MUSAICO (da un gr. μουσαϊκόν "[opera] paziente, degna delle Muse": la forma però non è documentata; in tarda età si ha in greco μονσαῖον, μούσιον, μούσωσις, in latino musēum o musīum)
Disegno o pittura per mezzo di piccoli cubi di pietre naturali, di terracotta o di paste vitree, applicati sopra una superficie solida con un cemento o con un mastice. Il cemento è composto di pozzolana, polvere di marmo o di mattone, calce spenta e acqua, mescolati in proporzioni variabili secondo la qualità del lavoro, le condizioni ambientali, l'ordine dello strato. Sulla superficie da decorare se ne applica un letto di una dozzina di millimetri, che si lascia seccare e poi si ricopre di uno strato di gesso dello spessore dei cubetti da fissarvi.
Su questo si ricalca il disegno, e sulla parte che si vuol cominciare a eseguire si rimuove il gesso fino al cemento, colando nel vuoto così ottenuto un altro letto di cemento a grana più sottile.
Al cemento si preferisce oggi spesso il mastice, inventato verso la metà del Cinquecento da Muziano da Brescia, e composto di polvere di travertino, calce, olio di lino cotto e crudo. Esso è più leggiero, offre maggiore aderenza, e facilita le riprese del lavoro. Compiuta questa preparazione, il musaicista prende dalle varie caselle delle "scatole da degradazione" la materia colorata, la poggia sopra un "tagliolo" e con un colpo secco della "martellina" (martello tagliente) la foggia a dovere, rettificando, se necessario, la forma, con una piccola mola detta "rotino"; indi infigge il cubetto così ottenuto nel cemento o nel mastice, ove esso scava il suo letto, respingendo negli interstizî la materia spostata. Questa è l'esecuzione diretta del lavoro. Ma c'è un altro modo di condurlo con maggior comodità, detto "musaico a rivoltatura". Consiste questo nel preparare a gesso un piano di lavagna o di legno foderato di zinco, inquadrato a mo' di scatola con bordi di legno rialzati, smontabili; disegnarvi il soggetto, rimuovere il gesso e sostituirlo con pozzolana bagnata che ritiene i cubetti con sufficiente fermezza per vederne l'effetto. Sul lavoro così ultimato, s'incollano fogli di carta in pezzi sagomati seguendo le parti da asportare successivamente; e sulla carta una tela grezza. Appena tutto è secco, si taglia la tela, si estraggono i pezzi, si rivoltano per soffiarne via la pozzolana, e s'infiggono quindi nel mastice o nel cemento pronti a riceverli sul piano definitivo. Da ultimo, con un mazzuolo di legno se ne spiana la superficie. Poi, quando il cemento è secco, si asportano tela, carta e colla e si comincia il lavoro di lustratura con la medesima tecnica che si usa generalmente per la pietra. Per alcuni lavori si riempiono gl'interstizî di cera colorata scottata coi ferri da stucco.
Il musaico nell'arte antica. - Nel campo erudito si son lanciate varie ipotesi per spiegare le origini dell'arte musiva, ma tutte, a dir vero, non soddisfacenti: ed è perciò che di fronte alle diverse teorie di F. Poulsen, di F. Leonhard, di P. Gauckler e di altri è preferibile chiudersi in un prudente riserbo. Osserviamo tuttavia che l'intarsio di superficie rozze con tessere o tasselli di materie fini, procedimento che è comune al musaico, al commesso di marmi alla tarsia lignea e talvolta anche all'oreficeria, rappresenta il portato di un'attività estetica innata, di cui si rinvengono diverse manifestazioni in molti popoli; è quindi molto arduo ricercare quale di essi vi si sia applicato per primo. Ciò nonostante si constata che presso certi popoli tale procedimento artistico fu in grande onore. Additiamo anzitutto i Sumeri di Caldea, poi alcuni popoli siti all'ingiro del bacino mediterraneo, cioè Greci, Italici, genti dell'Africa del Nord, di Siria e di Palestina. Presso costoro infatti l'ornato musivo - inteso nel senso più largo della parola - sale agli onori della decorazione architettonica ed esce pian piano dalla primitività del disegno geometrico. Negli altri si esaurisce nella decorazione di piccoli monumenti. Questo è il caso dell'arte messicana che ha vasi, maschere cerimoniali, indumenti incrostati di smalti, di conchiglie, di lastrine di pietre multicolori e di piume. Nell'arte mesopotamica ricordiamo i rilievi del tempio di Ur, intarsi di madreperla su bitume, e il pilastro di Uruk Uarka (Erek) nella regione babilonese, che ha dei coni di terracotta coloriti alla base e infissi nella parete d'argilla. O. Fasiolo (Musaici d'Aquileia Roma 1915, pagg. 18, 19) contesta che questi esempî - e anche le incrostazioni egizie di smalti - possano ritenersi prototipi del molto posteriore musaico parietale greco-romano. E l'idea è certamente inammissibile, ove si vogliano riconoscere infinite catene di collegamento nella successione dei tipi dell'arte antica attraverso le varie regioni. Ma se il musaico greco-romano venga da noi considerato come l'ultimo stadio evolutivo di certi procedimenti che appaiono in germe nelle civiltà primitive, se le ragioni del suo diverso sviluppo nelle diverse regioni vengano da noi poste in relazione con le molteplici cause (a cominciare dalla disponibilità dei materiali), che favoriscono o arrestano la produzione di una forma d'arte, allora gli esempî della Bassa Babilonia rimarranno come un autentico precedente del musaico greco-romano, poco importando la diversa forma degli elementi costitutivi (i coni invece delle tessere) o la diversa materia adoperata (la terracotta o la madreperla invece della pietra o del vetro ossidato).
Nel mondo classico il musaico, a tessere di marmo e di smalto, è usato soprattutto come ornamento architettonico. Le due materie, il marmo e il vetro, colorato con ossidi metallici, determinarono ben presto due generi di rivestimento, giacché i marmi adornarono soprattutto i pavimenti, mentre gli smalti ebbero il maggior campo nelle pareti. Vi furono casi in cui gli artefici vollero incastrare vetri colorati nel terreno e marmi nelle pareti e nelle vòlte; ma questa inversione non variò di troppo le peculiarità tecnico-estetiche delle due applicazioni.
Tracce di un'antichissima decorazione a musaico di smalto si rinvengono in Egitto. Incrostazioni di smalti si hanno sin dalle prime dinastie: forse il materiale proveniva dalla Siria e dalla Fenicia, dove Plinio (Nat. Hist., XXXVI, 26, 65) localizza la leggendaria scoperta del vetro a opera dei mercanti di "natron".
L'epoca più fiorente di quest'arte vetraria egizia è il periodo ellenistico, sotto i Tolomei, in cui si giunse perfino a saldare innumeri particole per formare disegni con teste, fiorami, simboli mistici, ecc. Un'originale applicazione si sarebbe avuta sotto Gerone II, tiranno di Siracusa, che inviò a Tolomeo IIl d'Alessandria delle navi fastosamente decorate di musaici con le scene dell'Iliade a opera di due artisti greci dimoranti in Sicilia: Archimede e Archia di Corinto. Tolomeo IV Filopatore, vedendo in ciò superata la tecnica egizia del lavoro di commesso, avrebbe fatto, secondo la leggenda, costruire una nave con colonne e "antri" (absidi con incrostazioni vitree?) lavorati di musaico (Ateneo, Deipnosoph., V, pp. 206-E, 207). Il pensiero corre alle nicchie di fontane e alle colonne decorate di finissimi musaici che si vedono a Pompei e altrove nel mondo romano. L'Egitto restò, almeno per tutto l'evo antico, il grande fornitore della materia vitrea, e sappiamo da Vopisco (Vita Aurel., XLIV) che l'imperatore Aureliano fra le contribuzioni imposte all'Egitto poneva in primo luogo il vitrum. In conclusione sembra provato che il musaico di smalto fu importato in Italia dall'Egitto, ove la raffinata civiltà alessandrina aveva dovuto elevarlo ad alto grado di perfezione.
A conchesioni diverse ci porta lo studio delle origini del musaico pavimentale a tessere di marmi bianchi e colorati. L'idea prima di questa decorazione può essere venuta a chi osservò sulle rive del mare o dei torrenti gli strani disegni dei ciottoli multicolori, cui non manca altro fuorché una buona malta per essere fissati in una resistente platea. I primi esemplari di un consimile pavimento ce li offre la civiltà ellenica, sia in Grecia sia in Italia. A Olinto, nei recenti (1934) scavi del Robinson, sono apparsi dei musaici parietali con ninfe, nereidi, mostri marini e satiri e scene del ciclo omerico, i quali ricordano anche nei fregi la pittura vascolare del sec. V-IV a. C. Del resto la città di Olinto fu distrutta, come sembra, nel 348 a. C. Questi musaici sono soprattutto a tipo monocromo (bianco e nero), ma con qualche inserzione a tinte leggiere verdi e rosse. Quindi una policromia molto semplice. A Olimpia, nel Leonidaion, vi è un piano di semplici sassi, e dei pezzi di marmi varî sono nel pavimento del palazzo macedone di Palatítsa. Anche in Olimpia il pronao del grande tempio di Zeus ha un piano decorato da sassi di torrente, una specie di "terrazzo" veneziano, che però W. Dörpfeld attribuirebbe alla prima età romana. Perciò ha forse ragione Plinio quando asserisce che i pavimenta ebbero origine presso i Greci (Nat. Bist., XXXVI, 61), e quando riconosce il loro tipo originario nel pavimentum barbaricum, le cui tracce sono infatti nei livelli più antichi, e che appare costituito da sassolini di torrente (lapilli) inserti confusamente o secondo rudimentali disegni.
