Morti bianche
«Il lavoro senza sicurezza è inefficiente» (Henry Ford)
Sicurezza e prevenzione
di
1° aprile
Il Consiglio dei ministri vara il Testo unico in materia di sicurezza che, oltre alla riorganizzazione e all’aggiornamento dell’attuale impianto normativo per perseguire una reale diminuzione degli infortuni e dell’incidenza delle malattie professionali, prevede misure specifiche coordinate e promozionali per contrastare gli incidenti sul lavoro e il ricorso al lavoro nero.
Il quadro di riferimento
La mancata prevenzione nel settore della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro e gli effetti da essa derivanti, cioè infortuni e malattie professionali, hanno contrassegnato, dal dopoguerra in poi, la crescita economica e industriale europea, costituendo nel corso dei decenni un prezzo inaccettabile e incompatibile con gli elevati livelli di benessere e qualità della vita raggiunti dai cittadini dell’Unione. È opinione condivisa tra gli analisti del settore che i costi che ne derivano rappresentino anche un freno all’incremento della crescita economica e dell’occupazione, oltre a incidere in modo rilevante sui bilanci dei sistemi sanitari nazionali e dei sistemi nazionali di previdenza. Ancora oggi il fenomeno degli infortuni, e più specificatamente di quelli mortali, accompagna tragicamente lo sviluppo dei paesi europei. In Italia negli ultimi anni si è diffuso l’uso di chiamare ‘morti bianche’ i decessi causati da incidenti che avvengono sul luogo di lavoro o nel percorso da e verso esso. Prima si parlava di ‘caduti del lavoro’ o addirittura di ‘omicidi del lavoro’, termine utilizzato prevalentemente negli anni 1960 dal movimento operaio con l’intento di enfatizzare la pericolosità connessa con l’intensificarsi delle attività industriali. Secondo recenti stime dell’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) ogni anno, nel mondo, circa 2 milioni di persone, tra cui 12.000 bambini, muoiono mentre svolgono un’attività lavorativa; in Italia avvengono mediamente 1 milione di infortuni e circa 1300 decessi sul lavoro, dunque quasi 4 morti bianche al giorno. Eppure nel corso degli anni la diffusione di nuove tecnologie nei processi produttivi, i risultati della ricerca in questo settore e l’applicazione di nuove norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro hanno consentito di ridurre l’incidenza del fenomeno. In particolare, nell’ultimo decennio, grazie alle misure adottate per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro, gli infortuni mortali hanno subito una flessione, anche se ancora non si è riusciti a ottenere una loro significativa riduzione. Secondo i dati INAIL (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) riguardanti l’attività di tutela assicurativa dei lavoratori degli ultimi 50 anni, gli infortuni sul lavoro hanno visto un calo progressivo (nel 1963 i morti del lavoro furono addirittura 4644) fino all’ultimo decennio, durante il quale la discesa è rallentata soprattutto per quanto riguarda gli incidenti con esito mortale (v. tab.). Nel 2007 le morti bianche sono state 1260 rispetto alle 1341 del 2006. Tali dati risultano comunque molto gravi, se messi in relazione alle nuove conoscenze in materia di sicurezza degli impianti e dei dispositivi e soprattutto alla luce della Direttiva comunitaria nr. 62 del 21 febbraio 2007 che prevede che i paesi UE intervengano attivamente con politiche volte a migliorare la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, fissando per il periodo 2007-12 una riduzione del 25% degli infortuni totali. È però importante sottolineare che la lettura dei dati riguardanti malattie professionali e infortuni sul lavoro va effettuata considerando non i valori assoluti, bensì quelli indicizzati che tengono conto anche di fattori quali l’andamento dei livelli di occupazione o la tipologia di tutela assicurativa, che in Italia è estesa a tutte le tipologie di lavoratore e comprende anche gli infortuni in itinere (la cui incidenza è aumentata notevolmente a partire dal 2001). Il 2006 ha visto un incremento degli occupati dell’1,9%. All’aumento dell’occupazione, in genere, corrisponde anche un incremento degli infortuni e infatti dal 2005 al 2006 si è passati da 1280 a 1341 decessi. La crescita dell’occupazione è dipesa dall’aumentato ricorso al lavoro flessibile e al lavoro prestato da immigrati e quindi un dato da non sottovalutare è quello relativo agli infortuni mortali occorsi a lavoratori interinali e parasubordinati, che si attesta sull’1% del totale, e soprattutto quello relativo agli immigrati, che corrisponde a circa il 12% del totale degli incidenti sul lavoro (dato sicuramente sottostimato poiché non comprende i valori riferibili al lavoro sommerso). Nel 2006 erano presenti