Mostro
Per mostro si intende un essere che si presenta con caratteristiche estranee al consueto ordine naturale e come tale induce stupore e paura. Esseri mostruosi sono largamente presenti nelle antiche mitologie e nelle tradizioni religiose e popolari, dove vengono ora assunti come reali, e caricati di significati complessi, ora come simboli di realtà altrimenti non rappresentabili ed esprimibili.
In greco mostro è τέρας, termine di origine oscura che indica il terribile segno inviato da Zeus (Moussy 1978) e, da Omero in poi, qualsiasi segno divino interpretabile dai mortali per prevedere il futuro. La parola latina monstrum significa dapprima "prodigio", indicazione della volontà degli dei, in seguito "oggetto" oppure "essere soprannaturale". Come sottolinea E. Benveniste (1969), il termine si lega sostanzialmente sia a monere, "ammonire", sia a monstrare, "mostrare", nel senso di "indicare una condotta" e "prescrivere la via da seguire". Monstrum è allora un avvertimento divino che non potrà che prendere l'aspetto di un essere sovrannaturale. L'evoluzione della parola latina monstrum avverrà assumendo il senso della parola greca τέρας. In alcuni passaggi dell'Eneide, per es., monstrum prende infatti l'accezione di "fatto prodigioso" che stupisce per il suo carattere meraviglioso. L'evoluzione semantica delle parole τέρας e monstrum rivela che il solo significato che sussiste sempre è "ciò che esce dal comune", l'"essere straordinario", specialmente nel significato di essere anormale, contrario alle leggi della natura. Davanti al mostro, in quanto segno divino, l'essere umano non prova unicamente il sacro brivido, l'horror, ma anche ammirazione: il mostro è seducente (per es. le Sirene), non solo terrificante. L'antichità classica nel rapportarsi al mostro ha sedimentato il sentimento del meraviglioso-negativo. La più antica definizione di meraviglioso in questo senso, legato cioè a un mostruoso come a un "non simile a", come a ciò che non si lascia ricondurre a un modello noto, si trova nell'Odissea ed è riferito al Ciclope (Longo 1989). In Luciano, invece, meraviglioso significa, nel parlare comune, "eccezionale", "straordinario", mentre nel parlare colto, "strano", "diverso", confinando con mostruoso, miracoloso e rappresentando il massimo dell'infrazione del reale (Donadi 1989). Nella tarda antichità e nel Medioevo, pullulante di trattati sui mostri, si registra un salto notevole: il mostro da prodigio e segno divino diventa un problema di storia naturale, garantito non più dall'interpretatio del divinatore, ma dall'auctoritas dell'autore del singolo trattato (Bologna 1980). E così, mentre i cosiddetti paradossografi fanno sfoggio della loro cultura sul meraviglioso, il mostro perde il suo portato simbolico. Non più topos che mette in rapporto l'umanità con l'aldilà e il suo sapere, il monstrum diventa un personaggio del fantastico. Come topos artistico, il mostro moderno diviene via via un 'significante vuoto', ridotto al silenzio, alla paralisi della lingua sovrannaturale. Nella catalogazione scientifico-sperimentale del 18° secolo, la favolosità del mostro si annulla definitivamente. Esso continua a vivere solo nelle fiabe e a sopravvivere nelle credenze e nelle leggende rurali. Nella lingua italiana, la parola mostro si riscontra a partire dal 14° secolo con il significato di "essere abnorme" oppure di "persona o cosa brutta, deforme, anche crudele e disumana" (Battisti-Alessio 1975). N. Tommaseo nel suo Dizionario della lingua italiana (1865-79) riporta invece la seguente definizione: "corpo organico, nel quale la conformazione, il collocamento, od il numero delle parti, non seguono le regole ordinarie: o piuttosto feto creato sotto le comuni condizioni, ma nel quale uno o più organi o parti parteciparono delle trasformazioni successive che formano il carattere della organizzazione".