Ma il procedimento greco dei pavimenti cementati con calce, o con argilla, fu perfezionato, come osserva L. Fougères, in Italia con l'adozione dell'opus signinum, mescolanza di cocciopesto (v.) con calce, che dà una malta rossigna assai resistente (pavimentum testaceum). In questo letto scuriccio apparvero prima i lapilli, poi delle schegge a grossolani segmenti (fistucae) di porfido e d'altri marmi (opus segmentatum).
Bei musaici segmentati, forse del sec. I dell'impero, sono nello strato più profondo fra la basilica e il campanile d'Aquileia. Altri si vedono nel museo di Trieste cavati dalle ville romane dei dintorni. Forse il "terrazzo" alla veneziana rappresenta la tradizione di questo tipo continuata fino in epoca moderna.
Pian piano il letto di malta diventa sempre più invisibile sotto l'incalzare di segmenti marmorei, con i quali si tenta di creare anche qualche disegno semplice, quale poté avere il pavimentum scutulatum (Plin., Nat. Hist., XXXVI, 61), cioè a losanghe (scutulae; la lezione scalpturatum delle vecchie edizioni pliniane è inaccettabile), costruito nel tempio di Giove Capitolino dopo la terza guerra punica. Un intreccio di losanghe può vedersi ad Atene, nel luogo dell'orchestra del teatro di Dioniso.
Ma il sistema fin qui seguito non poteva prestarsi che a composizioni rudimentali, ben lontane dai corretti ornati dei pavimenti a intarsio di crustae marmoree (opus sectile). E perciò si dovette pensare a una fattura più facile ed economica del commesso, regolarizzando la forma delle fistucae in modo che si potessero bene accostare l'una all'altra. Il segmento diventò tessera o tassello: a cubo, a parallelepipedo più o meno regolare, talvolta di altra forma: tessera, tessella, abaculus, gr.: ἀβακίσκος.
Νε ναγςυε υνα σορτα δι παξιμεντο γθε, γομε ςυελλο δεγορατο ιν opus sectile, fu qualificato lithostroton.
La parola greca non deve però indurci ad affermare l'origine greca del tipo. Plinio è reticente in proposito, né l'accenno a Soso di Pergamo, che segue alla menzione del litostroto, può essere logicamente presa per un'affermazione del genere. La parola lithostroton è, come si è detto, promiscua, data in Grecia al commesso, fu estesa al musaico di tessere marmoree che gli somigliava. I litostroti, secondo Plinio, "coeptavere iam sub Sulla" (Nat. Hist., XXXVI, 64). Il dittatore ne avrebbe offerto uno al celeberrimo tempio della Fortuna in Preneste, da lui rinnovato. In questi ultimi anni O. Marucchi ne riconobbe un tratto in una zona più antica del tempio: e noi vi scorgiamo un tipo di transizione fra l'opus sectile e quello che si dirà tessellatum. Alcune tessere sono quadrate, altre di diversa forma, e, cosa notabile, vi s'inseriscono dei tasselli un po' più grandi e di colore diverso, autentiche crustae. Ecco l'opera dei pavimentarii giunta a un avanzato stadio evolutivo, che può permettere le più svariate combinazioni ornamentali. Ma con questo usciamo dal periodo delle origini. Peraltro, circa un secolo avanti la fondazione dell'impero si usava già di nobilitare il centro di un pavimentum con un emblema, vale a dire con un quadro di musaico trattato a opus vermiculatum: ce lo dice un verso di Lucilìo citato da Plinio. Ma poiché l'emblema era un'inserzione, è chiaro che il tipo meno complesso è più antico, sia che si trattasse del genere promiscuo, come il litostroto prenestino, sia che si trattasse del tipo schiettamente musaicale, come quello delle case repubblicane sotto la "Domus Flaviana" del Palatino. A questo secondo tipo spetta il nome di pavimentum (mai opus) tessellatum, giacché è formato di tessere per lo più a cubo regolare.
Nel patrimonio di motivi geometrici del tessellatum entrarono subito quegli ornati che l'arte greca arcaica - e, per riflesso, quella dei popoli italici - aveva usato in cornici, pareti, basi, e aveva riprodotto in oggetti minori, trattandoli con tonalità piatte nei tre colori fondamentali: il giallo, il rosso e il nero. Vediamo infatti, accanto alla treccia semplice, quella doppia raccordata al centro da cordicelle, e in tutto simile all'esemplare del "geison" fittile dei templi dorici di Metaponto e di Selinunte. Analogamente si rileva la frequenza della "greca" semplice e della doppia combinata a meandro, così lineare come prospettica, della modanatura semicilindrica apparente traversata da bande oblique di vario colore, della teoria di caulicoli, della fascia denticolata, del ramo continuo di foglie a cuore. Ciò, oltre ai comuni elementi della decorazione architettonica, come ovuli, astragali, nodi gordiani, o agli altri del patrimonio decorativo comune a tutti i popoli: losanghe, stelle, pelte, scacchi alternatamente bianchi e scuri, e così via.
Questi motivi erano entrati da tempo immemorabile nel patrimonio dell'arte etrusca: ciò ci riporta all'elaborazione italica del tessellatum. Vi è in esso qualcosa della rudezza e della logica severa, che caratterizzano l'arte romana, giacché la cubicità degli abaculi permette soltanto quelle combinazioni che facilmente s'inquadrino nell'architettura dell'ambiente. È facile accorgersi che vi sono rispondenze notevoli fra gli scomparti e persino il genere dell'ornato parietale e del pavimentale. Anche la specie di tesse "latum preferita, il monocromo (contrasto di tessere bianche e nere o palombino-scuro), mentre rammenta le figure nere dei vasi arcaici, sembra fatto apposta per intonare in ogni caso il pavimento, che ha una risultante quasi neutra, alla policromia delle altre parti. Anzi B. Nogara (Mosaici di Roma antica, in Conferenze e Prolusioni, III, 1909) ha voluto stabilire legami stretti fra l'evoluzione dei tipi musivi e la variazione stilistica della pittura parietale (per ciò che riguarda l'epoca anteriore agli Antonini). Con lo stile "ad incrostazione" pone in rapporto il tessellatum bianco-nero con motivi ornamentali geometrici, escludenti il rilievo e la prospettiva; con lo stile "architettonico" collega lo stile ornamentale più ricco, anche a figure, e con inserzione di copie di quadri eseguite in vermiculatum. Al terzo e quarto stile "pittorico" riunisce musaici che perfezionano i tipi antecedenti. La datazione di parecchi musaici dev'essere riveduta e cosi pure il giudizio sulla pittura parietale romana (specie dopo il sec. I d. C.); non assumeremo perciò le notate rispondenze come criterio assoluto, rilevando d'altra parte come il musaico a Pompei è ancora una preziosità pavimentale o parietale, e proprio i mal giudicati secoli II-IV vedono l'arte musiva salire ai più alti fastigi dell'ornato monumentale.
Un genere, diremo così, termale è il tessellatum a onde, che si vuole provenga da disegni rettilinei veduti attraverso il cristallo dell'acqua. Ma, senza andare a queste origini, è certo che essi nacquero dal desiderio d'imitare una superficie d'acqua in movimento, e altresì dall'impotenza a rendere le onde prospetticamente.
Il monocromo non fu mai abbandonato e ha importanti sviluppi sino al sec. IV d. C. Vediamo che il nastro scuro delle trecce si orla da un lato di rosso e di giallo; poi vi si aggiungono motivi stilizzati di flora o giuochi illusionistici, ottenuti a mezzo dei colori.
L'impulso a queste più vivaci creazioni venne forse dal genere di musaico di cui parla il citato verso di Lucilio: l'opus vermiculatum. Sulla sua origine non esiste dubbio, perché appare dapprima nell'ἔμβλημα. L'emblema, almeno nei primi tempi, è un quadro concepito liberamente dall'artista, spesso senza conoscere se potrà essere adatto al luogo cui è destinato. Egli infatti prende una lastra sottile di marmo o un tegolone, e, preventivamente isolandola con uno strato oleoso, vi distende sopra lo stucco, la cui massa è raffrenata ai fianchi dalle pareti di una cassetta: indi compone con le tessere il soggetto che più gli garba. L'acquirente, ricevendo l'emblema, fa scavare un vano appropriato al centro del pavimentum tessellatum e ve lo incastra. Vi sono esempi di tessellati che circondano un emblema vermicolato, così come certe amplissime cornici opprimono una minuscola tavoletta dipinta. E poiché i due generi di musaico sono ben diversi, accade talvolta che la cornice è in contrasto stridente col quadro. Vi sono esempî in cui si vede lo spezzamento delle geometrie di un tessellatum per la forzata inserzione di un emblema; altre volte invece la cornice è appropriata all'emblema.
