MOSCHEA
Il termine m. (arabo masjid) definisce il luogo riservato alla preghiera dei musulmani, indipendentemente dalle diverse tipologie architettoniche.La tradizione islamica ha tuttavia conservato numerosi precetti del profeta Maometto che non soltanto sottolineano come la preghiera non necessiti di un edificio a essa appositamente destinato, ma che esprimono anche una esplicita ostilità all'architettura in quanto tale, poiché essa può condurre a un'inutile ostentazione. Non sorprende quindi l'estrema semplicità delle primissime m.; ciò si riflette anche nella singolare assenza di un complesso apparato simbolico, di cerimonie e di arredi nella pratica religiosa islamica.La stessa casa di Maometto, costruita a Medina nel 622, è generalmente considerata la prima m., sebbene Maometto guidasse in realtà la preghiera comune nella muṣallā di Medina, ovvero in un semplice spazio delimitato all'aperto; mentre era in viaggio, inoltre, egli pregava all'aperto usando solo una lancia conficcata nel terreno a indicare la direzione verso la quale dovevano rivolgersi i fedeli (qibla), che segnava l'orientamento in direzione della Ka῾ba della Mecca.L'austerità della pratica religiosa del profeta, mai dimenticata, nel corso dei secoli ha ripetutamente condizionato quei movimenti che si ponevano l'obiettivo di riformare l'architettura della moschea. Inoltre, i musulmani potevano e possono praticare le loro devozioni in qualsiasi luogo essi si trovino all'ora prescritta per la preghiera e l'onnipresente tappeto o stuoia da preghiera, sebbene non costituisca una necessità rituale, è in sostanza un luogo sacralizzato per il rito ed esprime così adeguatamente la semplicità e l'assenza di una elaborata cerimonia nella pratica religiosa quotidiana della preghiera islamica: spesso vi è rappresentata una nicchia la cui sommità viene orientata verso la Mecca dalla persona che lo usa; in qualche modo quindi anche il tappeto può essere considerato una moschea.L'influenza dei precetti di Maometto si può cogliere più chiaramente nelle m. rurali oppure nelle m. urbane minori, dove la semplice devozione si esprime nell'uso di umili materiali e strutture semplici. È inoltre da sempre pratica consueta costruire m. a esclusivo uso privato o familiare, per membri dello stesso gruppo, per chi esercita la stessa attività o per un determinato quartiere.Yūsuf b. Tāshfīn, sovrano riformatore almohade del sec. 12°, sembra aver espresso la propria disapprovazione nei confronti di quelle strade di città che non avessero la propria moschea. Per quanto la testimonianza possa essere apocrifa, essa rivela chiaramente come fosse idea comune che una città dovesse avere numerosissimi luoghi destinati alla preghiera, presumibilmente modesti, piuttosto che pochi e grandiosi. Sebbene non sia possibile verificare le narrazioni medievali che attribuiscono a Palermo, Córdova e Rayy (Iran), rispettivamente trecento, quattrocentosettantuno e duemilasettecento m., la tendenza appare chiara e indica la preponderanza di m. di piccole dimensioni. Tuttavia si deve ammettere che la storia architettonica della m., così come è stata indagata dagli specialisti, non si è interessata di queste semplici strutture di quartiere, ma piuttosto di edifici molto più grandi e monumentali legati a una committenza di alto livello. Tale distinzione non è soltanto morfologica, giacché corrisponde a una differenza fondamentale nella pratica religiosa: i musulmani possono recitare le loro cinque preghiere quotidiane ovunque, ma una volta a settimana, il venerdì, tutti gli adulti maschi liberi e in buona salute devono riunirsi nella principale m. della zona, chiamata generalmente jāmi῾ (m. del venerdì o congregazionale), da cui masjid-i jami῾ oppure m. jum῾a. Là essi recitano la preghiera del mezzogiorno e ascoltano la khuṭba ('sermone'), che viene tenuta dal predicatore dal minbar ('pulpito'). Il jāmi῾ quindi deve contenere un numero di persone maggiore che non il masjid, anche se le sue dimensioni sono pienamente sfruttate soltanto una volta a settimana e per non più di un'ora. In questa sede si porrà l'attenzione sul jāmi', piuttosto che sul masjid, dal momento che è in detta tipologia funzionale che generalmente si trovano le più ambiziose e innovative