MUFTĪ
. Vocabolo arabo che, in tutti i paesi musulmani, designa un giureconsulto autorizzato dalla pubblica fama o dal governo ad emettere responsi dottrinali (fetwà, v.) su questioni di fiqh (somma delle pratiche religiose e del diritto in senso europeo) o anche di teologia. Su richiesta, egli è quindi consultore, per questioni astratte, del giudice musulmano (qāḍī), delle pubbliche autorità e dei privati.
Nel sistema islamico classico egli non è un funzionario, poiché ogni dotto in discipline religiose (‛ālim, al plur. ‛ulamā'), riconosciuto tale dalla pubblica fama, può dare responsi, come è ancor oggi il caso, p. es., nel Marocco; il muftī funzionario è una innovazione dell'impero ottomano, che accanto a tutti i giudici provinciali della giustizia musulmana pose un muftī, e a Costantinopoli e nelle capitali degli stati vassalli istituì un muftī supremo, chiamato sheikh ul-islām nella capitale turca, bāsh-muftī a Tunisi e ad Algeri. Il responso chiesto deve essere seguito dal qāḍī nella soluzione del caso concreto. Il responso è dato in conformità con il madhhab, ossia scuola o rito, al quale il giureconsulto appartiene. Un musulmano, per es., di rito ḥanbalita, trovandosi in una regione nella quale manchi un giudice hanbalita, può ottenere da un giudice d'altro rito una sentenza in materia di statuto personale secondo il rito ḥanbalita, quando a quel giudice presenti una fetwà rilasciatagli da un muftī ḥanbalita. Nel sistema classico v'è incompatibilità tra la funzione di qādī e quella di muftī; ma tale incompatibilità in alcuni paesi non è osservata.