento) è un dato molto forte da cui con difficoltà riusciamo a svincolarci. D’altra parte molta della musica odierna è prodotta tramite processi tecnologici ed è appunto svincolata da una presunta fonte, ma anche di fronte a sonorità “assolute”, non riconducibili a oggetti, strumenti musicali o azioni, la musica implica significati, dovuti alla sostanziale figuratività del suono. Figuratività non vuol dire solo riconoscere il suono per quello di una chitarra o di un sax, ma ad esempio definire un suono come energetico, calmo, caldo. La musica si arricchisce di aggettivi sinestesici: suono ruvido, suono cupo, suono liquido. Proprietà spesso legate alla tattilità e addirittura alla funzione prensile della mano. Per Hegel “il suono è il tremito interno del corpo stesso”. Il timbro, la sonorità di un suono, non sarebbero altro allora che il “corpo del suono”, la sua massa sonora. I suoni si manifestano corposamente e diventano spesso la traduzione sul piano uditivo di proprietà significanti del mondo; talvolta tentano di negare una propria natura di corpo (“suoni eterei”), talvolta ne sono intrisi (la stessa idea di musica concreta).
Se fin qui abbiamo sommariamente parlato dei caratteri del corpo del suono, è possibile d’altro canto parlare di un “suono del corpo”, inteso stavolta come un corpo “umano” o quantomeno antropomorfo. Il suono primario di tale corpo è contenuto nella voce. “Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci”, scrive Italo Calvino, in Un re in ascolto. La voce è il luogo della definizione di un’unicità, ma ogni voce, se è propria e singolare, d’altra parte racconta con candore del proprio genere sessuale e della propria età. Come sostiene Roland Barthes, la cui celebre raccolta di saggi L’ovvio e l’ottuso (1982) contiene una sezione intitolata “Il corpo della musica”, la voce funge da tramite tra corpo e parola. Lo specifico della voce starebbe nella sua grana, né soffio né respiro, ma “materialità del corpo che sgorga dalla gola”. Per Barthes la corporeità del parlare si situa “all’articolazione del corpo e del discorso”; il luogo di un interscambio. È paradossalmente il luogo del non-detto, di ciò che si emette anche senza “dire”, dunque per il semiologo francese il luogo dell’inconscio, dove il neonato, l’in-fans, diventa essere parlante. La voce possiede una propria capacità di esprimere materia inarticolata: un insieme sensibile che produce senso, un senso che però precede l’articolazione linguistica; una melodia, intesa in senso lato, che precede la lingua. Il senso, cioè la produzione della significazione, non è scisso rispetto ai sensi, all’udibile o al visibile, anzi ne è intriso. Il corpo nella musica non si dà come qualcosa di puro bensì come qualcosa di intrecciato all’esperienza sociale. Ascoltiamo voci e corpi che non sono staccati dalla mente, dalla ragione, dal linguaggio. La musica, come uno dei tanti territori dell’estetica e dell’esperienza sociale, è il substrato per l’emersione di forme ed espressioni in cui la relazione del nostro essere-corpo con altri corpi viene usata come laboratorio. Nel Novecento tutto questo diventa un tema attorno al quale costruire percorsi di ricerca e innovazione, ma anche di coinvolgimento collettivo e di massa. “Il corpo non si oppone ai codici culturali ma contribuisce a fondarli”, afferma Gianfranco Marrone in La cura Ludovico (2005).
L’esperienza estetica contribuisce a ridare significato allo sguardo quotidiano avvalendosi del sensibile e del corporeo come strumento di valorizzazione. Studiosi come Peter Zumthor nel campo poetico, Jacques Derrida nel campo filosofico, Julia Kristeva nel campo semiotico, Lévi-Strauss nel campo antropologico, ma anche il teatro di Carmelo Bene, hanno avuto il compito di far riemergere l’idea di phoné coltivata nella filosofia greca ma poco frequentata dalla filosofia occidentale.