realizzazioni di architettura delle moschee.Numerose componenti della m. presentano particolari legami con il cerimoniale di corte e con l'iconografia del potere: tra di essi emergono il minbar, il miḥrāb, la maqṣūra e la cupola, quest'ultima generalmente collocata all'estremità di un'ampia navata centrale sottolineata in alzato da un transetto sopraelevato e talvolta dotato di timpani. Il minbar è una sorta di trono o di pulpito dal quale viene recitata l'orazione del venerdì, non privo di impliciti riferimenti al sovrano legittimo e da cui i primi califfi ricevevano la manifestazione di fedeltà dai loro sudditi. Esso era generalmente realizzato in legno, sebbene si abbiano esempi costruiti in mattoni crudi, in ferro, in marmo e in laterizi rivestiti da piastrelle invetriate. Alcuni minbar potevano essere mobili e muniti di ruote. Nella sua forma evoluta, i fianchi assumono l'aspetto di grandi triangoli rettangoli, articolati all'esterno da arcature cieche o da motivi geometrici; sulla fronte, in basso, si apre una porta a doppio battente, sovrastata da una trabeazione che poggia su alti sostegni, che dà accesso a una scala interna che conduce a una piattaforma coronata da una cupoletta o da altre strutture. Risulta difficile non interpretare questa impostazione assiale come un voluto richiamo, in scala molto ridotta, alla forma del santuario, in modo da creare una m. in miniatura. Tutto ciò naturalmente serve a esaltare la figura del predicatore che si trova al di sotto della cupola, la cui funzione deriva direttamente dalla pratica istituita dal profeta.Il termine miḥrāb - comunemente tradotto come 'nicchia per la preghiera' - si riferisce a un arco addossato al muro o che si apre su un recesso, spesso incorniciato da una o più riquadrature rettangolari, generalmente collocato al centro del muro della qibla. Da qui, l'imām, in piedi, guida la preghiera. Dal punto di vista tecnico il miḥrāb risulta superfluo, giacché in una m. correttamente orientata l'intero muro della qibla è rivolto verso la Ka῾ba; sicuramente tale elemento non fu introdotto nell'architettura della m. prima dell'8° secolo. Le sue origini formali sono forse da cercare in un insieme di modelli, tra i quali sembrano avere un particolare significato la nicchia che conteneva la statua di culto nella cella del tempio classico pagano, quella con i rotuli della Tōrāh nelle sinagoghe, l'abside nelle chiese paleocristiane o bizantine, all'interno della quale sedeva il vescovo, e inoltre la nicchia del trono nei palazzi tardoantichi. Dal momento che colui che guidava la preghiera in epoca protoislamica era anche il detentore del potere politico, l'associazione con un'autorità secolare può spiegare la scelta di una forma che già in precedenza connotava il potere e che aveva anche un significato religioso. Tuttavia si potrebbe tentare anche di interpretare il miḥrāb come memoria simbolica del luogo in cui Maometto pregava nella propria casa: nel suo essere vuoto esso si connotava come un'esplicita affermazione iconoclastica. Potrebbe inoltre essere considerato come l'ingresso a un mondo che è al di là, cioè al paradiso, teoria rafforzata dalla frequente presenza, all'interno del miḥrāb, di raffigurazioni di vasi nei quali crescono piante che non sono di questo mondo. Infine, la sua associazione con l'illuminazione spirituale - tema che si estende al minbar - trova espressione nella presenza di varie manifestazioni della luce, dalle rappresentazioni delle stelle alle lampade sospese, dalle lucenti ceramiche a lustro metallico ai motivi radiali posti alla sommità dell'arco, dalle grate delle finestre ai riquadri vuoti di abbacinante bianchezza. Soprattutto tale legame viene istituito dalla consuetudine di scegliere come iscrizione della cornice della nicchia un versetto della sura della Luce (Corano XXIV, 35) che fa riferimento a Dio come 'luce in una nicchia'.Sono noti miḥrāb a nicchia rettangolare o semicircolare (come quello della m. di al-Azhar al Cairo) e per secoli in essi si è concentrata la più elaborata decorazione che potesse ritrovarsi nell'intera m., talvolta fino a raggiungere e superare un'altezza di m 12, come per es. il miḥrāb del Masjid-i Maydān di Kāshān (Iran), del sec. 