In natura la mostruosità esiste. La biologia registra anomalie che rendono alcuni individui, animali o vegetali, profondamente diversi dai soggetti normali. Tuttavia, il giudizio del limite oltre il quale l'anomalia diventa mostruosità è soggettivo. In ogni caso, il discostarsi del mostro, a vario titolo, dalle forme proprie degli esseri viventi ha sempre un carattere di eccezionalità o di regressione nell'informe e nel caos. L'esistenza di mostri naturali è la prova della limitata incidenza dell'uomo sulle leggi naturali e, allo stesso tempo, rende comprensibile la paura di procreare creature mostruose che spesso ha accompagnato e accompagna tuttora il periodo della gestazione e del parto. Anticamente, molto più di oggi, si viveva con grande timore e trepidazione questo momento, interpretando l'eventuale 'errore' come una punizione divina. Proibizioni e tabu erano assai diffusi: come non ricordare il divieto, che continuerà a essere ancora valido nel 17° secolo, di fare l'amore durante la notte, potendo ciò comportare la nascita di bambini ciechi? Oppure il tabu della donna mestruata, reso con efficacia dal detto menstruum quasi monstrum, o la credenza che l'eccessiva frequenza dei rapporti sessuali potesse essere un'importante causa di mostruosità? La responsabilità della nascita di figli deformi, di mostri, era il più delle volte fatta ricadere sulla donna e sulla sua insaziabile sessualità. Questa colpevolizzazione ha radicato nella donna un senso di paura, durante la gravidanza, che ancora oggi permane. Nel passato i racconti di fate hanno svolto la funzione di esorcizzare tale paura: non è un caso che fossero donne sia le scrittrici sia il pubblico privilegiato di questi racconti. Nel passaggio dalla versione orale delle nutrici a quella colta, la figura della fata cambia notevolmente. Le fate nella versione scritta non si occupano più delle faccende domestiche, così come tralasciano i divertimenti 'puerili' (il danzare al chiaro di luna, trasformarsi in vecchie, in gatti ecc.), ma fanno dono della bellezza e dell'intelligenza a chi ne ha bisogno: il loro posto è accanto alle culle, a protezione dei nuovi nati su cui profondono preziosi doni. La costante presenza delle fate al momento della nascita si configura come una rappresentazione dell'intervento dell'immaginazione, quasi sempre benefica, sul bambino che nascerà. Esse, in realtà, impongono il proprio potere magico sulle regole della trasmissione ereditaria per allontanare il fantasma del feto mostruoso.
L'umanità ha sempre dovuto attrezzarsi concettualmente per comprendere il significato dei mostri, reali e immaginari. Ma quelli reali, secondo S. Freud, sono di gran lunga meno perturbanti di quelli fantastici, nel senso che la realtà è generalmente meno mostruosa della fantasia. Quando il mostro vero si trasferisce nel regno della fantasia, oppure quando tentiamo di descrivere, di raccontare, di raffigurare le figure mostruose della nostra realtà psichica a livello letterario, figurativo, teatrale o cinematografico, il mostro diventa ancora più mostruoso. Bisogna quindi distinguere il perturbante realmente vissuto da quello semplicemente letto, immaginato, guardato. Quello vissuto, legato a cose familiari poi rimosse, si determina in modo assai più semplice, ma il suo verificarsi è di gran lunga meno frequente. La fantasia, il simbolo, il linguaggio, l'arte dispongono di un numero maggiore di mezzi, che non la vita, per creare effetti perturbanti (Lescaut 1973). Il simbolo, per C.G. Jung, possiede potenzialmente un alone di mescolanza, incertezza e ignoto: associando elementi di insiemi diversi mediante incroci e dissolvenze, pone in contatto i più vari ambiti di vita e crea perciò sempre tensione. Ma ancora più perturbante del simbolo è l'αἴνιγμα, "enigma". Aristotele nella Poetica sostiene che la natura dell'enigma è dire ciò che si ha da dire mettendo insieme cose impossibili. Molto simile alla metafora, esso unisce un significato 'eccedente' e perciò 'perverso' e un significato 'improprio' e perciò 'oscuro' (Bologna 1980).