in Italia 2,7 milioni di stranieri residenti, pari al 4,5% della popolazione totale (dato ISTAT), a cui andrebbero aggiunti gli immigrati senza regolare permesso di soggiorno. In generale l’occupazione straniera rappresenta circa il 6% della forza lavoro complessiva ed è costituita prevalentemente da cittadini non comunitari, di cui il 60% di sesso maschile, con una presenza più massiccia al Nord (64%); un gran numero è impiegato nel settore delle attività produttive (soprattutto le costruzioni). Per gli immigrati l’incidenza infortunistica ha un valore più elevato soprattutto perché spesso svolgono le mansioni più rischiose (bracciante agricolo, manovale edile, operaio ecc.) e ricoprono tali attività senza specifica esperienza e senza alcun tipo di formazione da parte dell’azienda presso la quale sono impiegati. Interessante è anche valutare i settori lavorativi che presentano i rischi maggiori. Anche se in valore assoluto il settore delle costruzioni è quello con più decessi (sui cantieri si verifica quasi un quarto delle morti bianche), tuttavia è l’attività di estrazione dei metalli il settore più pericoloso, con 0,37 morti l’anno ogni 1000 addetti, seguito da trasporti, costruzioni (0,2‰) e agricoltura (0,12‰). La causa principale di infortunio mortale è rappresentata dalle cadute dall’alto che, insieme ad altre tipologie di caduta o scivolamento da parte del lavoratore o di caduta sul lavoratore di materiale o di oggetti, macchine e dispositivi, provocano quasi il 42% del totale dei decessi. Gli incidenti spesso sono determinati dalla insufficiente formazione professionale e dallo scarso o errato utilizzo dei DPI (Dispositivi di protezione individuale), necessari nel caso in cui i rischi non possano essere eliminati o ridotti attraverso l’adozione di sistemi di prevenzione e protezione collettivi. Sempre più spesso a causare incidenti è l’interferenza tra le attività svolte dalle diverse imprese appaltatrici presenti in cantiere o sul posto di lavoro. Gli eventi più gravi come esplosioni, fuoriuscite di gas o vapori tossici, incendi o rotture con proiezioni di schegge causano meno del 3,5% degli infortuni mortali. Questa tipologia di sinistri ha infatti una scarsa frequenza, poiché le aziende a rischio di incidente rilevante, in base alla Direttiva comunitaria ‘Seveso’, recepita in Italia con il d.p.r. 175/88 e in seguito aggiornata con d.lgs. 334/99 e successive modifiche, devono adottare un Sistema di gestione della sicurezza (SGS) che consenta, attraverso il costante controllo dei processi aziendali, le azioni di manutenzione programmate e le ispezioni periodiche da parte degli organi competenti tese a ridurre frequenza e gravità degli eventi incidentali. Tuttavia l’incidente avvenuto il 3 marzo 2008 a Molfetta, in cui cinque operai, tra cui il datore di lavoro, sono morti mentre pulivano un’autocisterna per il trasporto dello zolfo, è un esempio di come tali incidenti possano verificarsi anche in microaziende o aziende a carattere familiare non ricomprese nella Direttiva ‘Seveso’. Da osservare anche la distribuzione territoriale degli infortuni, che si concentrano in valore assoluto soprattutto nelle regioni più industrializzate, con in testa la Lombardia. Anche in questo caso, però, i dati andrebbero valutati in base a valori indicizzati, per cui la regione a maggior rischio risulta l’Umbria, seguita dal Friuli-Venezia Giulia e dall’Emilia-Romagna; il Lazio, invece, è la regione a rischio minore, dato probabilmente connesso con l’elevata presenza, soprattutto nella capitale, di attività nel settore terziario. Anche i dati relativi alle altre regioni possono essere spiegati analizzando le tipologie di aziende presenti sul territorio, sempre confrontandoli con i tassi occupazionali. Mentre la Lombardia risulta la regione che presenta i valori più elevati di occupazione, l’Umbria registra molti casi di infortunio mortale nel settore agricolo (dovuti alla particolare orografia del territorio) e nelle Piccole e medie imprese (PMI), prevalentemente operanti nei settori dell’edilizia e nella produzione di materiali ceramici. Il problema della sicurezza delle PMI e delle microimprese (in Italia le aziende di piccole e piccolissime dimensioni, da 0 a 5 addetti, sono più del 95% del totale e la maggior parte di esse è di tipo artigianale o familiare) è sentito soprattutto in Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna, dove è massiccia la presenza di queste realtà produttive. Le imprese a più elevato rischio di infortunio sono le cosiddette microimprese (fino a 9 addetti), con una percentuale di morti bianche che supera l’86% del totale nazionale, ed è proprio verso queste realtà aziendali che devono diventare sempre più incisivi gli interventi di prevenzione.