Se è innegabile che ogni suono ha un corpo e debba essere sentito come manifestazione di un corpo, umano o antropomorfo, va comunque tenuto presente che nella cultura europea si è sviluppata da tempo un’opposizione tra un approccio alla musica sentito come intensamente corporeo e uno tendente invece ad allontanarsi il più possibile da tale corporeità: da una parte si affronta la musica concentrando l’attenzione sul corpo dell’esecutore e/o su un corpo immaginato ascoltandola, partecipando all’ascolto con il corpo (cantando, ballando, battendo il tempo o con altre modalità di sincronizzazione motoria), mentre dall’altra si trascurano tali attività preferendo concentrare l’attenzione sulle note, sugli “oggetti sonori” e/o su una forma/struttura da loro manifestata, sentendo la partecipazione corporea come un disturbo di operazioni più “mentali” e “spirituali”.
A una tale polarità è corrisposta un’opposizione tra due repertori musicali, l’uno sentito come assai più corporeo dell’altro. Più precisamente, c’è stata la tendenza a considerare un brano musicale come “corporeo” quanto più in esso si evidenziavano le seguenti attività: mostrare come il corpo dell’esecutore, la voce e/o gli strumenti siano capaci di fare molto di più che realizzare combinazioni di unità grammaticali (quali le note o le cellule ritmiche); imitare suoni e ritmi corporei; esporre una pulsazione isocrona, con una regolarità non meccanica; far emergere una melodia su un accompagnamento, facendo sentire sottili discrepanze intonative e ritmiche nella loro relazione; fare ampio uso della ripetizione e della paratassi inserendole in gerarchie poco strutturate; combinare figurazioni caratterizzate da durate e profili simili a quelli dei gesti corporei e delle espressioni emotive, con abbellimenti, accenti irregolari e numerosi cambi di velocità non riconducibili a forme prestabilite.
Nella cultura europea, tali distinzioni, quanto meno a partire dal Medioevo cristiano (ma con anticipazioni nel pensiero greco e romano), sono coincise con l’opposizione tra le musiche basse, volgari, popolari, e quelle alte, nobili, colte: alla corporeità dei canti e delle danze popolari, nelle epoche caratterizzate dalle musiche pre-tonali sono state opposte la tradizione delle musiche sacre, dal gregoriano fino ai mottetti e alle messe rinascimentali, e quella delle musiche profane polifoniche, dall’Ars nova fino ai madrigali. A partire poi dalla nascita delle musiche tonali, il filone delle musiche “incorporee” ha avuto la sua continuazione nell’ambito sia della tradizione sacra, dai mottetti barocchi alle messe ottocentesche, sia di quella strumentale, dalle fughe secentesche fino alla musica assoluta ottocentesca.
Soprattutto a partire dal Seicento si sono comunque sviluppati due fenomeni nei quali le tendenze corporee e quelle incorporee coesistono, con tensioni maggiori o minori a seconda dei casi particolari: il melodramma, la cui origine è legata al tentativo di riesumare i sincretismi della tragedia greca, dal Settecento in poi vede spettacoli più legati alla corporeità (prima gli intermezzi e le opere buffe, poi l’operetta) opporsi ad altri più astratti (dall’Orfeo ed Euridice di Gluck a Fidelio di Beethoven al Parsifal di Wagner); parallelamente, la musica virtuosistica, vocale o strumentale, dalle estrosità divistiche dei castrati e dei violinisti secenteschi, si sviluppa fino a giungere nell’Ottocento al furore romantico di Paganini o Liszt.
Nel Novecento lo scenario sintetizzato nel paragrafo precedente si complessifica ulteriormente. In primo luogo, soprattutto in America e poi in Europa irrompono alcuni repertori legati a fenomeni esotici e alle nuove configurazioni sociali (in prima linea il ragtime, il blues, il jazz e il tango), che risultano dotati di una corporeità assai più marcata di altre tradizioni extracolte (le canzoni e i balli “all’antica”), valorizzata come una rivitalizzazione dionisiaca dai suoi sostenitori (molti dei quali spinti da tendenze moderniste) e svalutata come un indecoroso imbarbarimento dai suoi detrattori.