I primitivi centri d'importazione di questi emblemata devono porsi in Grecia, in Asia Minore e in Alessandria, circa la fine del sec. III a. C., poiché i soggetti delle più antiche produzioni rivelano il fiorire della produzione "di genere" ellenistica. Si aggiunga che dei due nomi apposti a due celebri emblemata, quello dei Suonatori comici di Pompei (v. attori, V, p. 302, fig.) e l'Asaroton ("non spazzato") romano, ora nel Museo Lateranense (v. banchetto, VI, p. 63, fig.), uno, Dioscoride Samio, dice senz'altro la nazionalità dell'artista, l'altro, Eraclito, dalla grafia del nome e dalle figurazioni egittizzanti nella fascia del contorno, può far pensare a un alessandrino. Un terzo nome ci fu trasmesso dai documenii, quello di Soso di Pergamo, che Plinio ricorda come inventore di quel genere tricliniare che ebbe tanta voga tra gli artefici antichi, fra cui è l'Eraclito ora nominato, cioè l'asaroton. Vi si finge un pavimento ancora ingombro degli avanzi di un pasto abbondantissimo, razziati dagli animali. Soso di Pergamo, che fu il più fine idealizzatore di questo soggetto prosaico, vi immaginò nel mezzo una tazza piena d'acqua, con due colombe salite sull'orlo per abbeverarsi (Plinio, Nat. Hist., XXXVI, 60). L'opera ebbe numerose derivazioni nell'arte pagana e cristiana, e una di esse è il noto emblema del Museo Capitolino, la "tazza delle colombe". L'autore dell'asaroton di Aquileia (ora nel R. Museo) fu di un verismo insuperabile. Ma se pure si volesse dire che i nomi di Dioscuride Samio e di Eraclito sono quelli dei pittori di tabulae, o di grandi affreschi parietali di cui questi musaici sono copia (veramente per l'asaroton di Eraclito l'insinuazione è meno fondata), resta la considerazione che l'opus vermiculatum e per la tecnica e, a volte, per le materie da cui è composto, è assolutamente diverso da quanto apparteneva alla più antica tradizione romana. In luogo della tessera cubica, l'artefice taglia i marmi e gli smalti come più gli conviene, così da disporli nel senso richiesto dalle figurazioni. Questi filari si aggirano serpeggiando come vermi (donde vermiculatum); di rado s'aggruppano confusamente dove c'è bisogno di produrre una data tonalità, e varia la grandezza delle tessere secondo le parti del quadro: in taluni punti, specie negli esemplari più antichi, si raggiungono delle piccolezze inverosimili. Ecco dunque una manifestazione tipicamente pittorica che, se si bada agli emblemata del primo periodo, non lega con le architetture se non come un pannello decorativo, e talvolta come un quadro del tutto accessorio. All'esecuzione del vermiculatum non sono sufficienti pochi toni semplici di marmi usuali, e perciò si ricorre alle pietre dure, come il lapislazzuli, il diaspro, la cornalina e anche l'alabastro, l'agata, l'onice. Raramente vi è necessità della terracotta. Con frequenza si richiedono certi toni alle paste vitree, opache o semitrasparenti, largamente usate in Egitto, come vedemmo, all'epoca tolemaica. In esse si scelgono il turchino cupo, il giallo vivo, i verdi, il rosso. Sembra che nel sec. XII si trovassero ancora molti esempî di queste tessere di smalto denominate dalle origini fino al tardo Medioevo: vitrum (e mai smaltum), giacché il monaco Teofilo, nella sua Schedula diversarum artium, poteva distinguerne molte qualità.
Un tipo di musaico simile non giunge alla perfezione degli emblemata pompeiani senza essere passato per varie fasi che, a dir vero, non sono bene individuabili, mancandoci gli elementi del periodo più antico. Bisogna considerare la speciale educazione estetica del musaicista, il quale vede prima entro sé la figura che si propone di tradurre in musaico, idealmente scomposta in tutte le sue gamme coloristiche. Vi sono dei toni intermedî per cui non troverà mai il materiale corrispondente, e allora, non potendo beneficiare d'impasti, è costretto a giustapporre due colori che nell'occhio del riguardante si fonderanno nella tonalità desiderata. È ovvio che alla base di questo processo divisionistico vi è un primitivo impressionismo, guidato, specie per il caso che ci occupa, da una particolare sensibilità per le differenze cromatiche. E presto il vermiculatum cede all'impressionismo, rivelando in pari tempo le sue origini divisionistiche. Si vede che il periodo ellenistico era giunto, nei riguardi dell'arte musiva, a un vero accademismo, proponendosi di equiparare le pitture su tavola o gli encausti delle pareti. Si era sognata la "pittura per l'eternità". Ma il mondo romano diede, sia pure inconsciamente, il colpo mortale a questa concezione. Poterono i raffinati chiedere ancora i preziosi emblemi e farseli venire da lontano: ma ormai l'arte del musaico era avviata verso la grande decorazione monumentale e diveniva un genere pittorico indipendente.
Moltissimi musaici della tarda età imperiale saranno decisamente impressionistici, ma pure l'emblema si risolverà nella grande decorazione monumentale. Non altro che un estesissimo emblema, che giunge a occupare quasi tutta l'area di un ambiente, è il celebre musaico della "battaglia d'Alessandro" trovato a Pompei e ora nel Museo Nazionale di Napoli.
Esso è la riproduzione di una pittura greca che si ammirava in Roma nel tempio della Pace dedicato nel 75 d. C. La celebrata opera pittorica poteva provenire da Alessandria e invero parrebbe, come nota G. E. Rizzo (in Boll. d'Arte Min. P. Istr., giugno 126, p. 543). che artisti alessandrini abbiano lavorato agli altri mu. sa) ci (quello con il paesaggio nilotico, quello con il gatto che afferra un uccello, ecc.) trovati nella medesima casa del Fauno dove, in una grande exedra, si distendeva il musaico della battaglia. Ma è da ritenere che o la fattura di questo musaico sia stata fra il 75 e il 79 d. C. (data della distruzione di Pompei), o che abbia preceduto di poco il trasporto a Roma dell'originale pittorico. La casa del Fauno, senza dubbio precedente all'occupazione romana di Pompei, ebbe poi dei proprietarî romani e a essi forse spetta questo abbellimento. La sua tecnica musiva, quarant'anni dopo la distruzione di Pompei, si potrà ancora osservare nei bellissimi emblemi della villa Tiburtina di Adriano, oggi conservati nel Museo Vaticano (la "lotta tra il leone e il toro", la "scena pastorale"), o nel musaico del Nilo del tempio della Fortuna di Palestrina (ora nel locale palazzo Barberini), e nell'altro col faro che ancora si vede in situ nello stesso tempio: ambedue possono attribuirsi all'età adrianea, che lasciò altre significative tracce in Preneste. Alla fine del sec. I o agl'inizî del II il proprietario di una villa romana presso la odierna Zliten (Tripolitania) ornava la sua villa con stupendi musaici, che risentono anch'essi dell'arte alessandrina. Uno ha delle superbe figure di Stagioni, gustose scenette esotiche e vivai di animali diversi. L'altro ha scene di anfiteatro (soggetto che si ritroverà in parecchi musaici) e dei pesci, un terzo ha graziose volute floreali e fauna marina reale e fantastica. Da un'altra sala si tolsero quadri con scenette della vita agricola (soggetto anche questo assai apprezzato da parecchi musaicisti d'Africa), ma il trattamento impressionistico distingue questi quadri dal musaico delle Stagioni e da quello con le volute: non tanto dall'altro con scene di anfiteatro che ha caratteri di sintetismo pittorico. Da notare che il musaico delle Stagioni e quello con scene d'anfiteatro hanno l'inserzione di riquadri con intarsî di marmi colorati.
Per quanto qualcuno di questi musaici di Zliten appaia come una posteriore inserzione in un pavimento, e cioè come un vero e proprio emblema, c'è da osservare che difficilmente la fattura di tale emblema avvenne in tempo lontano, giacché in questa villa non vi sono soltanto dei riquadri, ma anche il musaico delle volute con gli animali, che Iu eseguito appositamente per la stanza a pianta a quarto di cerchio in cui fu trovato. Dunque è da credere che in un certo periodo dei musaicisti raffinati seguirono a poca distanza di tempo i comuni pavimentarii: fors'anche si alternarono a essi. Altri musaici d'Africa ci dànno esempio di tali inserzioni. E nello stesso musaico delle volute, il fatto che taluni particolari sono eseguiti con una miriade di tessere minutissime, dimostra che ormai si padroneggiano tutti i procedimenti tecnici ed estetici, e chi fa il quadretto può anche arbitrarsi a decorare tutta una grande aula. Ecco dunque che la decorazione musiva monocroma e policroma, a combinazioni geometriche o a complicate figurazioni, si distende per le aule non soltanto delle case, ma delle terme, delle palestre, della basiliche. Il musaico diventa un'autentica gloria romana: l'Africa fu detta la patria dei musaici, perché nessun altro luogo ce ne ha lasciati tanti, e tutti dell'età romana.