Le azioni e gli strumenti di prevenzione
Nel 2006 l’OIL ha ratificato una Convenzione quadro per la sicurezza e la salute sul lavoro con l’intento di incoraggiare l’impegno politico a sviluppare strategie nazionali per promuovere la creazione di ambienti di lavoro più salubri e sicuri. In occasione della Giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro 2007, l’organizzazione ha pubblicato un rapporto (Safe and healthy workplaces. Making decent work a reality, Ginevra 2007) in cui viene messo in luce lo stretto legame tra lavoro ‘dignitoso’ e salute e sicurezza sul lavoro; in particolare si sottolinea la necessità di rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori e le norme internazionali sulla sicurezza e si chiede di intensificare le verifiche ispettive, implementare codici di condotta e buone pratiche e infine promuovere il dialogo sociale. In Italia gli obiettivi generali di prevenzione vengono fissati dal Piano nazionale della prevenzione (PNP), definito dal Ministero della Salute con l’accordo delle Regioni e delle Province autonome; nel piano vengono specificati gli ambiti prioritari di intervento e programmate tutte le attività da attuare a livello locale da parte delle ASL, per garantire il miglioramento delle condizioni di salute nei luoghi di lavoro. In particolare vengono stabiliti i Piani regionali di prevenzione con l’individuazione dei settori a maggior rischio e la pianificazione di specifici interventi a favore della salute dei lavoratori. Nel 2007 il governo, le Regioni e le Province autonome hanno sottoscritto il ‘Patto per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro’, in cui sono stati definiti gli strumenti strategici e le priorità di intervento per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Oltre alla predisposizione di azioni di prevenzione, omogenee a livello nazionale, tra cui la realizzazione di programmi di informazione per promuovere la cultura della sicurezza, viene posta particolare attenzione alla ridefinizione dei ruoli e dei compiti del SSN e delle altre istituzioni coinvolte nel sistema della prevenzione. Anche nel Piano sanitario nazionale 2006-08 viene sottolineata la necessità di collaborazione e di coordinamento tra i numerosi soggetti istituzionali, onde evitare la sovrapposizione delle competenze e favorire azioni di intervento congiunte, in accordo anche con le parti sociali. All’interno del Piano viene altresì promossa la realizzazione di azioni interistituzionali per il contrasto del lavoro irregolare e per la definizione di un sistema nazionale di elaborazione e raccolta delle buone prassi e si avviano azioni finalizzate alla promozione della ‘responsabilità sociale delle imprese’ e all’inserimento della salute e sicurezza del lavoro nei processi di gestione aziendale. Per poter attuare efficaci politiche di prevenzione è necessario conoscere i processi che portano alla genesi dell’infortunio. A tale proposito è importante sottolineare le attività di studio, ricerca e trasferimento delle conoscenze in campo infortunistico condotte da enti come l’ISPESL (Istituto superiore per la salute e la sicurezza sul lavoro) e l’INAIL ma anche dalle università. L’ISPESL, organo tecnico del SSN, è deputato principalmente allo svolgimento di programmi e progetti di studio e ricerca in materia di tutela della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro, oltre che allo svolgimento di attività di consulenza, informazione e formazione, di certificazione e omologazione di macchine e impianti, nonché di dispositivi individuali di protezione, di assistenza agli organi dello Stato per la sorveglianza del mercato e la sorveglianza epidemiologica. L’ente realizza e diffonde molteplici strumenti di prevenzione, come linee guida, buone prassi, percorsi formativi e banche dati. A partire dal 2002, l’ISPESL, con il coinvolgimento di INAIL, Regioni e Province autonome e delle parti sociali attraverso i Comitati paritetici, ha avviato la realizzazione di un Sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi, finalizzato alla creazione di un osservatorio nazionale e di una banca dati, consultabile anche on-line sul suo sito istituzionale. Il Sistema di sorveglianza intende principalmente investigare le cause di infortunio mortale attraverso la rilevazione dei dati provenienti dalle segnalazioni in possesso dei Servizi di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro (SPSAL) delle ASL e delle sedi territoriali dell’INAIL. I risultati dell’analisi dei dati sinora raccolti sono confluiti in un database nazionale che raccoglie oltre 2500 casi di infortunio mortale. Il progetto ha consentito, attraverso l’applicazione del modello ‘Sbagliando s’impara’ e del metodo ESAW (European Statistics on Accidents at Work) per la codifica delle modalità di accadimento, di effettuare l’analisi dettagliata delle cause, della dinamica, delle situazioni