a) La formazione psichica del mostro. I mostri sono prodotti a livello psichico sotto forma di fantasmi al momento della nascita dell'essere umano e nei primissimi tempi della sua vita extrauterina. In questa fase, infatti, il neonato non riesce a mettere a fuoco e a distinguere le caratteristiche degli oggetti esterni e ha una bassa capacità di discriminare le fonti che causano nel suo organismo sensazioni dolorose o spiacevoli. Si assiste qui al possibile interscambio e allo 'scorrimento' di alcune caratteristiche da un oggetto a un altro. I fantasmi, una volta prodotti, concorrono a costituire il sogno, le fantasie a occhi aperti, i processi creativi o i casi di sofferenza psichica del soggetto (Funari 1988). Il fantasma più importante è quello materno, strettamente collegato con il desiderio della madre, che diventa autoerotismo, appagamento allucinatorio, quando essa non c'è. Altri elementi di questo quadro sono l'angoscia derivante dall'assoluta impotenza e dal vissuto di abbandono che colpisce il piccolo dell'essere umano, che viene al mondo in uno stato di massima dipendenza (senza contare che il parto rappresenta per il neonato il prototipo fisiologico di ogni angoscia), nonché quella derivante dall'istinto di morte, che si pone al centro degli elementi non ancora organizzati del suo apparato psichico. La strategia dell'Io infantile si esplicherà dapprima nel frazionamento dell'Io temibile, dando così vita a tutta una serie di piccoli frammenti che poi saranno proiettati in una moltitudine di figure fantasmatiche persecutorie. L'Io, in tal modo, disperde le pulsioni distruttive e le conseguenti angosce di persecuzione all'insegna del divide et impera. Oltre a questi elementi, nel processo di creazione di mostri svolge un ruolo importante la funzione dell'assimilazione, la quale, a causa dell'egocentrismo del bambino e quindi del suo scarso rispetto della obiettività dei dati, assume spesso un carattere deformante. È questa l'origine nei bambini, ma anche negli adulti, di molte idee false, bizzarrie, utopie, sospetti e megalomanie, che sono spazzate via solo dalla socializzazione del pensiero, dalla discussione con gli altri (Piaget 1947). Analoga importanza va attribuita alla terza tappa, quella della formazione dei giochi simbolici, che si manifesta a partire dai 3-4 anni, in cui il simbolo si sviluppa in una serie di combinazioni a proliferazioni infinite (Piaget 1945). I bambini inventano così personaggi immaginari, che possono essere altri esseri umani, amici o fratelli segreti, compagni di giochi, animali, oppure 'esseri immaginari senza modello'. Questi personaggi fittizi che il bambino crea servono da parafulmine per superare i conflitti che egli sperimenta nella vita reale e per liberare o estendere l'Io. Non vanno inoltre dimenticati, sempre nel processo di creazione di mostri, i molteplici miti spontanei che Piaget riconduce sotto la dizione 'artificialismo', determinati dall'assimilazione dei processi naturali all'attività umana, dall'assimilazione dei movimenti fisici all'attività intenzionale e dalla credenza, da parte del bambino, nell'efficacia del proprio gesto sulla realtà. Infine, sul piano patologico, la sensazione che le cose sembrino strane, deformate o irreali, oppure quella del déjà vu (v.), o le allucinazioni possono essere provocate da lesioni del lobo temporale (cervello limbico). Anche le sensazioni procurate dai foci epilettogeni possono dare l'impressione che alcune parti del corpo siano enormemente gonfiate, oppure che gli oggetti siano insolitamente piccoli o grandi (McLean 1973, trad. it., pp. 64-65). Oltre alla prima infanzia, un altro momento in cui fabbrichiamo mostri è il sogno. Esso raffigura i suoi personaggi in modo diverso dalla realtà: tramite la condensazione crea ritratti multipli e complessi, oppure smembra e sposta l'apparire e il contenuto delle cose. Il mostro, quale linguaggio dell'inconscio, appare a Freud il prodotto dell'attività deformante