13° (Berlino, Staatl. Mus., PergamonMus., Islamisches Mus.). Le m. di maggiori dimensioni presentano spesso miḥrāb secondari sia lungo il muro della qibla sia, a intervalli, nel santuario (mughaṭṭà) e sulla sua facciata. Come il minbar, il miḥrāb poteva essere realizzato in vari materiali; in alcune regioni è difficile distinguere tra la forma dei miḥrāb e quella delle pietre tombali e ciò pone l'accento sul fatto che le sepolture islamiche richiedevano un preciso orientamento.La maqṣūra, forse derivata dal káthisma imperiale bizantino o dalle iconostasi delle chiese cristiane, era un recinto allestito all'interno della m. e riservato al regnante o a colui che lo rappresentava. La recinzione serviva sia a proteggere il personaggio eminente dal rischio di aggressioni sia come simbolo del suo potere e della sua distinzione. Il sovrano vi entrava in genere non direttamente dalla m., ma attraverso una porta nascosta nel muro della qibla. Quest'ultimo spesso comunicava direttamente con il palazzo del sovrano, la cui collocazione accanto alla m. del venerdì esprimeva quindi con chiarezza la duplice funzione, secolare e religiosa, del regnante, in special modo del califfo. Questo spazio accanto al miḥrāb era racchiuso da transenne traforate, mentre all'esterno era spesso segnalato da una cupola. Le grandi maqṣūra cupolate divennero uno tra i motivi principali dell'architettura orientale islamica a partire dal tardo 11° secolo.Con la realizzazione di una navata centrale più ampia - distinta in alzato dalla presenza di un tetto sopraelevato, di cupole o di un timpano, o anche da un'ornamentazione più ricca - in molte m. venne a crearsi una sorta di percorso processionale verso l'area in cui si trovavano la maqṣūra, il miḥrāb e il minbar. Queste soluzioni architettoniche sottolineano il forte elemento secolare e cerimoniale presente nelle prime fasi di sviluppo della moschea. Nei secoli successivi, quando tale elemento non appare più così sottolineato o si limita soltanto ad alcune m., tali caratteristiche erano ormai diventate tradizionali e se ne era ampiamente dimenticata l'origine.Diversamente da quanto accadeva per la chiesa o per la cattedrale medievale, la m. non conteneva cappelle o ambienti analoghi appositamente costruiti e destinati a costituire luoghi supplementari di preghiera e di devozione per scopi specifici oppure per determinate persone: tutte le pratiche devozionali venivano svolte nell'edificio comune. Con il passare del tempo, tuttavia, la m. vide sempre diminuire la sua natura di luogo esclusivamente destinato alla preghiera, per divenire anche un centro di riunione della comunità. Sotto questo aspetto essa assolveva a diverse funzioni, quali l'assistenza pubblica, la cura degli ammalati, l'educazione a tutti i livelli, l'amministrazione della legge, le assemblee militari, le parate e il deposito delle armi, il controllo delle finanze dello Stato e dell'attività politica. Essa poté svolgere tutte queste funzioni proprio perché la sua architettura rimase semplice, sgombra dagli arredi e quindi in grado, secondo le necessità del momento, di adattarsi ad alcune nuove esigenze, anche se, a partire dal sec. 11°, alcune di queste funzioni vennero delegate a edifici separati, appositamente costruiti, come per es. la madrasa e la khānaqāh.Il fatto che moltissime m. del venerdì si siano continuamente ampliate nel corso dei secoli è stato tuttavia spesso sottovalutato in favore dell'attenzione posta sulle loro forme originarie. Nel caso delle m. urbane, in particolare, solo raramente si è conservata la forma originaria dell'edificio. Dopo tutto l'intera comunità aveva un proprio interesse nella m. e per questo motivo essa veniva costruita per durare e generalmente era mantenuta in buono stato. In un periodo successivo essa poteva ricevere abbellimenti e ampliamenti, ma ciò avveniva generalmente senza danneggiare il suo aspetto estetico unitario. Si tratta di un tributo non soltanto alle capacità di assorbimento e di adattamento dell'architettura islamica, ma anche al successo dell'uso delle varie formule legate alle diverse tradizioni locali dell'architettura della moschea.La forma più semplice e più utilizzata per gran parte delle m. del venerdì è quella di uno spazio coperto con un cortile