Simultaneamente, le spinte avanguardistiche sviluppano nella musica colta un interesse per la corporeità maggiore di quello avuto in passato: da una parte, nelle tendenze espressionistiche (che hanno le loro emergenze più intense nel Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg, nel Wozzeck di Alban Berg e nei lieder di Anton Webern, ma che si presentano anche nella loro musica strumentale), la si indaga come portatrice di dimensioni più legate all’inconscio di quelle affrontate dalla musica romantica; dall’altra, nell’antiromanticismo modernista (che ha come suo più clamoroso manifesto il Sacre du Printemps di Igor Stravinskij), se ne valorizzano i comportamenti collettivi, atavici, meccanici, barbarici (con numerosi riferimenti a tale proposito alla corporeità dionisiaca delle musiche extracolte non solo in Stravinskij, ma anche in Claude Debussy, Maurice Ravel, Manuel De Falla, Béla Bartók e altri antiromantici) a scapito di quelli individuali, civilizzati, sentimentali e misurati.
Nel periodo fra le due guerre, a tali tendenze irrazionaliste si reagisce con un “ritorno all’ordine”, identificato da una parte nella razionalità del metodo dodecafonico e dall’altra nel neoclassicismo apollineo (si pensi allo stravinskiano Apollon Musagète).
Anche nella popular music i repertori più corporei vengono marginalizzati: soprattutto in America, ma anche in molta musica europea, prevale uno swing bianco edulcorato e intorpidito dai canoni e dalle atmosfere della canzone Tin Pan Alley. L’introduzione del microfono, però, determina lo sviluppo di nuove tecniche vocali che consentono di avere una tavolozza molto più ampia di rimandi alla corporeità: questa direzione, inaugurata da Bing Crosby, Billie Holiday e Frank Sinatra, viene poi seguita rapidamente dai crooner europei.
A partire dagli anni Quaranta si sviluppa poi un nuovo tipo di jazz, il bebop, che compensa la sua scelta di non essere ballabile con una tendenza quasi espressionistica ad apparire come sintomo immediato di un vissuto corporeo particolarmente intenso. Il suo stesso nome evidenzia una delle componenti in esso più usate per conseguire tale effetto di senso: il suono breve e accentato, sintomo di un colpo e dello scatto corporeo corrispondente, che fa dichiarare a Langston Hugues che “è la polizia che picchia sulla testa dei Neri ad aver ispirato il bop. Ogniqualvolta uno sbirro colpisce un nero con il suo manganello, questo maledetto bastone fa “Bop, Bop!…Be Bop!!…Mop…Bop!” e il Nero urla “Ooool Ya Koo! Ou-o-o!” […] il ritmo dei colpi sulla testa del Nero è passato direttamente nell’interpretazione che danno del be-bop trombe, sassofoni, chitarre e pianoforti!” Oltre ai suoni brevi, cruciali sono le velocissime e lancinanti melodie ricche di suoni “sporchi” e di sortite sorprendenti, funzionali a evocare quella corporeità “esasperata, selvaggia, frenetica, pazza” che sempre Hugues vede come caratteristica senza la quale “non si può suonare il bop né tanto meno apprezzarlo”. In questa direzione si svilupperà tutta la tradizione del jazz più intensamente corporeo, che sfocerà prima nell’hard-bop e poi nell’esperienza free.
Quando allo swing si sostituisce il bebop, la nuova musica nera ballabile che si sviluppa è il rhythm and blues, il quale eredita le connotazioni barbarico/dionisiache delle musiche nere da ballo precedenti, assumendone inoltre delle nuove soprattutto a causa del particolare interesse rivolto nei suoi confronti da parte dei teenager. A partire da tale fenomeno, e dal crossover tra il rhythm and blues e altri generi corporei quali il country e il gospel, si sviluppa il filo rosso delle musiche corporee giovanili, con un continuo processo di traduzione di modelli dionisiaco-barbarici precedenti in nuovi contesti, attraverso il quale nascono, tra gli altri, negli anni Cinquanta il rock’n’roll, negli anni Sessanta il rock, il funk e il reggae, negli anni Settanta la disco music, l’heavy-metal, il rap e il punk, negli anni Ottanta la techno e il world beat.
