MUMMIA (arabo mūmiyyah, forse dal persiano mūm "cera")
Vocabolo designante originariamente, nell'uso degli Arabi di Egitto, la materia servente all'imbalsamazione e applicato poi dai viaggiatori europei a designare il cadavere stesso conservato artificialmente. La preoccupazione d'impedire il decomporsi del cadavere si manifesta specialmente nell'antico Egitto, e i processi ivi usati raggiunsero risultati sorprendenti per la loro efficienza reale.
Per spiegare tale uso si cercarono ragioni sia nel passato, sia nel presente. Chi lo ricollega con la teoria dell'immortalità dell'anima e magari della resurrezione della carne; chi alla filosofia preferisce la teologia, vedendo imitata l'imbalsamazione di Osiride. Nei testi religiosi egizî di tutte le età si trova espresso l'orrore per il corpo che male odora, marcisce, è pascolo dei vermi e in sostanza tale motivo è addotto anche da Erodoto (III, 16).
La pratica dell'imbalsamazione è piuttosto recente. Nel periodo preistorico non se ne ha traccia. I cadaveri di quei tempi (deposti contratti nelle tombe, le ginocchia allo sterno, avvolti in lini, stuoie, pelli) talvolta hanno conservato, per effetto del clima secco e della sabbia, l'epidermide, i capelli, la barba. All'inizio della storia (I dinastia, circa 3200 a. C.), le tombe dei faraoni, pervenute in grande rovina, non permettono di asserire l'esistenza dell'imbalsamazione. Pare essersi diffusa la pratica durante le dinastie successive. Nella II il corpo d'una donna (proveniente dagli scavi di Quibell a Saqqārah) mostra segni evidenti dell'immersione in sale e natron (soda naturale). Le gambe erano state avvolte in lini; sull'addome posta un'imbottitura di stoffe; infine avviluppata di nuovo. Nella III dinastia ci sono indizî dell'estrazione del cervello dal foro occipitale. Si è cercato di conservare alcuni corpi rendendo impermeabili le stoffe con resina, come la mummia della V dinastia al Museum of the R. College of Surgeons (trovata dal Petrie nel 1892). In questo tempo si comincia a custodire in cassette i visceri tolti dall'interno. Fatta eccezione delle gambe, delle braccia e delle dita, piuttosto che fasciata, la salma è in genere avviluppata come una palla. In alcune, invece, nonostante la posizione lievemente contratta del corpo, si seguono con le bende le linee di esso; con rozzo disegno esterno s'indicano i capelli, gli occhi, la bocca e per le donne le mammelle. I documenti scritti illuminano poco. Il lavaggio degl'intestini è menzionato nei testi delle Piramidi (1121 circa); la resina e in particolare quella del cedro vengono indicate come necessarie all'imbalsamazione. Nella IX-XI dinastia l'uso dei vasi canopici attesta sempre l'estrazione delle interiora. Il cadavere era fatto seccare; ma la pelle, gialla, è molto fragile. Gli occhi sono chiusi e coperti con qualche centimetro di stoffa; il naso è otturato; al mignolo della sinistra si trova anche un anello. Le mummie della XII hanno un colorito più oscuro; portano amuleti e scarabei; frequente è la maschera dipinta sulla faccia. L'avvolgimento è sempre molto sommario ed esse giacciono sul fianco sinistro quasi del tutto allungate. Dalla XVIII (1580 circa) l'imbalsamazione diventa una vera arte che si sviluppa di regno in regno e raggiunge la perfezione nella XXI. La salma è disposta rigida, appoggiata sul dorso; le braccia incrociate sul petto o con le mani sul pube. Il cervello viene tolto con uno strumento ricurvo dal naso; i visceri invece estratti con un taglio sul lato sinistro. Si lavava il corpo, che veniva, salvo la testa e gli occhi, depilato. Finito il periodo d'immersione nei sali, si studia di riparare ai danni subiti. Agli uomini era dipinta la pelle in rosa, alle donne in giallo (ocra e gomma). Se qualcuno scarseggiava di chioma, trecce finte servivano per questa toletta funeraria. La faccia era tesa; il cavo dell'occhio è riempito con un batuffolo di lino in cui è dipinta l'iride (talvolta c'è un finto occhio di pietra); le ciglia sono semichiuse; le sopracciglia ritoccate con kohl; le labbra dipinte in rosso. Tutte le aperture della faccia sono unte con resina e ricoperte con uno strato di cera vergine. Per eliminare l'afflosciamento delle membra s'imbottiva il collo di lini, burro e creta e così le cosce. Venivano poi ricollocati al loro posto i visceri avvolti in lini, in cui, secondo gli organi, erano distribuiti gli amuleti di cera; il cuore si gonfiava riempiendolo. Anche il busto s'imbottiva. La ferita del fianco è coperta di solito con lastrina di cera (talvolta di argento o bronzo) e sopra era tracciato il geroglifico dell'occhio di Hor. Disposto intorno al collo qualche amuleto, il cadavere si bendava artisticamente, ponendo qualche fiore tra le fasce. Nelle seguenti dinastie s'inizia per quest'arte la decadenza, che si accentua e raggiunge il massimo con l'era volgare. Alle salme si pone sempre minor cura; si lasciano talora gli organi nell'interno; l'uso del bitume si estende. Questa inabilità è celata con un esteriore ricco, come la doratura della faccia con un foglia di oro e le maschere, nel periodo greco-romano; ma non è meno esistente.