annesso. Lo spazio coperto - talvolta demarcato da torri o portali - poteva essere quadrato o rettangolare, a tetto piano o a spioventi, con volte o con copertura piramidale; laddove presenti, le cupole potevano essere in numero di una o di tre, in quest'ultimo caso a formare un impianto a T, molto popolare nel Maghreb.La sala di preghiera poteva avere un'estensione straordinaria, sia in senso orizzontale (m. al-Aqṣā a Gerusalemme, inizi del sec. 8°), sia longitudinale (Grande m. di al-Azhar, al Cairo, 970-972), sia in entrambi i sensi (Grande m. di Córdova, 786); anche la corte poteva essere ampliata di conseguenza. Ne deriva quasi che gli architetti musulmani pensavano ai loro edifici principalmente dall'interno verso l'esterno piuttosto che viceversa; di conseguenza, sono per lo più le facciate interne a essere oggetto di particolare interesse. Che tale contrasto fosse frutto di una scelta deliberata rimane un'ipotesi affascinante: all'interno tutto è pace, serenità, armonia, simmetria, silenzio; all'esterno c'è la stridente confusione della vita urbana. Più di una m. era collocata al centro di un bazar - secondo le attestazioni dei geografi musulmani ciò costituiva la norma in epoca medievale - oppure al centro di quartieri residenziali, e l'incessante pressione spaziale comportava che tali edifici si addossassero anche alle mura della stessa m., di fatto escludendo la possibilità di realizzare una facciata esterna.Sebbene tra le regioni che compongono il mondo musulmano si registrino differenze climatiche anche significative, è tuttavia vero che per la maggior parte questi territori sono caratterizzati da un clima caldo che rendeva prioritaria la necessità di creare ombra, ma che permetteva anche agli architetti di unire alla m. ampie corti senza timore che il clima rigido potesse renderle inutilizzabili. Tali semplici caratteristiche permettevano un gioco virtualmente infinito di spazi aperti e coperti, favorendo un'ampia gamma di variazioni e, man mano che le tradizioni regionali si andavano connotando autonomamente, poteva accadere che in una determinata area si producessero molti tipi di m. che si allontanavano decisamente dalle forme locali. Per converso, alcune altre tipologie si ritrovano ovunque; un esempio è quello della piccola m. di Bāb al-Mardum a Toledo, che riflette schemi presenti in regioni molto distanti del mondo islamico. La m. a copertura piana con corte aggiunta, quella c.d. di tipo ipostilo, ricorre in tutte le aree del mondo islamico, sebbene si tratti di una tipologia generalmente definita 'araba'. Analogamente diffuse sono le m. - tanto di ampie quanto di modeste dimensioni - che comprendono uno spazio coperto da cupole o da volte e che sono prive di corte, mentre le m. a copertura piana a travi lignee sono limitate nell'area dalla Turchia al Pakistan (per es. la m. anatolica Eşrefoğlu a Beyşehir).Tuttavia le principali tipologie locali al di fuori del mondo arabo si possono collocare in ambiti generali, quali quello persiano, quelli dell'India, della Turchia e dell'Asia sudorientale. La m. persiana presenta una classica pianta a quattro īwān, dove una corte con due file di arcate sovrapposte è movimentata dall'aggiunta di un īwān su ciascuno degli assi principali, con una sala coperta a volta come punto focale del santuario (è il caso della Grande m. di Varāmīn). In India i concetti spaziali derivati dalla Persia si unirono a una sensibilità propria delle popolazioni indù per la massa e per il particolare, espressa soprattutto nell'incisione dell'arenaria e della pietra dura. L'architettura delle m. turche, al contrario, presenta una straordinaria evoluzione unitaria con una sua logica interna, focalizzata sulla cupola e con la corte relegata in un ruolo secondario. Generazioni di architetti sperimentarono questa formula, riunendo insieme spazi cupolati giustapposti e creando gerarchie di cupole più grandi e più piccole; da questo processo derivò la classica m. ottomana con la sua moltitudine di cupole minori e di volte raggruppate intorno a uno spazio centrale cupolato.La corte (ṣaḥn) presentava spesso spazi destinati alle abluzioni, generalmente una fontana coperta oppure una piscina aperta e talvolta alberi la cui disposizione poteva echeggiare