Le zone più a contatto con l'Africa annoverano degli splendidi esemplari musivi: si vedano in Spagna il musaico di Empurias (Emporion) con il sacrificio di Ifigenia, o quello di Barcellona con le corse del circo. Anche la Gallia ne è ricca: notevole uno di Vienne con quadretti rappresentanti le varie occupazioni della campagna, come un grande calendario rustico figurato. Ad Aquileia, ove ebbe tanta parte l'elemento africano, è una mirabile accolta di musaici con svariati temi decorativi e con figure. Un capolavoro è il musaico di Afrodite (o una Nereide?) su toro marino, oggi nel museo locale.
In un musaico pavimentale trovato a Negrar di Valpolicella (Verona), che ha per soggetto una corsa di bighe condotte da Eroti e particolari del culto frigio, appaiono tessere d'oro. E opera del sec. III, come pure appartiene al sec. III un grande musaico con scene circensi, oggi nel museo di Villa Borghese. Esso già rivela talune di quelle stilizzazioni che appariranno più evidenti nel grande litostroto cristiano della basilica di Aquileia (primi decennî del sec. IV). Grossolane, ma viventi figurazioni sono quelle degli atleti del musaico delle terme di Caracalla in Roma (ora nel Museo Lateranense), dove peraltro la tecnica musiva è raffinata, la policromia è calda, gl'impasti di colore risultano perfetti e il chiaroscuro dà rilievo alle tozze figure di pugilatori.
Degno di ricordo è anche il vasto musaico con scene di caccia, trovato nei pressi di S. Bibiana in Roma e ora nell'Antiquarium del Governatorato: vi è rappresentata una cattura di belve. Vi si notano alcune parti trattate in modo assai sommario, e poi tocchi di luce improvvisi e la mancanza di fusione delle tinte. Siamo forse sulla soglia del sec. IV (non all'età teodoriciana cui ha pensato M. Rostovzeff) e possiamo trovare molti raffronti stilistici nel citato musaico della basilica teodoriana di Aquileia. Questa ci offre tutta una serie di manifestazioni dell'arte musiva, di grande interesse, che vanno dalla fine del sec. III o principio del IV fino al sec. VI.
La successione aquileiese ammaestra sul variare del musaico pavimentale anche in altre regioni. Sia qui da ultimo ricordato un musaico della Villa Mattei a Roma con figure di uomini e animali, notevole come testimonianza di una tecnica che ormai non si studia più di allineare i filari di tessere, ma pone talvolta queste ammassate, solo per produrre la macchia di colore. L'opera può essere attribuita al sec. IV. All'epoca di Diocleziano, come osservò P. Gauckler, non si sa più dove finisca il tessellatum e dove cominci il vermiculatum. Già da tempo il tessellato monocromo aveva infranto la tirannia dei soliti temi decorativi e si era vittoriosamente provato in larghe composizioni con svariate figure (cfr. il musaico della Villa Lancellotti di Frascati, pubbl. in Monum. dell'Istit., VI-VII, tav. 82; ovvero le scene marine delle terme di Caracalla, ecc.). Fuori d'Italia abbiamo gli esempî antichissimi di Olinto di cui si è parlato.
Quindi un cammino convergente accostava sempre più il vermiculatum al tessellatum e la fusione poté avvenire non molto dopo l'epoca degli Antonini e dei Severi. Il musaico pavimentale della fine del sec. IV e del V tende sempre più a limitarsi alle combinazioni geometriche e floreali stilizzate. Sulla fine del sec. V, o agl'inizî del VI, riprenderanno il campo le figurazioni, specie di animali, e tutto l'ornato sarà fastosissimo, ma ben lontano dal naturalismo della prima epoca e solo caratterizzato da una vivace e poco fusa policromia. Notevole il costante attaccamento a certi temi decorativi classici (v., come es., i musaici della basilica giustinianea di Sabrata in Tripolitania).
Questo sviluppo del musaico pavimentale coincide con l'evoluzione del genere musivo parietale. La parola musivum secondo il Gauckler non designa che la pittura murale a cubi di smalto. Abbiamo in proposito varie testimonianze epigrafiche e letterarie. Il codice Teodosiano distingue i tessellarî dai musivarî: il pavimento è fatto dai tessellarî ed è detto λιϑόστρωτον (l'appellativo Lomprende il vermiculatum e il tessellatum). Per il musaico parietale si osserva che in età bizantina esso si diceva ψηϕολόγημα, ψηϕῖδος διάϑεσις l'arte, e ψηϕοϑέτης il musaicista (Ducange, Gloss. ad verb.: Musivaria Ars.).
Abbiamo scarsi esemplari di questo musaico parietale, ma bastano a farci comprendere che lo si adoperò largamente specie a partire dal sec. II d. C. Prima era limitato a quadretti, a rivestimenti di fontanine o di fusti di colonna, come negli esempî pompeiani. E perciò la tecnica era minuta e gli artisti non conoscevano il trattamento necessario per la decorazione che deve vedersi a distanza. Invece la nicchietta col Silvano, scoperta a Ostia (ora nel Museo Lateranense), ha già delle convenzioni che farebbero credere a un'opera del sec. IV o del V, mentre è del II. Un bel frammento decorativo fu notato a Leptis Magna; altri furono trovati ad Aquileia ed egregiamente illustrati da G. Brusin (Not. Scavi, 1929). Una bella nicchia decorata si trovò di recente ad Anzio (ora nel Museo Naz. Romano). In una nicchia di ninfeo a valle dell'Incastro sulla strada di Tivoli, il rozzo ornato a volute d'acanto è un autentico precedente del motivo nell'abside della cappella delle Ss. Rufina e Seconda nel battistero Lateranense (sec. V). Nell'ipogeo scoperto a via Livenza in Roma, una parete ha figure di amorini. In una casa del Quirinale fu trovato il quadro col porto di mare che ora sta nell'Antiquarium del Governatorato. Possiamo farci un'idea della perduta decorazione musiva delle vòlte guardando all'ornato pavimentale. Infatti nel mausoleo di Costantina (S. Costanza sulla via Nomentana in Roma) i temi decorativi sulle vòlte della navata anulare sono i medesimi che troviamo in pavimenti d'Italia e d'Africa. Anche nelle fontanine pompeiane è palese l'ascesa di temi decorativi pavimentali. Dal sec. IV s'inizia la grande evoluzione del musivum parietale, per cui si formano artisti che sempre più si rendono conto dell'effetto a distanza e usano di nuovi accorgimenti tecnici (obliquazione di tessere, ecc.). Vi sarà pure il maggior uso dell'oro nei magnifici rivestimenti parietali.
Il musaico nell'arte medievale e moderna. - Recenti ritrovamenti a Ercolano, aggiungendo nuove prove del larghissimo uso di musaici parietali nell'antichità classica, hanno rivelato altri precedenti non soltanto a motivi ornamentali, ma a tonalità poi seguitate dai musaicisti medievali. È pertanto da abbandonare la seducente ipotesi che i musaici della vòlta anulare di S. Costanza a Roma (metà del sec. IV), coi loro fondi bianchi e con le derivazioni dagli "asarota", segnino il trapasso della decorazione musivaria dai pavimenti alle pareti e alle vòlte: da tempo l'arte ellenistica e romana aveva applicato il musaico a decorare grandi superficie murarie, come s'intravvede ancora nella cupola del tempio di Diana a Baia, in quella del tempio di Esculapio nel palazzo di Diocleziano a Spalato, nel mitreo sotto la chiesa di S. Clemente a Roma, tralasciando altri monumenti. Ma l'arte cristiana del Medioevo, e fin dal sec. IV al VI, diede nuovi sviluppi al musaico murale, formandone la più insigne veste delle chiese soprattutto nelle absidi, in cui essa doveva adombrare in forma più schietta le nuove credenze sotto specie di visibile rivelazione. Per esprimere i nuovi concetti religiosi l'arte trovò allora uno stile sempre più purificato dai residui della classicità, intento ognora più ad astrazioni e a simboli: e se a ciò fu determinata dalle ragioni intrinseche che la portarono a innovarsi in ogni ramo - non meno nell'affresco che nella miniatura o nel musaico - essa, nel suo mutarsi dalle forme antiche alle medievali, poté essere affrettata dalla stessa tecnica musivaria. Questa, scindendo il colorito in staccate unità cromatiche, doveva favorire il semplificare la forma plastica, il trasporla in modi lineari, il prevalere delle schematizzazioni decorative sugl'intenti di rappresentazione naturalistica. E per vero, senza volere limitare nessuna possibilità all'arte e alla tecnica, dinnanzi ai numerosi monumenti dell'arte musivaria del Medioevo e moderna, bisogna riconoscere che le opere in cui essa raggiunse una propria maggiore altezza sono quelle in cui più rispettò la natura del proprio materiale pittorico senza forzarne la capacità di fusione cromatica, anzi valendosi appunto del frazionamento del colore nelle tessere, della loro diversa inclinazione sulla superficie muraria e del conseguente vario rifrangersi della luce nella materia vitrea, per trarne suoi particolari effetti di leggerezza e di vibrazione, di trascendente semplificazione della forma. Le pale a musaico degli altari della basilica Vaticana, condotte levigatamente con innumerevoli gradazioni di tinte per simulare e sostituire dipinti a olio o affreschi, sono monumento d'ingrata laboriosità; i musaici del sec. IX nelle basiliche romane, apparentemente rozzi, entro i loro limiti di veste decorativa, sono invece improntati a sottile senso d'arte. Ma sarebbe errore separare dalla pittura in genere la pittura musiva nelle sue vicende: per contrario, e malgrado i differenti mezzi cromatici, esse furono sempre strettamente congiunte; anzi, non è dubbio che la pittura ad affresco, essendo più largamente praticata, sia sempre stata guida ai musaicisti: ne è prova lo stesso uso (rilevato dai restauri nei musaici di S. Maria Maggiore a Roma, dai resti nell'arco trionfale del duomo di Salerno, ecc.) di abbozzare largamente sull'intonaco, anche a piene tinte come per gli affreschi, le composizioni da eseguirvi a musaico; ma soprattutto lo attesta la rispondenza dei modi stilistici, tale da dovere riunire in una sola successione storica dipinti e musaici. Pure, l'arte musivaria ebbe centri suoi particolari di tradizione e di attività: mentre la pittura murale era esercitata facilmente per tutto, essa fu limitata presto dalla difficoltà di procurarsi il necessario materiale vitreo: perciò si ridusse da ultimo in pochi luoghi, come ora specialmente a Venezia, e a poche maestranze. Furono quasi tutti italiani i musaicisti che lavorarono a Londra, a Parigi, a Pietroburgo nel sec. XIX, e italiani furono i maestri che v'impiantarono laboratorî; e se già nel secolo XII Roma e Firenze chiamarono musaicisti veneziani, da Venezia venne a Roma Luigi De Pace per i musaici disegnati da Raffaello alla cappella di S. Maria del Popolo, e veneziani furono al termine del secolo XIX i decoratori della facciata del duomo di Amalfi.