al contorno, delle procedure organizzative in essere e dei fattori che hanno provocato l’evento mortale. Il progetto ha anche il merito di aver avviato il processo di omogeneizzazione delle modalità di analisi dei fenomeni infortunistici da parte dei soggetti competenti; in alcune Regioni è stata anche promossa la collaborazione tra ASL e sede locale dell’INAIL per effettuare indagini integrate e organizzare percorsi di aggiornamento professionale. I dati raccolti hanno confermato le microimprese, in generale, e i settori lavorativi delle costruzioni, agricoltura, metallurgia e meccanica, in particolare, come gli scenari principali degli infortuni mortali. Dati di rilievo sono che il 20% delle vittime è rappresentato da microimprenditori e che gli infortuni mortali spesso avvengono nei primi 7 giorni di lavoro (12% degli infortuni mortali, con punte di quasi il 17% per il settore delle costruzioni); è inoltre emersa la rilevanza dei dati riferibili al lavoro irregolare (5,5%) e a quello svolto da pensionati (3,5%). Per quanto riguarda la genesi dell’infortunio, un terzo dei casi è dovuto al cosiddetto fattore umano, cioè alla responsabilità diretta dell’infortunato. Tuttavia il comportamento errato della vittima deriva spesso da fattori che prescindono dalla sua volontà, come l’inefficace o scarsa formazione sui rischi relativi alle mansioni da svolgere, i ritmi di lavoro troppo elevati e la cattiva gestione o assenza di un sistema di organizzazione aziendale. Le colpe dell’infortunio possono essere ricondotte anche al comportamento dannoso od omissivo di altri lavoratori, di dirigenti o preposti, dei datori di lavoro; possono poi essere dovute, anche se più raramente, a errori di progettisti, installatori e manutentori di macchine e impianti. L’ISPESL ha anche realizzato una banca dati dei profili di Rischio di comparto, rivolta soprattutto alle PMI, alle aziende artigiane e ai pubblici servizi, con una descrizione per ogni comparto di tutti i rischi connessi con ognuna delle fasi che costituiscono il ciclo lavorativo. È anche disponibile un archivio delle ‘soluzioni’, ovvero suggerimenti tecnico-organizzativi riguardanti impianti, macchine, prodotti e organizzazione del lavoro, e una raccolta di buone prassi contenente procedure e interventi studiati per i diversi settori lavorativi (legno, tessile, ospedaliero, portuale ecc.). Un altro importante strumento di prevenzione oggi a disposizione sono le linee guida relative a molteplici settori e attività e i safety-checks, sotto forma di lista, per rilevare e valutare le condizioni di sicurezza e igiene dell’ambiente di lavoro: in base a specifiche liste di rilevazione e valutazione dei processi, consentono infatti anche alle imprese più piccole di conseguire adeguati livelli di sicurezza senza dover necessariamente ricorrere a consulenze esterne. Ai fini della prevenzione rivestono particolare rilievo anche i percorsi formativi delle figure preposte alla prevenzione, dei datori di lavoro e dei lavoratori, nonché il coinvolgimento più diretto dei lavoratori nel sistema di gestione della sicurezza aziendale. Tra le attività promosse dal Ministero della Salute è di rilievo la stipula nel 2007 di un protocollo d’intesa (a integrazione di un protocollo siglato nel 2002 fra INAIL, ISPESL, Regioni e Province autonome e che prevede ora anche il coinvolgimento del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale e dell’IPSEMA, Istituto di previdenza per il settore marittimo), per la realizzazione di un Sistema informativo nazionale di prevenzione (SINP) nei luoghi di lavoro, attraverso la raccolta e la condivisione dei dati relativi alle aziende assicurate presso l’INAIL, dei dati su infortuni e malattie professionali delle banche dati del Ministero della Salute e dell’ISPESL, delle informazioni provenienti dai servizi delle ASL riguardanti le attività di vigilanza e di prevenzione effettuate presso le aziende. Per migliorare la gestione della sicurezza in alcuni degli ambiti produttivi a maggior rischio che, per la molteplicità e la complessità dei processi, prevedono spesso il ricorso all’appalto e al subappalto, il Ministero della Salute ha promosso la stipula di specifici protocolli di intesa. Di particolare importanza appaiono quelli per la pianificazione di interventi in materia di sicurezza riguardanti le aree portuali di Genova, Napoli, Ravenna e Venezia, lo stabilimento siderurgico Ilva di Taranto, i cantieri navali del gruppo Fincantieri, il petrolchimico Eni di Gela e infine lo stabilimento ThyssenKrupp Acciai Speciali di Terni. In tali protocolli, datore di lavoro, dirigenti, ditte appaltatrici, lavoratori, enti centrali e territoriali si raccordano in maniera continuativa per la migliore attuazione dei piani di organizzazione del lavoro finalizzati alla prevenzione in primis e al controllo a posteriori delle forme di prevenzione messe in atto.