La tradizione della musica nera più di altre ha tematizzato la corporalità come proprio dato essenziale, come qualcosa di intrinseco e assieme naturalmente collegato: musica nera come musica del corpo e per il corpo. Prendiamo ad esempio il funk, che stabilisce una connessione tra il ritmo biologico, quello quotidiano e quello musicale – come afferma André Leroi-Gourhan, ne Il gesto e la parola, 1964 –; nella cultura di massa si stabilisce così una sorta di isomorfismo tra la vibrazione della strada e la vibrazione musicale: “Now what you hear is not a test. I’m rappin to the beat and me, the groove, and my friends are gonna try to move your feet.” (Sugarhill Gang, Rapper’s Delight, 1979).
Il feeling, il salto, il ballo, il ritmo sono temi che ricorrono continuamente nelle parole dei brani di musica nera, dal r’n’b al soul, fino al funk e da qui all’hip-hop. Con un etimo che sembra alludere al sudore, o genericamente alla secrezione corporale (cfr. O. Cathus, L’âme sueur, 1998), il funk ha tentato con successo di esserne la traduzione figurativo-musicale: “It’s got to be funky!” urla James Brown, seguito idealmente da Funkadelic, Isaac Hayes, Prince.
Nel frattempo, nell’ambito della musica colta, i primi dieci anni del secondo dopoguerra hanno visto prevalere nelle avanguardie europee guidate dalla scuola di Darmstadt una tendenza all’astrazione razionale: il controllo strutturale delle altezze realizzato dalla dodecafonia viene esteso ad altri aspetti musicali che in precedenza hanno funzionato soprattutto come tracce di corporeità, quali le durate, le dinamiche e i timbri, molti compositori si dichiarano disinteressati all’inserimento in concreti contesti comunicativi delle loro strutturazioni, mentre simultaneamente si comincia a sviluppare la musica elettroacustica, le cui caratteristiche percettive possono essere del tutto svincolate da una dipendenza da gesti corporei finalizzati alla loro produzione, rendendo dunque fuori luogo considerare tali gesti durante il loro ascolto.
Tendenze decisamente diverse vengono però sviluppate negli stessi anni dalle avanguardie statunitensi, in particolar modo da John Cage: egli recupera in chiave personale, soprattutto nella sua collaborazione con Merce Cunningham, il modernismo dionisiaco del primo Novecento (si pensi, già nei titoli, a Bacchanale del 1940 e Totem Ancestor del 1942), si concentra sulle fonti sonore più refrattarie a un controllo totalmente razionale e strutturante (la voce, le percussioni, il pianoforte preparato, gli oggetti incapaci di emettere altezze determinate), focalizza l’attenzione sugli effetti delle sue composizioni sugli ascoltatori e inserisce nella musica elettronica suoni che evocano dimensioni corporee. Per Cage, comunque, la corporalità musicale ha un valore non in sé, ma come una delle manifestazioni di quell’insieme di immanenze potenziali che egli riassume nella sua concezione del silenzio, inteso non come assenza assoluta, ma come assenza di intenzionalità soggettiva.
Dal dialogo di Cage e altri esponenti delle avanguardie americane con quelle europee (non solo musicali, ma anche coinvolte nelle arti performative) scaturisce, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, il passaggio in queste ultime dall’organizzazione razionale alla ricerca di un’integrazione tra strutturalismo e corporeità, che vede tra i suoi primi esempi Gesang der Jünglinge di Stockhausen e Thema (Omaggio a Joyce) di Luciano Berio: paradigmatica è la figura di Cathy Berberian, protagonista di due altre composizioni di Berio che sviluppano intensamente tale tendenza, Visage e Sequenza III.