le arcate all'interno del santuario, ma la necessità di ospitare centinaia o migliaia di fedeli per la preghiera del venerdì faceva sì che tale spazio rimanesse solitamente sgombro. Nelle m. nelle quali si prevedevano grandi assembramenti di persone in occasione delle adunanze del venerdì, la corte era molto più ampia dell'area coperta, la cui funzione non era tanto quella di ospitare grandi quantità di fedeli, quanto quella di accogliere un minor numero di persone per la preghiera quotidiana durante il resto della settimana e, naturalmente, di segnalare la qibla.Inoltre, mentre un'area coperta era sufficiente a segnare la qibla, qualcosa in più era necessario per individuare l'asse del miḥrāb e per estensione l'imām che era in piedi in quell'area per guidare i fedeli nella preghiera. A tale scopo vennero elaborate diverse soluzioni per sottolineare la gerarchizzazione degli spazi, per lo più basate sul maggior sviluppo in altezza e su di un concetto volumetrico di spazio: una grande cupola centrale spesso fiancheggiata da cupole minori, un portale arcuato emergente, con i lati segnati da alte torri poste a ciascuna estremità dell'asse del miḥrāb; oppure una successione di coperture piramidali sovrapposte. La m. doveva normalmente presentare un ingresso fortemente individuato o da coppie di torri o da rampe di scale, oppure da un portico o ancora in qualche caso da tutti e tre questi elementi. Nella maggior parte dei casi esso doveva trovarsi sull'asse del miḥrāb, rivelando così il desiderio di organizzare lo spazio a fini liturgici. La chiamata alla preghiera veniva inizialmente effettuata, secondo la tradizione protoislamica, dal tetto; in qualche caso esso era dotato di una piccola edicola utilizzata per questa funzione; era però più consueto che l'adhan ('chiamata alla preghiera') fosse annunciata da un minareto appositamente costruito nel corpo esterno della m., per es. in un angolo oppure accanto al portale d'ingresso. Quando venivano edificati più minareti, come in alcune m. imperiali ottomane, essi dovevano trovarsi separati per assicurare all'adhan un effetto antifonale. Nella maggior parte dei casi, comunque, le alte torri supplementari che si trovavano nella m. del venerdì servivano a segnare lo spazio sacro oppure a mettere in risalto dei punti chiave, quali gli angoli dell'edificio, l'ingresso alla m. o al santuario. La funzione di tali torri non è quindi rituale, ma piuttosto quella di articolare lo spazio e, più in generale, di costituire un simbolo di fede. Spesso le pareti esterne sono articolate da contrafforti: in alcune tradizioni costruttive, come per es. nell'architettura sud-sahariana in mattone crudo, essi hanno chiaramente un ruolo strutturale, ma non dovrebbe essere sottovalutata la loro funzione simbolica di elemento difensivo, funzione spesso ripresa da una merlatura continua.Risulta dunque chiaro come l'architettura della m. nell'intero mondo islamico impieghi soltanto pochi elementi fondamentali - la corte, la torre, il santuario, la cupola, il portico - rielaborandoli tuttavia in varie dimensioni con inventiva e vivacità infinite. Ne deriva quindi il carattere unitario delle m. nello spazio e nel tempo. Si spiega così, con la semplicità del rito islamico e con l'adattabilità degli architetti che per tale rito dovevano creare uno spazio adeguato, l'emergere del carattere essenziale della m. attraverso forme così variegate, che risultano assai più versatili di quelle delle chiese cristiane.L'unità nella diversità è l'aspetto che caratterizza anche la decorazione della m., essenzialmente basata sull'uso di iscrizioni e di motivi vegetali o geometrici; fin dai primissimi esordi l'arte figurativa fu vietata, riflettendo la concezione che soltanto Dio potesse insufflare la vita nella sua creazione (Corano III, 47-48). Tenuto conto del primato che i soggetti figurativi ebbero nell'arte religiosa del mondo mediterraneo nel millennio che precedette l'Islam, la decisione di non utilizzare tali temi nelle m. comportò come conseguenza che i motivi vegetali, quelli geometrici e la scrittura venissero promossi da elemento di contorno a elemento centrale, con un conseguente ripensamento circa il loro significato. Le limitazioni che gli artisti islamici