La nuova normativa
Nonostante un corpo normativo comunitario in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro in continuo sviluppo dall’emanazione della Direttiva 391/89 in poi, gli obiettivi di salute relativi alla prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali rimangono in gran parte ancora disattesi tanto da indurre nell’opinione pubblica la convinzione che sia impossibile evitare eventi dannosi e/o luttuosi. L’Italia con la l. 3 agosto 2007 nr. 123 «Misure in tema di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e delega al governo per il riassetto e la riforma della normativa in materia» ha avviato un percorso atto a disegnare un nuovo sistema fondato sullo sviluppo di una cultura della prevenzione che aumenti la percezione del rischio, della sua prevedibilità e prevenibilità in una logica di sistema e di compartecipazione delle istituzioni e delle parti sociali. La legge – in attuazione della quale il governo il 1° aprile 2008 ha emanato il Testo unico in materia di sicurezza – prevede numerose e importanti disposizioni. Infatti, oltre alla riorganizzazione e all’aggiornamento dell’attuale impianto normativo per perseguire una reale diminuzione degli infortuni e dell’incidenza delle malattie professionali, contempla misure specifiche per contrastare gli incidenti sul lavoro e il ricorso al lavoro nero. È previsto che il personale ispettivo del Ministero del Lavoro possa disporre la sospensione di un’attività imprenditoriale nel caso in cui venga riscontrato l’impiego di personale non regolarmente registrato in percentuale pari o superiore al 20% oppure vengano rilevate «gravi e reiterate» violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e della normativa riguardante i tempi e gli orari di lavoro. Il provvedimento introduce inoltre alcune novità in materia di appalti, come l’elaborazione di un documento di valutazione dei rischi dovuti alle cosiddette ‘interferenze’ nelle attività svolte dalle imprese appaltatrici e subappaltatrici, da allegare al contratto d’appalto o d’opera, e l’obbligo della tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, per il personale delle imprese appaltatrici e subappaltatrici (con più di 10 dipendenti; per un numero inferiore è sufficiente un registro vidimato dalla Direzione provinciale del lavoro). Nel caso specifico di gare d’appalto pubbliche è anche fatto obbligo di indicare i costi relativi alla salute e sicurezza dei lavoratori, poiché le spese da sostenere a questo titolo non possono essere oggetto di ribasso d’asta. La legge conferisce nuovi poteri agli Organismi paritetici, già previsti dall’art. 20 del d.lgs. 626/94, ora autorizzati a effettuare sopralluoghi nei luoghi di lavoro al fine di valutare la corretta applicazione delle norme di sicurezza e informare dell’esito dell’ispezione le competenti autorità di coordinamento delle attività di vigilanza. Sono attribuiti maggiori compiti e poteri al rappresentante per la sicurezza dei lavoratori e ai rappresentanti dei lavoratori territoriali e di comparto, che possono esercitare le loro funzioni presso tutte le aziende del territorio o del comparto di competenza. Sono previsti infine sia l’intensificazione delle attività di vigilanza, con un più concreto coordinamento fra i vari organismi ispettivi, per evitare sovrapposizioni e/o interferenze, sia l’incremento del numero degli ispettori del lavoro. Particolare rilievo viene dato alle cosiddette ‘politiche premiali’ a vantaggio delle imprese che dimostrano di aver intrapreso efficaci piani di prevenzione. In particolare sono previste concessioni di credito di imposta per i datori di lavoro che investono in corsi di formazione sulla sicurezza e viene sollecitata la predisposizione da parte dell’INAIL di appositi bandi per il finanziamento di investimenti in materia di salute e sicurezza che coinvolgano PMI e microimprese. Tali imprese, in base alle procedure di autoliquidazione del premio assicurativo INAIL, possono beneficiare di riduzioni dell’importo dovuto se vengono riconosciute in regola con gli obblighi previsti dal d.lgs. 626/94 e successive modificazioni, ivi comprese quelle introdotte dalla l. 123/07, e se hanno trasmesso all’Ispettorato del lavoro territorialmente competente un piano pluriennale di prevenzione; non devono però aver registrato infortuni nei due anni precedenti la richiesta di ammissione al beneficio. Il 9 aprile, il decreto delegato «Testo unico normativo in materia di salute e sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori» è stato firmato dal presidente della Repubblica. Sua finalità è l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati. Il decreto, che si pone in continuità con il d.lgs. 626/94, non costituisce una mera razionalizzazione e attualizzazione delle numerose norme emanate dalla metà del secolo scorso a oggi, ma introduce elementi fortemente innovativi, contribuendo in modo significativo all’evoluzione e alla modernizzazione dell’approccio al problema. Infatti la norma disegna una nuova architettura del sistema della sicurezza affiancando al sistema delle imprese, già individuato dal d.lgs. 626/94 come centrale per il conseguimento degli obiettivi di salute attraverso lo strumento della valutazione del rischio, quello delle istituzioni e del coordinamento delle loro funzioni. Il decreto delegato contiene i principali e più importanti elementi di novità nel titolo I costituito da quattro capi: le disposizioni generali, il sistema istituzionale, il sistema di gestione e delle relazioni, le disposizioni penali. Tale impostazione, oltre ad avere il pregio della semplificazione permettendo di ridurre ampiamente il numero delle sanzioni, presenta un quadro organizzativo coeso e coerente con i principi della tutela della sicurezza sul lavoro. Per quello che riguarda il sistema istituzionale sono individuate due ‘cabine di regia’: il Comitato per l’indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro e la Commissione consultiva permanente per la salute e la sicurezza sul lavoro. Al Comitato, istituito presso il Ministero della Salute che lo presiede, compete di stabilire le linee comuni e individuare gli obiettivi delle politiche nazionali in materia, definire la programmazione annuale in ordine ai settori prioritari di intervento, ai piani di attività e ai progetti operativi a livello nazionale, programmare il coordinamento della vigilanza, garantire lo scambio di informazioni tra i soggetti istituzionali al fine di promuovere l’uniformità dell’applicazione della normativa vigente, individuare le priorità della ricerca in tema di prevenzione. La Commissione ha funzioni prevalentemente di valutazione e promozione delle attività in materia di salute e sicurezza del lavoro, nonché di esame dei problemi applicativi della normativa di salute e sicurezza sul lavoro. A sostegno del sistema della prevenzione è costituito il già citato Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro cui concorrono il Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, il Ministero della Salute, il Ministero dell’Interno, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, l’INAIL, l’ISPESL, l’IPSEMA e il CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro). Di particolare rilievo sono la definizione del ‘sistema’ delle amministrazioni e degli enti statali aventi compiti di prevenzione e formazione, in cui INAIL, ISPESL e IPSEMA devono svolgere nuove e più significative funzioni attraverso un’azione coordinata, come pure il tanto auspicato coordinamento di tutte le attività di vigilanza. Ancora da segnalare le attività promozionali con riguardo al finanziamento di progetti di investimento in materia di salute e sicurezza sul lavoro da parte delle piccole, medie e microimprese attraverso procedure semplificate e di progetti formativi a esse dedicati, e il finanziamento di specifici corsi sulla sicurezza in ogni attività scolastica e universitaria e nei percorsi di istruzione e formazione professionale. Per quello che riguarda la gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro, le principali novità sono rappresentate dalle disposizioni relative ai componenti dell’impresa familiare e ai lavoratori autonomi e dalla definizione di un sistema di qualificazione delle aziende con riferimento alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, fondato sulla base della specifica esperienza, competenza e conoscenza, acquisite anche attraverso percorsi formativi mirati. Questo requisito diviene, tra l’altro, vincolante per la partecipazione alle gare relative agli appalti e subappalti pubblici. Infine è da segnalare la creazione presso l’INAIL di un fondo di sostegno alla piccola e media impresa che prevede, tra l’altro, il finanziamento della formazione dei datori di lavoro delle PMI, dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi.
Conclusioni
Per riassumere, si può affermare che in un paese come l’Italia gli incidenti, soprattutto quelli mortali, possono essere ridotti drasticamente attraverso interventi mirati di prevenzione, che sono senza dubbio alla portata del nostro sistema produttivo: si tratta di una efficace conoscenza dei rischi attraverso una adeguata comunicazione, informazione e formazione, di una corretta applicazione della normativa vigente e dell’implementazione di buone prassi per la gestione delle attività lavorative. In definitiva, gli infortuni sono eventi prevedibili, come ha asserito Sameera Maziadi Al Tuwaijri, direttrice del programma Safework dell’OIL, dichiarando che: «Gli incidenti non sono intrinseci al lavoro. L’esperienza dimostra che la maggior parte di essi si può evitare. C’è tuttavia bisogno dell’impegno dei governi, degli imprenditori e dei lavoratori per attuare sistematicamente le buone pratiche di prevenzione a livello nazionale e di singola impresa». La sfida si può vincere.
Lo scenario internazionale
La normativa europea
Il legislatore comunitario ha provveduto a disciplinare ampiamente il tema della sicurezza e della prevenzione degli incidenti sul posto di lavoro, con un’intensificazione negli ultimi due decenni degli interventi volti a garantire un livello di tutela minima uniformemente assicurato da parte di tutti gli Stati membri.
Le prime iniziative in materia risalgono all’indomani della tragedia avvenuta nell’agosto 1956 a Marcinelle, in Belgio, nella quale trovarono la morte 272 minatori, 136 dei quali emigrati italiani. Nel 1957, sulla base del Trattato CECA, venne creato l’Organo permanente per la sicurezza nelle miniere di carbone, con il compito di preparare proposte da sottoporre ai governi degli Stati membri in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nelle miniere e di assistere l’Alta autorità nella sua funzione di elaborazione della normativa comunitaria. In questa prima fase, l’attività della comunità si caratterizzò per una certa frammentarietà, essendo costituita per lo più di atti non vincolanti, come le raccomandazioni in materia di medicina del lavoro nelle imprese e di malattie professionali, emanate rispettivamente il 20 e il 23 luglio 1962. Stante la diversità dei regimi di tutela nei vari paesi, fu, tuttavia, sempre più avvertita la necessità di uniformare e migliorare queste misure, che si avvertivano avere un’influenza diretta sul funzionamento del Mercato comune, in vista di uno sviluppo economico e sociale armonioso della Comunità. Assunse, allora, grande rilievo il Programma di azione sociale varato dal Consiglio con la risoluzione del 21 gennaio 1974: in esso era riconosciuto il rilievo delle iniziative da adottare in materia di salute e sicurezza dei lavoratori, nel più generale contesto dell’azione comunitaria di promozione del miglioramento delle condizioni di lavoro. A questo primo programma ne seguirono altri tre, nel 1978, nel 1984 e nel 1987, più specificatamente dedicati alla salute e alla sicurezza sul lavoro.