Una parallela integrazione di apollineo e dionisiaco nella popular music avviene a partire dalla metà degli anni Sessanta in generi quali il progressive rock, il jazz rock e il krautrock. Anche in questo caso, già alcuni titoli sono significativi: Atom Heart Mother, I Sing The Body Electric, Electronic Meditation. Questi titoli, e i repertori corrispondenti, sono riassumibili nella figura del sintetizzatore, inteso come strumento simbolo della compresenza di astrazione elettronica e corporeità evocata acusticamente, e nello stesso tempo carattere prevalente del musicista e del pubblico. In questi generi si sente costantemente la necessità della presenza sia di riferimenti a ritmi e suoni riconducibili al vissuto corporeo giovanile nella società (post-)moderna, che una loro elaborazione in un opus da contemplare esteticamente.
La rilettura in chiave postmoderna delle tendenze avanguardiste e popular, tendente all’integrazione e alla sintesi di astrazione e corporeità, ha condotto l’ultima fase del Novecento musicale a un’intersezione sempre maggiore di tali tendenze, fino a mettere sempre più in discussione la distinzione tra musiche alte e basse, nonché la sua corrispondenza con quella tra le musiche astratte e quelle corporee: per sottolineare tale fenomeno, basti pensare a quanto risulti sempre più difficile inserire in una sola di tali categorie figure quali quelle di David Bowie, Brian Eno, Philip Glass, Sylvano Bussotti, Phil Minton, Robert Wyatt, Heiner Goebbels, Fred Frith, Chris Cutler, Peter Hammill, Peter Gabriel, Demetrio Stratos, Mauricio Kagel, Giacinto Scelsi, Matmos, Aphex Twin, Radiohead, Björk.
Al termine di questo percorso, è opportuno concludere soffermandosi sulla voce come uno dei luoghi in cui con maggiore evidenza l’elemento antropomorfo e corporale occupa un significativo spazio nella musica. A tale proposito, nell’ambito della musica popularsono emerse nel tempo numerose figure che della propria voce hanno fatto uno strumento pari ad altri o che della propria voce hanno fatto un vero e proprio strumento d’espressione. Se Elvis Presley ha in parte incorporato la tradizione dei già citati crooner, i quali adoperano il microfono come protesi per amplificare i tratti materici della propria vocalità, altri suoi contemporanei si sono affermati per il carattere quasi strozzato, urlato della loro emissione vocale. Little Richard tra questi si impone come una sorta di capostipite di un possibile sviluppo del canto rock, soprattutto se pensiamo al successivo canto hard di Robert Plant dei Led Zeppelin o di Ian Gillan dei Deep Purple, canto che si imporrà per un lungo periodo come la cifra stilistica maggioritaria nell’intero heavy-metal. Se nel rock mainstream, per così dire “generalista”, si affermerà un cantato più scolastico, gli esempi vocali più significativi seguono invece una direzione eccentrica. La voce nasale e la dizione quasi incomprensibile di Bob Dylan, la voce transgender di Nico, il recitato di Jim Morrison e Lou Reed, la teatralità di voci come quelle di Peter Gabriel o Peter Hammill nel progressive, ma anche di Grace Slick, il mondo-a-sé costituito dall’universo sonoro di Robert Wyatt, la voce di Joni Mitchell, grammaticalmente così impeccabile da essere inimitabile, la linea patriarcale di Tim e Jeff Buckley le cui voci si distinguono per la particolare estensione ma anche per la capacità di controllare diversi registri, la non-voce di David Byrne, che per questo più di altre ha sperimentato all’interno del pop i limiti del geno-canto, come lo definisce Julia Kristeva in La rivoluzione del linguaggio poetico (1979). Un tipo di canto che lontano da ogni norma grammaticale ingloba al suo interno ogni possibile tratto corporale. Ricordare infine la ricerca sulla voce condotta da Demetrio Stratos è la naturale conclusione di questo elenco. La voce si costituisce così come un crocevia tra differenti domini, esperibili unicamente nella pratica, quasi come se essa, a differenza della musica, non potesse essere immaginata ma solo realizzata.