Per il periodo dal sec. IV al VI, che fu costitutivo di molte tradizioni musivarie durate fino al secolo XIII, l'Italia conserva un'imponente serie di musaici monumentali, pur dopo la distruzione di molti altri; ed essi segnano ancora i maggiori centri di attività artistica in quel tempo, a Roma, a Ravenna, a Milano, a Napoli, mentre anche in luoghi minori (Albenga: battistero; Casaranello, in Terra d'Otranto: chiesa) restano importanti monumenti della diffusa operosità dei musaicisti. A Roma, dove i musaici murali formano ancora una successione continua dall'età costantiniana al sec. IX inoltrato, i più antichi seguitano assai strettamente i modi della pittura ellenistico-romana, sebbene v'introducano elementi nuovi piuttosto concettuali che puramente formali, nei quali si possono cogliere gli esordî delle mutazioni future. Sono i musaici di S. Costanza, quelli di S. Pudenziana (fine del sec. IV), della navata e dell'arco trionfale di S. Maria Maggiore, dell'atrio del battistero lateranense (sec. V). In questi ultimi deriva dalla decorazione classica non soltanto lo sviluppo in girali del cespo di acanto, ma anche l'intenso e unito fondo azzurro e il "padiglione celeste" che si trovano già nei ricordati musaici di Ercolano. Ma il musaico dell'arco trionfale di S. Paolo fuori le mura (440-461) manifesta, pur dopo il suo totale rifacimento, profonde innovazioni: nel diminuito senso dello spazio, che appare dall'insieme della composizione benché sia ormai impossibile constatarlo nei particolari; nello sfondo, dove all'azzurro atmosferico dei precedenti musaici è sostituita quella distesa superficie d 'oro (tessere d'oro sembrano essere state adoprate raramente in musaici classici), che doveva divenire lo sfondo più frequente dei musaici medievali, non soltanto adatto al loro contenuto trascendente, per evocarne le figurazioni in un cielo irreale, ma quasi necessario alla coerenza d'uno stile che diminuiva sempre più le impressioni di spazio e di volume, di movimento e di luce, per comporre una visione astratta, fuori d'ogni contingenza e perciò presto fissata in canoni e in schemi impersonali. Il musaico absidale dei Ss. Cosma e Damiano (526-530) è un capolavoro che concilia e quasi fonde felicemente la tradizione classica con gli opposti concetti dell'arte medievale, poi in tutto dominanti, anzi già fissati in una loro aridità, nel musaico dell'arco trionfale di S. Lorenzo fuori le mura (578-590), dove sul fondo d'oro non vè spazio, le figure sono quasi senza rilievo nel colorito duramente contornato dei volti, striato da pieghe manierate nelle vesti, nella composizione e negli sguardi non è che un'estatica immobilità.
I musaici dei secoli V e VI a Milano (S. Lorenzo: cappella di S. Aquilino; S. Ambrogio: cappella di S. Satiro) e in Campania (Napoli: battistero presso S. Restituta; S. Prisco, presso Capua) attestano in differenti fasi lo stesso procedimento verso il nuovo stile; quelli di Ravenna, vastissimi. rivelano meglio dei romani che quel trasformarsi fu complesso, contrastato da opposte tendenze, ma lo mostrano anche in più vigoroso sviluppo. Periti i musaici del sec. IV, restano a Ravenna del sec. V quelli del mausoleo di Galla Placidia, e del battistero degli Ortodossi; della prima metà del sec. VI, i musaici delle due zone superiori nella navata di S. Apollinare Nuovo, quelli del battistero degli ariani, del presbiterio di S. Vitale, della cappella dell'arcivescovado, seguono, dello stesso secolo, i musaici di S. Apollinare in Classe, quelli delle teorie dei santi e delle sante in S. Apollinare Nuovo. E ai ravennati si possono congiungere, sebbene non vi abbiano esatto riscontro di maniera, i musaici della cattedrale di Parenzo (circa 530-circa 560). In così vasta produzione, è ovvio trovare diverse maniere e, dopo la perdita di molti altri musaici, una successione non sempre bene concatenata di fasi stilistiche. Sorprende, nondimeno, vedere quasi nello stesso tempo, in un medesimo monumento - nel presbiterio di S. Vitale - due concezioni molto divergenti tra loro: la viva discendenza dalla pittura ellenistico-romana nei musaici delle pareti; gl'intenti più particolari della pittura medievale, pienamente sviluppati nella conca dell'abside, e già invadenti i due riquadri rappresentanti Teodora e Giustiniano con il loro seguito. Codesti intenti furono poco dopo attuati anche più altamente nell'abside di S. Apollinare in Classe: quivi ogni riflesso classico perde vigore; sorgono pure le concezioni medievali più nuove, in una forma simbolica a sé conveniente, che dà al musaico l'aspetto di prezioso tappeto componendovi il cielo d'oro la vastità verde e gialla del terreno, ogni cosa in schematiche semplificazioni e in moltiplicati splendori cromatici che affascinano l'occhio e liberano dal sensibile la fantasia.
Il coesistere di quelle diverse concezioni nel sec. VI non fu particolare a Ravenna; e ciò porta a cercare le relazioni dei musaici ravennati entro la vasta orbita dell'arte cristiana: ma di tale ricerca non è qui luogo, mentre essa dovrebbe volgere, per riuscire a qualche conclusione, non soltanto sul musaico ma su tutta la pittura, anzi sull'intera arte del principío del Medioevo. Osserviamo soltanto che se è più esteso il consenso nel riconoscere che l'arte dell'Oriente cristiano e bizantino operò con maggiore profondità dell'occidentale nel mutarsi della pittura dai modi ellenistici a quelli più propriamente medievali, non altrettanto finora si è riconosciuto quanto in alcune zone essa abbia mantenute vive le tradizioni classiche. La vivace persistenza di queste nell'Oriente cristiano per tutto il Medioevo è provata specialmente dalla miniatura, e ora, in modo imprevisto, dai musaici bizantini del sec. VIII nella moschea di Damasco (v. più oltre), cui nulla è comparabile nella pittura medievale dell'Occidente sotto l'aspetto della derivazione dall'ellenismo. E di ciò ha da tener conto chi voglia ricercare in modo spassionato i controversi rapporti tra Roma, i musaíci ravennati e l'arte dell'Oriente cristiano.
Nell'Oriente cristiano non restano, o finora non sono noti, che pochi musaici dei primi secoli del Medioevo, quantunque si abbia notizia che ne esistevano nelle chiese di Costantinopoli, della Palestina e della Siria, dove le decorazioni musive di età musulmana nella moschea della Roccia a Gerusalemme (sec. VII) e nella moschea di Damasco (sec. VIII) sembrano proseguire la precedente operosità dei musaicisti siriaci. Ricordiamo i musaici dei secoli V e VI nelle chiese di S. Giorgio, di S. Demetrio, della Parasceve a Salonicco; a Cipro; nel monastero di S. Caterina sul Sinai: ed è probabile che se ne ritrovino dell'età giustinianea proseguendo i restauri in S. Sofia a Istanbul. Col procedere nel Medioevo i musaici conservati si presentano sempre più numerosi, da quelli dell'abside di S. Sofia a Salonicco e di S. Irene a Istanbul (sec. VIII) fino a quelli di Qahriyyeh Giāmi‛ (sec. XIV) pure a Istanbul. Sono i monumenti più cospicui della pittura bizantina (a S. Luca in Focide, a Dafni presso Atene, ecc.) nei quali essa esprime tutte le sue qualità: e il trattarne particolarmente investirebbe l'intera arte bizantina (v. bizantina, civiltà, VII, p. 154 segg.). Basti pertanto osservare che in essi si vedono persistere, attraverso minori variazioni, i caratteri fondamentali già costituiti nel sec. VI: la semplificazione schematica delle forme; la riduzione dei valori di profondità e di volume - non mai del tutto ripudiati - a vantaggio dell'effetto di superficie colorata; l'idealizzazione fantastica. Singolari, rispetto alla tecnica, i musaici attribuiti al sec. IX ora rimessi in luce nel nartece di S. Sofia a Istanbul: hanno lo sfondo con filari di tessere largamente alternati a strisce di stucco quasi per riuscire a tonalità più lievi. Musaici e musaicisti furono strumenti di larga diffusione dell'arte bizantina, così nei paesi musulmani (Damasco, Cordova) come in Russia (musaici del sec. XI in S. Sofia di Kiev) e soprattutto in Italia, dal sec. XI al XIII (v. più oltre).