Su queste basi, oltre alla creazione di un Comitato consultivo per la sicurezza, l’igiene e la tutela della salute sul luogo di lavoro, si arriva all’adozione di numerose direttive. La più importante di queste è la nr. 80/1107, sulla protezione contro i rischi derivanti dall’esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici: un atto che forniva una disciplina quadro in materia, sulla cui base furono assunte successive disposizioni particolari, che fissarono il valore limite di esposizione agli agenti nocivi (per es. la dir. 82/605 sui rischi da esposizione a piombo metallico o l’analoga dir. 83/477 riguardante l’amianto). Ai datori di lavoro fu imposto l’obbligo di adottare determinate misure di prevenzione e di sicurezza, in modo da ridurre «i rischi derivanti dall’esposizione al livello minimo ragionevolmente praticabile tenuto conto del progresso tecnico» (art. 5 della dir. 86/188, sulla protezione contro i rischi da tumore). Questo criterio della ragionevole praticabilità rappresentava il grande limite della disciplina tratteggiata dalla dir. 80/1107, dal momento che manteneva una forma di subordinazione della tutela della salute a valutazioni di carattere economico. La sua introduzione fu conseguentemente accompagnata da polemiche, soprattutto in Italia, dato che nel nostro ordinamento era già seguito il ben più rigoroso criterio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile. Ciononostante, va sottolineato il carattere di forte innovazione portata dalle nuove disposizioni, che ebbero il merito di adeguare costantemente la normativa all’evoluzione tecnica e produttiva, valorizzare il ruolo che i lavoratori, direttamente o tramite rappresentanti, potevano svolgere nella tutela della salute e salvaguardare le norme nazionali di più ampio contenuto protettivo per i lavoratori.
Un forte ostacolo alla legiferazione era dato dalla procedura da seguire per l’approvazione delle direttive in questa materia, visto che, sulla base dell’art. 100 del Trattato CEE, era richiesto il raggiungimento dell’unanimità dei consensi. Un notevole passo avanti fu, perciò, rappresentato dall’approvazione dell’Atto unico europeo del 1986, che ha inserito nel Trattato l’art. 118/A (ora art. 137, testo cons., TCE), che recita: «gli Stati membri si adoperano per promuovere il miglioramento in particolare dell’ambiente di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori e si prefiggono come obiettivo l’armonizzazione, in una prospettiva di progresso, delle condizioni esistenti in questo settore. Nell’ambito della cooperazione tra le istituzioni comunitarie, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, in cooperazione con il Parlamento Europeo e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta mediante direttive le prescrizioni minime applicabili progressivamente ...». Così, da una parte, il processo decisionale è stato modificato, consentendo l’assunzione delle deliberazioni a maggioranza qualificata, dall’altra si è sottolineato come la sicurezza e la salute formino oggetto di una responsabilità condivisa, dal momento che sia la Comunità sia gli Stati membri sono competenti per il loro miglioramento. La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea ha inequivocabilmente chiarito che l’espressione «prescrizioni minime» si deve intendere non come prescrizioni di basso livello, ma prescrizioni che possono essere rese ancora più rigorose dai singoli Stati (sentenza 12/11/1996 in causa C-84/94). Rispetto alla disciplina precedente, va poi evidenziato come l’obiettivo della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori vada ormai perseguito indipendentemente da considerazioni di carattere puramente economico. Non che le questioni di natura economica siano state completamente tralasciate: lo stesso art. 137 specifica al paragrafo 2 lett. b) che le misure previste debbono evitare di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo delle piccole e medie imprese, quindi devono essere sostenibili dalle imprese cui sono destinate. Dopo l’approvazione dell’Atto unico la Commissione, basandosi sulle nuove competenze sociali, sollecitò l’approvazione del terzo Programma d’azione in materia di sicurezza, igiene e salute nei posti di lavoro, che venne adottato con la risoluzione del Consiglio del 21 dicembre 1987. Il risultato più rilevante di questa nuova iniziativa comunitaria fu indubbiamente la direttiva nr. 391 del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. Come la 80/1107 si trattava di una direttiva quadro, cui fecero seguito numerose direttive specifiche. In essa si delineava un sistema organico di programmazione, pianificazione e controllo dell’attività di natura più preventiva che indennitaria, introducendo il criterio della massima sicurezza «tecnologicamente possibile», così da superare quello della ragionevole praticabilità enunciato dalla dir. 80/1107. Si determinavano, perciò, per un verso, l’accrescimento dei livelli di tutela con l’obbligo per il datore di lavoro di adeguare i sistemi di prevenzione in azienda alle acquisizioni della più moderna tecnologia e, per altro verso, lo sganciamento da calcoli di convenienza economica. Il campo di applicazione della direttiva 80/391 è decisamente ampio: sono infatti compresi tutti i settori di attività, privati e pubblici, con limitate eccezioni riguardanti comparti specifici del pubblico impiego, come Forze Armate e servizi di Protezione Civile. Non sono presenti neanche distinzioni in ordine alla dimensione dell’impresa, così che l’insieme delle prescrizioni sembrerebbe applicabile a prescindere dalla consistenza dell’organizzazione produttiva del datore di lavoro. Inoltre, la tutela prevista non riguarda soltanto l’attività lavorativa vera e propria, ma anche le attività inerenti a essa: di conseguenza, non deve concernere solo l’ambiente di lavoro in senso stretto, cioè il luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la sua attività, ma deve seguirlo ovunque si trovi in ragione dell’adempimento della sua obbligazione lavorativa. Esempio tipico di evento connesso con il lavoro è l’infortunio in itinere.