Oltre che gli uomini anche gli animali venivano imbalsamati, specie quelli sacri e nei tempi in cui si accentua il loro culto. Invece, come è facile intuire, la gente povera e di mediocre condizione veniva seppellita alla meglio. L'imbalsamazione era eseguita in un laboratorio, chiamato wé‛be (w‛b. t) e anche per-nòfer ("la buona casa"). Secondo le notizie date dai due famosi passi di Erodoto (II, 85) e Diodoro (I, 91) gli operatori erano due: quello che faceva l' incisione quello che imbalsamava. I documenti egizî ne conoscono uno solo, l'avviluppatore (wjt. w). È pure accompagnato dal cerimoniere (ġraj-ḥabe), che recitava preghiere durante l'operazione. In parte si possiede anche questo rituale dei bassi tempi. Una pittura in una tomba tebana (XIX dinastia) pubblicata dal Rosellini (Mon. Civ., tav. CXXVI) mostra l'interno di sei stanze del laboratorio mentre è preparato il sarcofago e fasciata la mummia. Tutti questi preparativi richiedevano lungo tempo. La Genesi assegna 40 giorni all'imbalsamazione di Giacobbe e 70 alla durata del pianto; i testi egizî indicano varie cifre: 70, 90, 120, parecchi mesi. V'è incluso forse il tempo dell'arredamento della tomba. Se questa era lontano, in altra città, la salma si doveva spedire per il Nilo e restano numerose etichette (dal sec. III a. C.) con i nomi dei defunti.
Intorno alle sostanze usate per imbalsamare, le analisi recenti hanno mostrato che il corpo veniva immerso in un bagno di soda più o meno diluita; poi trattato con succhi, olî, resine o pece estratti da conifere, specie il cedro e il ginepro; più tardi anche con il bitume di Giudea.
Bibl.: Dawson Warren, A bibliography of Works relat. to mummification in Egypt, Cairo 1929; Pagel-Sudhoff, Einführung in die Gesch. d. Medizin, 2ª ed., Berlino 1915, p. 33. Cfr. P. Belon du Mans, De medicato funere seu cadavere conditio, Parigi 1553; E. A. W. Budge, The Mummy, Cambridge 1925, p. 201; Granville, Essay on Eg. mummies, Londra 1825; Th. Greenhil, Necrokedia or the art of embalming, Londra 1705; K. Kunst, Die äg. Mumifizierung, in Wien. Blätter f. d. Freunde d. Antike, II, i (1923), p. 7; G. Lanzoni, Tractatus de pollinctura et balsamatione, Ferrara 1693; A. Lucas, The use of the natron by the anc. Eg. in mum., in Journal Eg. arch., I (1014), p. 119; id., The question of the use of bitumen or pitch, ibid., p. 241; id., Cedar-tree produits empl. in mum., ibid., XVII (1931), p. 13; Nicolaeff, Quelques données au sujet des méthodes d'excérebration, in L'Anthropologie, XXXIX (1929), p. 77; Th. J. Pettigrew, History of Eg. mummies, Londra 1834; L. Reutter, De l'embaumement chez les anc., in Bul. Inst. Nat. Genévois, XLII (1917), p. 167; G. E. Smith, Egyptian Mummies, Cairo 1924; id., Eg. Mummies, in Journ. of Eg. arch., I (1914), p. 189; id., History of mum. in Egypt, in Proc. R. Philos. Soc. Glasgow, 1910; id., Heart a Reins in Mummification, in Journ. Manchester Orient. Soc., 1911, p. 41; A. Gardiner, Notes on Eg. questions, ibid., pp. 47, 78, 85; F. E. Smith, Cat. Cairo. The royal mummies, Cairo 1912; A. Wiedemann, Herodots Zweites Buch, Lipsia 1890, p. 354; id., Das alte Ägypten, Heidelberg 1920, pp. 30, 98, 100, 111.