In Italia, dal sec. VII al IX, i musaici superstiti si trovano tutti a Roma: e se, come la pittura, essi manifestano la presenza di diverse correnti d'arte, provano anche la continuata attività dei musaicisti locali, specialmente quelli della fine del sec. VIII e del sec. IX (Ss. Nereo e Achilleo, S. Prassede; S. Maria in Domnica; S. Cecilia in Trastevere; S. Marco) in cui sono ben definite particolarità di maniera, anche nella esecuzione tecnica che sembra voler trovare un più vario effetto cromatico rendendo più scabra la superficie vitrea. I musaici dell'oratorio di S. Zenone (sec. IX) a S. Prassede sono la decorazione in sé più compiuta di quella scuola di musaicisti romani che riguardò ai monumenti antichi per trarne schemi iconografici, ma condusse lo stile più propriamente medievale a una delle sue più schiette negazioni della profondità e del rilievo. Nello stesso sec. IX, forse artisti italiani erano chiamati oltr'alpe: si ornavano allora di musaici la cupola del duomo di Aquisgrana (la cui decorazione fu rinnovata, dal 1879, su disegni del Béthune dai Salviati di Venezia), l'abside della chiesa di Germigny-des-Prés.
A Roma, dopo una breve stasi, la decorazione parietaria a musaico fu ripresa vivamente, dal sec. XI sino al termine del XIII, da una scuola di musaicisti romani non chiusa alle svariate influenze ch'erano allora nella pittura, ma confermata in una propria individualità dai grandi modelli ch'essa ritrovava nei musaici delle basiliche romane dei secoli V e VI. I musaici di S. Clemente sul Celio e della conca absidale di S. Maria in Trastevere ne sono i monumenti maggiori nel sec. XII, cui succedono nel XIII, accanto a minori opere dei Cosmati e di F. Rusuti, i capolavori del Torriti nelle absidi di S. Maria Maggiore e di S. Giovanni in Laterano (questo musaico, intieramente rifatto nel sec. XIX, non conserva che l'antica composizione) e di P. Cavallini che nei musaici di S. Maria in Trastevere improntò la sua arte quanto nei suoi affreschi.
La grande arte musivaria bizantina ebbe anche a Roma qualche propaggine, ma isolata, nei musaici (sec. XII) della badia di Grottaferrata e in quelli dell'abside della basilica ostiense, che si conservano soltanto in poche parti, opera di musaicisti chiamati da Venezia circa il 1218; essa fu invece feconda di opere e di conseguenze in altri luoghi d'Italia, soprattutto in Sicilia e a Venezia. È probabile che nei periti musaici di Montecassino, di Capua, di Salerno (dei suoi musaici più antichi la cattedrale non ha che frammenti nell'arco trionfale) la sua influenza fosse contrastata da quella della vicina scuola romana.
Lasciando di trattare partitamente dei musaici della Sicilia e di Venezia, la cui classificazione stilistica e cronologica non può essere disgiunta dallo studio della pittura in genere, non sono da omettere alcune osservazioni generali. Dinnanzi alla vastità dei musaici di Palermo, di Monreale, di Venezia, è ovvio supporre ch'essi siano stati opera di maestranze sicule e veneziane: e, infatti, a Venezia antichi ordinamenti ebbero cura ch'esse si costituissero. D'altro lato, lo stile dimostra che i musaicisti siciliani e veneziani non soltanto inizialmente si formarono sull'arte musivaria bizantina, ma che si mantennero con essa in contatto dal sec. XI al XIV. Perciò i musaici del Trecento nel battistero di San Marco a Venezia e nell'abside del duomo di Messina hanno rapporti con i coevi modi bizantini; e, se qua e là si colgono caratteri dovuti agli artefici italiani, nell'insieme tutti i musaici dei secoli XII e XIII in Sicilia e a Venezia riflettono a fondo i modi cui l'arte bizantina dal sec. X al XIII aveva elevata la concezione medievale della decorazione murale.
In Sicilia restano del sec. XII i musaici della Cappella Palatina e della Martorana a Palermo, del duomo di Cefalù, del duomo di Monreale, compiuti questi ultimi nel sec. XIII: e quelli dell'atrio della Zisa e di un'aula nel palazzo reale di Palermo attestano il vasto uso della decorazione musiva anche nelle costruzioni profane. Del sec. XIV sono i frammentarî musaici del duomo di Messina. A Venezia, e nella sua area artistica, primeggiano per il complesso decorativo i più antichi musaici di S. Marco, eseguiti dalla fine del sec. XI al sec. XIV, cui appartengono quelli del battistero e della cappella di S. Isidoro; ma non hanno minore importanza quelli delle cattedrali di Torcello e di Murano, mentre son pure da ricordare i musaici del duomo di Trieste. Il musaico dell'abside di S. Ambrogio a Milano (sec. XII) appartiene alla stessa orbita veneziana, la cui influenza si trova anche in parte dei musaici della cupola del battistero di Firenze, grande monumento della fortuna che nel sec. XIII ebbe in Toscana la decorazione a musaico, praticata da pittori e da musaicisti toscani, tra cui ricordiamo frate Iacopo, che nel 1221 ornava il sacrario di quel battistero, Cimabue e lo stesso Giotto.
Nel Trecento diminuì alquanto l'attività dei musaicisti, pur sempre concentrata in Italia, e vivace specialmente a Venezia. A Roma si era esaurita a principio del secolo nelle opere degli ultimi Cosmati e nel rinnovamento della facciata della basilica ostiense; ma sembra dipenderne il musaico di un Lello (1322) a S. Restituta di Napoli e quello dell'abside sinistra del duomo di Salerno, che conserva anche altri musaici del sec. XIII. Continuò a essere esercitata in Toscana, da artisti senesi (Pisa, duomo), da Andrea Orcagna i cui musaici, poi rifatti (in parte nel Victoria and Albert Museum di Londra) per la facciata del duomo di Orvieto, proseguirono la lunga tradizione delle decorazioni musivarie esterne che aveva avuto lontani precedenti nel duomo di Parenzo (sec. VI) e seguito nelle facciate delle basiliche romane.
Dal principio del sec. XV il rinnovamento dello stile nella pittura italiana tolse sempre più ai musaicisti il saldo fondamento di quei larghi partiti cromatici e di composizione che l'arte medievale aveva raffinati e adoprati per secoli. Come sempre, i musaicisti - alcuni erano essi stessi pittori - s'ispirarono alla pittura e, per imitarne i nuovi modi, abbandonarono quei processi di semplificazione della forma e del colore che avevano ricavato dalla tecnica del musaico i più potenti effetti. Se a Venezia nella Morte della Madonna, per certo su cartoni di A. Mantegna nella cappella di S. Marco già decorata di un musaico di M. Giambono, l'arte del maestro si attaglia alla laboriosa traduzione musiva, i musaici di altri pittori - di David Ghirlandaio, di Monte del Fora - mostrano quanto con la nuova maniera si perdeva di chiarezza nella forma e di forza nel colore. A Firenze, dove A. Baldovinetti era andato ricercando i segreti dei musaici antichi, l'attività dei musaicisti cessò poi del tutto. A Venezia, invece, essa fu mantenuta dalla necessità, sovente immaginaria, di rinnovare la decorazione della basilica marciana; ma, quantunque spesso si valesse di cartoni di grandi maestri - del Tiziano, del Tintoretto, di S. Ricci - violentando la semplicità propria del musaico, non riuscì più ad avvicinarsi all'effetto grandioso dei musaici più antichi. Tra i musaicisti che operarono in S. Marco nel sec. XVI sono da ricordare specialmente Vincenzo Bianchini; Francesco e Valerio Zuccato, Bartolomeo Bozza che eseguì su cartoni del Tintoretto le Nozze di Cana (1566-1568) e su quelli del Veronese la Guarigione del lebbroso e del cieco (circa 1565), Gianantonio Marini che tradusse in musaico molti cartoni del Tintoretto, Lorenzo Ceccato; nel sec. XVII, Giacomo Pasterini; nel sec. XVIII, Leopoldo del Pozzo romano, andato a Venezia quando vi sembravano quasi spente le tradizioni locali, autore del musaico sulla facciata della basilica - l'Arrivo del corpo di S. Marco - da dipinto di S. Ricci (museo di S. Marco); nel sec. XIX Liborio Salandri, autore del Giudizio Universale, su cartone di Lattanzio Querena (1836-1838), nel mezzo della stessa facciata.