della censura dell'Io, e a Jung il prodotto creativo della realtà collettiva e impersonale (prima che soggettiva e personale) dell'inconscio. Alla domanda "Il mostro è nato prima nella realtà o nel sogno?" Freud risponderebbe nel sogno, Jung nella realtà mitica, culturale. Tuttavia si tratta di un'opposizione più apparente che sostanziale, in quanto, se si sviluppa il discorso junghiano seguendo il suggerimento di C. Musatti (1984), sogno e realtà risultano talmente intrecciati che diventa impossibile distinguerli nettamente. Ha ragione quindi Calderon de la Barca a dire che la vita è sogno: sono infatti le immagini evanescenti del sogno che si rapprendono e si solidificano per andare a costruire per ognuno di noi la solida realtà. Il mostro è sì un oggetto dell'incubo, ma è anche ciò che alimenta i sogni. In ogni caso, lo spazio del sogno non riesce sempre a gestire e a contenere i mostri che crea; allora li lancia fuori nel mondo. Questa espulsione dei mostri dal sogno è da attribuire al fatto che alcune tematiche ansiogene, quali incidenti, aggressioni, la propria morte e quella dei propri cari, sono assai meno tollerabili di notte che durante il giorno, quando, invece, si possono affrontare insieme ad altri, inquadrandole razionalmente nelle categorie della cultura.
b) La formazione culturale del mostro. L'umanità produce continuamente mostri in ogni sua attività espressiva, sia che si tratti di linguaggio, di pittura, di architettura, di cinema o di televisione. Il linguaggio, per es., si fonda su una possibilità combinatoria, capace di abbattere qualsiasi steccato, barriera e separazione. Con un numero relativamente limitato di elementi è possibile, infatti, costruire una quantità assai più grande di segni linguistici. Oltre all'aspetto combinatorio, un'altra caratteristica del linguaggio che può arrivare al mostruoso è l'illimitatezza del discorso umano, che a sua volta deriva dall'illimitatezza della realtà riducibile a contenuto. A ciò si deve aggiungere l'indefinita estensibilità dei sensi di ciascuna parola a nuove realtà, sotto la spinta di bisogni sociali, come dimostrano l'ipercodifica e le metafore 'morte' (De Mauro 1974). La produzione di mostri è altresì presente nel disegno e nella pittura, dove la mano spesso 'avanza' all'insaputa del cervello, deformando per eccesso oppure per difetto le forme create dalla mente. La nostra esperienza visiva è inoltre segnata dal fatto che non percepiamo le immagini in modo uniforme, in quanto per noi contano soltanto alcuni elementi, mentre altri ci sono indifferenti. Perciò tendiamo a potenziare o a ridurre parti dell'immagine oltre la misura che deriverebbe da una considerazione obiettiva dell'immagine stessa. Ciò determina la moltiplicazione delle forme mostruose: si pensi, per es., alla prospettiva, che è una tecnica basata proprio sull'applicazione della capacità di diminuire le grandezze, o al disegno progettuale, che si realizza in vari generi basati su principi diversi di deformazione, quali l'anamorfosi, i ritratti che si leggono nei due sensi, la caricatura, il disegno tecnico ecc. I percorsi della miniaturizzazione, dell'ingigantimento e della deformazione trovano un eccezionale sviluppo sia nella narrazione sia nelle arti figurative. La letteratura ha a disposizione una ricca strumentazione per indurre il turbamento, non solo tramite le innumerevoli descrizioni di figure fantastiche che propone, ma anche mediante la creazione di situazioni particolarmente inquietanti. Eppure, tra gli strumenti narrativi, il cinema è forse quello che esprime al massimo le possibilità perturbanti della narrazione. Il film stesso può essere definito come una metamorfosi (Calendoli 1967), nel senso che è una prospettiva di forme figurative e sonore che, integrandosi a vicenda, si assoggettano a una trasformazione continua. Si è detto provocatoriamente che "i mostri sono nati con il cinema, e il cinema è nato per i mostri" (Cozzi 1987, p. 5). La novità