si autoimposero incanalarono le loro energie creative e permisero loro di investire gli elementi ornamentali - tutti ereditati da culture precedenti - di una intensità e di un carico di significati tali da portare questi temi ben oltre le fonti originarie, senza trovare confronti in altri ambiti. Arabeschi, alberi, girali fitomorfi proliferavano sulle pareti delle m., da un lato per celebrare la fertilità della natura, dall'altro per evocare, in virtù della loro deliberata assenza di realismo e della loro sovrabbondanza, un ambiente ultraterreno. Talvolta ciò acquista un significato specificamente religioso per l'accurata scelta di passi coranici oppure per la raffigurazione degli alberi giganteschi, degli spendidi edifici e dei calici gemmati che circondano l'eletto nel paradiso (per es. mosaici della Grande m. di Damasco, inizi del sec. 8°).Allo stesso modo aumentarono in modo straordinario la gamma e la profondità espressiva degli ornamenti geometrici. In origine questa decorazione veniva frequentemente impiegata soprattutto nei pavimenti, come mostrano gli elaborati mosaici a disegno geometrico dell'architettura tardoantica e bizantina. In seguito tale decorazione si diffuse in uno splendore di policromie sulle pareti, sulle volte e sulle cupole della m., organizzata in molti riquadri separati che spesso all'interno del motivo principale utilizzano una molteplicità di piani e di pannelli secondari incisi. Intrecci poligonali, dischi raggiati, motivi curvilinei e stellari sia di grandi sia di piccole dimensioni movimentavano tanto le superfici interne quanto quelle esterne. Minbar, porte e grate di finestre erano i punti in cui la decorazione era più fitta. Gli artisti utilizzavano variazioni di colori e di tessitura per creare palinsesti nei quali motivi semplici venivano giustapposti in ricche e complesse composizioni per le quali è possibile istituire analogie con la musica, per es. con la fuga o con la polifonia.Ma fu soprattutto la scrittura a determinare il tono della decorazione della moschea. L'elemento fondamentale era costituito dalle citazioni dal Corano e anche quando le iscrizioni erano così elaborate da risultare virtualmente illeggibili se non da esperti, le parole della Scrittura non perdevano nulla del loro potere evocativo. Inoltre, l'uso diffuso di mandare a memoria il Corano faceva sì che fosse sufficiente riconoscere solo un paio di parole per giungere alla comprensione del resto del testo. L'edificio assumeva così anche la funzione di libro sacro, in un modo che non trova confronti in altre culture. Alcune m. indiane presentano l'intero Corano iscritto sui propri muri ed è abbastanza comune trovare fasce epigrafiche lunghe centinaia di metri. Il testo coranico circondava le cupole sia all'esterno sia all'interno, mentre in qualche caso le parole assumevano la foggia di un medaglione raggiato posto all'apice interno della volta stessa. Decifrare queste iscrizioni deliberatamente criptiche costituiva di per sé un aiuto alla meditazione sul loro significato. La monotonia veniva facilmente evitata grazie all'infinito variare delle grafie, angolari o curve, elaborate dai calligrafi musulmani. Le dimensioni potevano essere gigantesche - per es. quando veniva usato un intero muro per scrivere la parola Allah - oppure miniaturistiche, come in numerosi miḥrāb incorniciati da molteplici fasce con iscrizioni. Talvolta le iscrizioni erano ordinate su più registri oppure addirittura sovrapposte, ma rese comunque leggibili dall'uso di colori diversi.Per la decorazione delle m. venne impiegata un'ampia gamma di motivi, di colori e di tecniche artistiche: mosaici di pasta vitrea, mattonelle invetriate, mattoni e terracotte decorative, pietra e marmi scolpiti e incisi, affresco, intaglio ligneo, stucco inciso e dipinto. I pavimenti potevano essere coperti da tessuti (kilim, zilus), oppure costituiti da tappeti e da stuoie di canne, queste ultime spesso provviste di iscrizioni e vivacemente dipinte. I tessuti erano utilizzati diffusamente anche per la decorazione muraria e per dividere gli spazi. Tutto ciò permetteva che la dimensione del colore, così connaturata al gusto islamico, si trovasse pienamente espressa.
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