A Roma si era incominciato a riprendere sul principio del sec. XVI l'uso della decorazione a musaico (cappella di S. Elena, in S. Croce di Gerusalemme, su disegni del Peruzzi); Raffaello aveva trovato nel veneziano Luigi De Pace un mirabile traduttore dei suoi cartoni nei musaici del cielo della cappella Chigi a S. Maria del Popolo. Più tardi s'intraprese la decorazione a musaico della basilica vaticana con l'opera di Gerolamo Muziano, poi di Marcello Provenzale, di G. B. Calandra e d'altri: ma i musaici murali, condotti anche su cartoni di artisti celebri, riuscirono di effetto mediocre non meno che le grandi pale d'altare copiate in musaico da affreschi e da tele. Il lavoro delle pale d'altare in musaico era stato iniziato per volere di Urbano VIII dal Calandra (1586-1644), la cui finezza di tecnica si può ammirare soprattutto nei suoi musaici da tele di G. Reni sull'altare del cardinale Filomarino (1642) ai Ss. Apostoli in Napoli; esso fu proseguito specialmente da Pietro P. Cristofari (Tumulazione di S. Petronilla, dal Guercino; Comunione di S. Gerolamo, dal Domenichino, ecc.) poi nominato "sopraintendente del musaico" (1727), istituendosi in Vaticano lo "studio del musaico" che nel sec. XIX fu diretto anche da V. Camuccini e da N. Consoni autore del cartone di quei musaici della facciata della nuova basilica ostiense, pieni d'infelici contrasti fra l'interpretazione naturalistica e i ricordi dell'arte medievale. A Roma, dove non mancarono officine private, lo "studio" vaticano, ora diretto da B. Biagetti, seguita a lavorare di restauro e a produrre musaici murali.
A Venezia, nella seconda metà del sec. XIX, vi fu un ritorno al musaico murale; e non sempre ebbe felici risultati perché troppo industrializzato nei procedimenti. Fu favorito appunto dalla formazione di ditte industriali - la "Società musiva veneziana", quella di A. Salviati e C., il laboratorio di A. Gianese - cui furono affidati importanti lavori in Italia e all'estero (Amalfi, cattedrale; Parigi, atrio dell'Opéra), mentre nel laboratorio di S. Marco una schiera di musaicisti, guidati da A. Agazzi, si dedicava sempre più abilmente a lavori di restauro.
Fuori d'Italia, nel secolo XIX, si cercò d'istituire laboratorî di musaico, chiamando artisti italiani: a Pietroburgo; a Parigi, dove già sul finire del sec. XVIII il romano Belloni aveva stabilito uno studio (musaico nella sala di Melpomene, al Louvre, su cartone di F. Gérard); a Londra. Né mancarono vaste imprese, come la decorazione dell'abside del Panthéon a Parigi, della cattedrale di S. Paolo a Londra; e altre ora sono in corso (Londra, cattedrale cattolica, ecc.). Forse nelle condizioni della pittura e del gusto d'oggi il musaico murale potrebbe riavvicinarsi al suo antico e maggiore valore, di fantastica trasposizione decorativa, di esaltazione del colore, di semplificazione della forma: e non mancano segni e promesse di rinascita (Trieste, duomo: musaici di G. Cadorin; Acqui, tomba Ottolenghi su cartoni di F. Ferrazzi).
L'arte bizantina medievale produsse per oggetti di decorazione musaici portatili, adoprandovi, nei più minuscoli, una stupefacente sottigliezza tecnica e minutissime tessere (esempî: le due tavolette del Museo dell'Opera a Firenze; il Cristo del Museo Nazionale di Firenze; la Madonna della sagrestia della Salute a Venezia; ecc.): e anche in tali lavori rispecchiò i suoi grandi principî stilistici; così i musaicisti italiani dal sec. XV, in musaici portatili (prova di concorso di Monte del Fora nel Museo dell'Opera a Firenze; ritratti varî), cercarono di gareggiare con la pittura.
Il musaico "rustico" fu in uso specialmente dal sec. XVI al XVIII per ornamento di fontane e di grotte nei giardini (Firenze, giardino di Boboli: grotta del Buontalenti; Isola Bella, palazzo Borromeo, ecc.): era formato grossamente, anche su rilievi, di ghiaie, di conchiglie, di colature calcaree, di vetri; e aveva suoi precedenti nella decorazione classica di ninfei e di fontane.
Il musaico a intarsio, cioè a commesso di marmi varî ritagliati secondo il disegno da formare, con tecnica non dissimile da quella della tarsia di legname, ebbe varia fortuna, usato a rivestire pareti e ornare pavimenti. Proseguendo le tradizioni dell'opus sectile antico, fu largamente adoperato nei primi secoli del Medioevo: e ne restano opere, oltreché notizie, dalle tarsie figurate della basilica civile di Giunio Basso a quelle di S. Sabina e dell'atrio del battistero lateranense a Roma, di S. Ambrogio di Milano, di S. Vitale di Ravenna, del duomo di Parenzo. Non mancano poi tracce della sua sopravvivenza nei pavimenti bizantini e occidentali, ma esso non riebbe una propria voga nel Medioevo che nell'arte romanica fiorentina e pisana, adoprato così nei pavimenti (battistero e S. Miniato a Firenze) come nelle facciate e nelle suppellettili marmoree delle chiese, con lungo seguito fino al sec. XV (facciata di S. Maria Novella, S. Sepolcro in S. Pancrazio a Firenze) nell'arte fiorentina che poi lo perpetuò nei preziosi musaici di pietre dure come una propria industria - stabilita anche ufficialmente nell'"Opificio delle pietre dure" (vedi pietre dure) - applicandolo non solo a mobili e a piccoli oggetti, ma anche alla grande decorazione delle pareti e dei pavimenti (Firenze, Cappella Medicea) secondo il gusto del sec. XVII in cui la tarsia marmorea divenne parte essenziale della decorazione architettonica (v. tarsia), mentre dal sec. XIV al XVI aveva monumentale e singolare applicazione nel pavimento del duomo di Siena (v. pavimento).
Nei pavimenti i musaici tessellati a ornamenti e a figure furono usati largamente nelle primitive basiliche cristiane, e in edifizî profani (pavimenti delle chiese di Aquileia, di Grado, di Parenzo; di Tiro e di Sidone, ora al Louvre; dell'Africa settentrionale; della Palestina; musaici ritrovati nell'area del "palazzo di Teodorico" a Ravenna, ecc.), derivando dalla classicità tecnica e stile, che modificarono secondo i principî della nuova arte medievale. Ebbero un periodo di grande voga dal secolo XI al XIII per evidente imitazione di pavimenti antichi, ch'è dimostrata dalla prevalenza delle decorazioni e delle figure in bianco e nero, raramente avvivate da altre tinte: se ne trovano in tutto il territorio romanico, specialmente nelle regioni renane, nella Francia meridionale, nella Spagna, in Italia soprattutto nella regione padana (Aosta, duomo; Torino, museo civico; Bobbio, chiesa abbaziale; Piacenza, S. Savino; Cremona, duomo; ecc.) sebbene non ne manchino tracce e monumenti nelle altre regioni (Otranto, duomo): e sono importanti anche per la loro iconografia, di materia profana, popolare o colta. Poi tralasciati, sono riapparsi con successo nell'arte contemporanea (pavimenti su disegno di P. D'Achiardi in Palazzo Venezia, e in chiese di Gerusalemme; v. pavimento).
Il genere antico a opus vermiculatum, con musaico formato di elementi variamente tagliati e non di tessere cubiche, trovò nel Medioevo sviluppi originali. Si ritrova complicata col precedente nei pavimenti della chiesa di Pomposa, di S. Marco a Venezia, a S. Donato di Murano (1140). A Roma i resti dei pavimenti nel prebisterio di S. Maria Antiqua e nella chiesa primitiva di S. Clemente, il pavimento dell'oratorio di S. Zenone in S. Prassede, lasciano a stento supporre una fase primitiva del genere ornamentale che sembra essere stato prima sviluppato, se ripreso da esemplari antichi, dall'arte bizantina che anche lo applicò a decorare plutei marmorei: intorno a grandi dischi di marmi colorati - più spesso di porfido rosso e di porfido verde - si svolgono in semplice intreccio fasce di marmo bianche, nastriformi, su fondo di musaici a tasselli varî composti in ornati geometrici e qualche volta con figure, per lo più ritagliate quasi in opus sectile (S. Luca in Focide: pavimento del secolo XI). In questa foggia i "quadratari" bizantini chiamati dall'abate Desiderio (c. 1071) avevano composto il vasto pavimento musivo, poi distrutto, della chiesa di Montecassino; e così nel sec. XII a Roma i Cosmati (v.) - come i musaicisti dell'Italia meridionale - composero i pavimenti di molte chiese urbane e della regione svolgendo quel motivo con proporzioni e ritmi che riescono allo stesso senso di conclusa e classica armonia proprio alla loro architettura, sì ch'esso fu seguitato ancora in pieno Rinascimento (pavimenti delle Stanze vaticane; della cappella del cardinale di Portogallo in S. Miniato al Monte a Firenze, ecc.).
In Sicilia, e altrove, l'influenza dell'arte musulmana modificava quegli ornati spezzando in rigide linee, ad arabesco, le fasce marmoree intorno ai dischi di porfido e di serpentino, e anche adoprando nei musaici elementi vitrei (Palermo, cappella Palatina; Monreale, duomo; Castel del Monte; Pisa, duomo).