che il cinema introduce è che trasforma i mostri da entità descritte o raffigurate in creature che sembrano vivere. Il protagonismo dei mostri nel cinema ha anche un'origine occulta che risiede nel mezzo cinematografico stesso, vero e proprio mostro, in quanto primo, grande automa meccanico (Bertetto 1991). Il mostro cinematografico non è più il mostro che la tradizione ci ha consegnato, perché è cambiato il suo significato sociale, così come sono spariti i riti a esso collegati. Ma è anche altro, perché nel passaggio dalle classiche forme narrative (favola, romanzo, teatro ecc.) al cinema la qualità della narrazione del mostruoso cambia radicalmente. Nelle favole la mostruosità non ha referenti extralinguistici: lo dimostra il fatto che anche le azioni più truculente non sono percepite come reali, anche perché ci si aspetta sempre un intervento soprannaturale che rimetta tutto a posto. Anche nel teatro, collocato in una posizione intermedia tra testo narrativo e film, il mostruoso non è rappresentato ma soltanto narrato: qui la visione del mostruoso nasce dalle parole dette e a esse è fissata. Con il cinema invece il mostruoso è rappresentato. Attraverso il primo piano, inoltre, il cinema può ingigantire il particolare rispetto al tutto, rendendo ancora più mostruoso il mostruoso. La televisione, dal canto suo, si rapporta in maniera ancora diversa nei confronti del mostruoso, in quanto essa lo miniaturizza, rendendo decisamente meno forte la sua carica terrificante. Allo stesso tempo, tuttavia, lo proietta in una dimensione contraddittoria, perché, essendo la televisione legata allo spazio domestico, essa colloca il mostruoso in una dimensione quotidiana, più simile, per grandezza, a quella dei giocattoli. Il mostro diventa in questo modo un'attrattiva nell'attrattiva per i bambini, soprattutto nella dimensione di cartone animato.
c) La formazione sociale del mostro. La società moderna, impegnata nella costruzione di un individuo socialmente prevedibile, uniformabile e indifferenziato, e quindi nell'irrigidimento del tessuto normativo a livello sia sociale sia individuale, non può che essere ostile al mostro. Il mostruoso ai nostri giorni accentua la sua valenza di anormale, che etimologicamente significa 'non essere in squadra'. L'anormalità diventa tanto più esecrabile quanto più lo stato normale, oltre che quello abituale, finisce per significare anche stato ideale (Deschamps 1980). L'anormalità confina a sua volta con l'anomalia, cui spesso è ridotta. La norma perciò non è solo regolarità statistica, ma è anche modello culturale. Ogni società gratifica in mille modi il normale, colui che obbedisce alle sue norme, mentre nei confronti dell'anormalità nutre profonda diffidenza. La società occidentale, da 'antropofagica', cioè che accoglie gli anormali al suo interno, si è progressivamente trasformata in 'antropoemica', in quanto li espelle confinandoli in luoghi specifici (Lévi-Strauss 1955). Nonostante la crescente irreggimentazione della normatività e la pervicace espulsione del mostro dal tessuto sociale, esso è però riesploso nell'immaginario collettivo, forse anche perché è diffusa la percezione sociale che sotto l'apparente coltre di normalità ribolla un'incessante, concreta produzione di mostri: certe ricerche genetiche, gli esperimenti e gli incidenti nucleari, l'inquinamento del pianeta, l'artificialità come condizione sempre più comune dell'essere umano (protesi, trapianti ecc.) sedimentano un denso substrato di ansia e di paura. Si tratta, tuttavia, di una produzione 'materiale' di mostri, dei quali si ha una percezione confusa e frammentaria, dei flash legati alle notizie che i mezzi di comunicazione di massa riportano su alcuni episodi particolarmente clamorosi o sui momenti culminanti di alcuni processi. L'odierna galassia delle mostruosità rimane perciò nebulosa, imprecisata, indefinita e per questo ancora più perturbante.
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