Dai pavimenti quei motivi furono trasferiti, come nell'arte bizantina, ai plutei di marmo, e anche alle membrature architettoniche (atrio di S. Lorenzo fuori le mura; chiostro lateranense, ecc.) usandovi a profusione elementi vitrei, e complicandone sempre più la tecnica con musaici tessellati e figure, e perfino con l'inserzione di maioliche (Ravello, S. Giovanni del Toro: ambone del sec. XII), come si vede in tante suppellettili marmoree delle chiese di Roma, dell'Italia meridionale, della Sicilia (ricordiamo fra tutti, gli amboni delle cattedrali di Salerno e di Ravello; i plutei della basilica di S. Lorenzo fuori le mura, a Roma, della cattedrale di Civita Castellana, ecc.).
Infine i musaici vermicolati geometrici, cosmateschi, che formavano sfondo, e sottolineavano il motivo dominante delle fasce marmoree nastriformi, si liberarono sempre più da queste, copersero soli le superficie e le membrature architettoniche in un raggiare d'oro (Sessa Aurunca, amboni; Roma, ciborî di Arnolfo in S. Cecilia e in S. Paolo fuori le mura; resti decorativi dell'antica facciata di S. Maria del Fiore; ecc.), in un ultimo splendore.
Bibl.: Alla Bibl. generale dell'arte del musaico a cura di C. Cecchelli (Bollettino del R. Istituto di archeologia e storia dell'arte, 1928, pp. 83-93) sono da aggiungere le seguenti pubblicazioni: A. Agazzi, Il mosaico in Italia, Milano 1926; G. Galassi, Roma o Bisanzio, Roma 1930; C. Ricci, Tavole storiche dei musaici di Ravenna, Roma 1931-34; M. van Berchem, The Mosaics of the Dome of the Rock and of the Great Mosque at Damascus, in K. A. C. Creswell, Earl Muslim Architecture, Oxford 1932, pp. 150-252; Th. Whittemore, The Mosaics of the Narthex of S. Sophia at Istanbul, Parigi 1933.
Il musaico nell'arte islamica.
Tre tecniche di musaico furono impiegate nei paesi musulmani:
1. Musaico di vetro come si praticava nell'arte bizantina, eseguito quasi sempre da musaicisti greci che sapevano adattarsi alle esigenze dello stile islamico. Il monumento più importante del secolo VIII sono i musaici scoperti nel 1928 e più tardi nel cortile della moschea omayyade di Damasco, con paesaggi e vedute architettoniche più o meno fantastiche, assolutamente senza figure o animali, in obbedienza alle prescrizioni maomettane. Alquanto anteriori (del 691), ma con restauri del 1027, sono i musaici che decorano l'interno della moschea di Omar in Gerusalemme (archi ornamentali e motivi vegetali sviluppantisi da vasi). Nel sec. X la tecnica venne introdotta pure in Spagna da artisti bizantini chiamati per decorare il miḥrāb della Grande moschea di Cordova con arabeschi e iscrizioni cufiche.
2. Musaico di pietra, usato in Egitto e in Siria per decorare specialmente i pavimenti, ma anche le facciate, le nicchie del miḥrāb e altre parti architettoniche. È a disegni geometrici ottenuti con pezzetti di marmí svariati, di madreperla e altri materiali. Questo procedimento, derivato da tradizioni alessandrine, ha riflessi anche in Italia, ebbe massima fioritura nell'epoca dei Mamelucchi e venne impiegato negli edifizî religiosi come nelle case particolari.
3. Musaico di ceramica. Fu un trovato dell'arte islamica per decorare in modo durevole ed efficace le facciate, le cupole e altre parti architettoniche. In uso già nel sec. XIII nell'Asia Minore (Conia) fiorì con grande libertà di disegni e con ricchissima policromia, nel sec. XV in Persia (Tabriz, Ardabīl) e in Transoxiana (Samarcanda). Nella Spagna, questa tecnica si limitò a motivi geometrici e venne impiegata specialmente negli zoccoli delle sale decorate con stucco (p. es. nell'Alhambra nei secoli XIV e XV). Quasi dappettutto - in Persia e in Turchia come nella Spagna - nel sec. XVI la decorazione a mattoni di maiolica sostituì il minuzioso lavoro a musaico.
V. tavv. V-XVIII e tavv. a colori.
I mosaici di piume.
L'uso di adoperare le piume come ornamento è comune presso quasi tutti i popoli della terra, ma dove esso ebbe il suo massimo sviluppo e assurse a vere forme d'arte è certamente nel continente americano, e, in modo particolare, presso le antiche popolazioni del Messico. Fra di esse si eseguirono veri e proprî musaici di piume, i quali, uscendo dal campo della semplice decorazione, giunsero talvolta a forme veramente pittoriche.
Nel Perù precolombiano quest'arte ebbe pure grande sviluppo e molte tombe ce ne hanno conservato bei saggi. Nel Brasile, nella Bolivia e in altri luoghi dell'America Meridionale e del Messico si fabbricano ancora oggi, a scopo commerciale, piccoli musaici di piume. Anche in Oceania, particolarmente nella Polinesia, si facevano con piume multicolori lavori assai pregevoli che assumevano talvolta l'aspetto di rozzi musaici. Si trattava per lo più della decorazione d'indumenti, copricapi, ecc. Tale arte fu specialmente coltivata nelle Hawaii. Questo grande sviluppo dell'arte plumaria si può considerare uno di quei tanti elementi che leganV in affinità le culture americane a quelle oceaniche.
Ma dove si fabbricavano mosaici di piume veramente degni di tale nome era, come si è detto, presso le antiche popolazioni Nahua del Messico. Prima della conquista si ebbe il massimo rigoglio di quest'arte. Operai specializzati, detti amanteca, devoti al dio Coyotlinauatl, erano impiegati nel pazientissimo lavoro. Esistevano persino, nei palazzi del re, magnifiche uccelliere piene di uccelli dagli svariati colori, specialmente colibrì, i quali venivano spennati una volta all'anno. Le piume erano scelte con tanta pazienza dagli artefici, da impiegare, essi, a volte un giorno intero", dice F. S. Clavigero, "per accozzare una penna". Esse venivano poi attaccate su una stoffa, o pelle conciata, sulla quale era stato tracciato il disegno. Varî operai attendevano al lavoro e ciascuno di essi componeva un pezzo di musaico che alla fine veniva unito agli altri. A lavoro ultimato sembravano dipinti col pennello. Erano stimati più dell'oro.
Al tempo della conquista, i musaici di piume destarono la più grande ammirazione tra gli Spagnoli i quali ne fecero eseguire alcuni che inviarono in Europa, ma che deperirono facilmente, sicché oggi gli esemplari superstiti sono rimasti pochissimi.
In breve però quest'arte decadde completamente. I saggi che se ne conservano oggi nei varî musei sono per la maggior parte della decadenza. È da ricordare qui la bella mitra esistente a Firenze nel Palazzo Pitti e i musaici di Vienna (cimiero di Montezuma), di Berlino (mantello), di Bruxelles e di Madrid.
Bibl.: F.S. Clavigero, Storia antica del Messico, II, Cesena 1780, p. 197 segg.; F. Denis, Arte plumaria, Parigi 1875; E. Seler, Über den altmex. Federschmuck des Wiener Hofmuseums, in Zeitschrift für Ethnologie, XXI-XXV; id., L'orfèvrerie des anciens Mexicains et leur art de travailler la pierre et de faire des ornements en plumes, in C.R. Congr. Int. des Américanistes, Parigi 1890, pp. 401-405; G. V. Callegari, Mitra e manipolo di penne del Museo degli argenti a Palazzo Pitti, in Dedalo, Gennaio 1925.
Le iscrizioni musive.
Sovente iscrizioni dedicatorie, commemorative e funerarie erano presso gli antichi eseguite in musaico a complemento illustrativo della decorazione musiva dell'ambiente. Comuni erano all'ingresso dell'abitazione, sul pavimento, il motto: salve!, e l'avvertimento: cave canem!. In una casa pompeiana la frase è illustrata, anche in mnsaico, dalla figura di un cane da guardia incatenato, che si slancia fuori della sua guardiola abbaiando furiosamente. Identico significato ha l'espressione: cave torquatum! con allusione al collare del cane. All'ingresso dei templi si avevano talvolta scritte in musaico massime morali; così in un santuario annesso al tempio di Esculapio a Lambesa (Africa) si legge: bonus intra, melior exi. Iscrizioni agl'ingressi di edifici termali sono di questo tenore: bene lava, salvum lotum, oppure: bene lava, oze (= hodie) assem des, cras gratis. Nella basilica Hilariana dei dendrofori del Celio, in Roma, una iscrizivne liminare in musaico indirizza un voto di buon augurio a quanti oltrepassino la soglia. La frase è accompagnata con figure simboliche, e cioè: il malocchio su cui si posa una civetta da ogni parte attaccata da un'orda di animali, preservatori della basilica da ogni influenza maligna. Si hanno spesso nei musaici rappresentanti ludi gladiatorî e scene venatorie scritti i nomi dei rappresentati, e talora anche dei cavalli e la denominazione di fiere.