La direttiva si articola in due sezioni, dedicate rispettivamente agli obblighi del datore di lavoro e a quelli dei lavoratori. Sul primo grava il generalissimo onere di «garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi con il lavoro» (art. 5 par. 1), rispettando due obblighi fondamentali, che vanno adattati al tipo di attività: l’organizzazione delle misure di prevenzione e di protezione e il costante controllo e aggiornamento di esse (art. 6 par. 1). Le altre disposizioni della direttiva danno contenuto a tali obblighi e indicano in relazione a essi le competenze, i compiti e le responsabilità degli altri soggetti interessati alla sicurezza. L’incisività dell’art. 5 risulta ulteriormente accentuata dalla circostanza che nella direttiva è sottolineato il carattere personale della responsabilità del datore in relazione agli obblighi di sicurezza. Al fine di agevolare la messa in atto delle misure da predisporre, la direttiva fornisce un elenco di principi generali di prevenzione (tra cui evitare i rischi; valutare quelli che non possono essere evitati; combattere i rischi alla fonte; attenuare il lavoro monotono e ripetitivo ecc.), cui le misure stesse devono conformarsi. Rilievo cruciale riveste anche l’obbligo di informazione, formazione, partecipazione e consultazione dei lavoratori: a tal fine, il datore è tenuto, innanzi tutto, a fornire ai lavoratori tutte le informazioni necessarie riguardanti i rischi per la sicurezza e la salute, nonché le misure e le attività di protezione e prevenzione. È necessario, inoltre, che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza, con periodici aggiornamenti. L’art. 7 prevede, infine, che il datore designi «uno o più lavoratori per occuparsi delle attività di prevenzione dei rischi professionali nell’impresa e/o nello stabilimento»: questi soggetti devono avere conoscenza, per l’espletamento delle loro funzioni, dei rischi prevedibili e delle misure di protezione, nonché della documentazione predisposta a tal fine.
Per quel che riguarda, invece, gli obblighi dei lavoratori, la direttiva precisa che ciascuno di essi deve «prendersi ragionevolmente cura della propria sicurezza e della propria salute, nonché di quelle delle altre persone su cui possono ricadere gli effetti delle sue azioni o omissioni» (art. 13). Questo generalissimo dovere risulta poi articolato in una serie di prescrizioni specifiche, come l’utilizzo in modo corretto dei macchinari, delle sostanze pericolose e delle attrezzature di protezione, o la segnalazione immediata di qualsiasi situazione dalla quale possa originare un pericolo grave. È chiaro, perciò, che i lavoratori non sono solo i soggetti tutelati, ma sono coprotagonisti assieme al datore di lavoro dell’attività rivolta alla loro sicurezza.
Come tutte le direttive, anche quella in oggetto è prima di tutto rivolta agli Stati, secondo il principio della suddivisione dei compiti, di cui al principio di sussidiarietà. Contiene perciò le linee di indirizzo, l’indicazione dei principi fondamentali e le misure minime, mentre spetta ai singoli governi darvi attuazione. Questo implica una possibile difformità di disciplina della sicurezza negli Stati membri: lo scostamento tra i diversi ordinamenti nazionali dipende allora anche dalla maggiore o minore sensibilità degli stessi verso i problemi sociali e verso la protezione dei lavoratori in particolare. Oltre a contenere indicazioni agli Stati, con efficacia cosiddetta verticale, molte disposizioni della direttiva contengono tuttavia precisi e completi obblighi a carico delle parti e corrispondenti diritti. Anche se queste ultime non hanno comunque efficacia orizzontale, non sono cioè direttamente applicabili ai rapporti interprivati, di esse non può non tenersi conto nella lettura del diritto interno, che deve essere interpretato in modo conforme alle disposizioni comunitarie che presentino i caratteri della completezza e della precisione. Durante gli anni 1990 numerose altre direttive, particolari e non, sono state emanate per consolidare ed estendere la rete protettiva a diversi settori produttivi, attività lavorative e rischi distinti. Tutta l’attività normativa in questione è caratterizzata dalla recezione del principio della ‘massima sicurezza possibile’ e dal coinvolgimento dei lavoratori, anche tramite le loro rappresentanze, mediante diritti di informazione, consultazione e partecipazione. Di rilievo, in quest’ambito, è la direttiva nr. 91/383, che riguarda la tutela di una serie di lavori ‘atipici’, tra cui il lavoro interinale, al tempo poco conosciuto e salvaguardato dai diritti nazionali.
L’attività di recezione e attuazione delle norme della direttiva quadro e delle direttive particolari ha incontrato difficoltà nei paesi con una minore cultura della prevenzione, come Italia, Spagna o Grecia. In essi, infatti, le norme, sebbene ‘minime’, sono state inizialmente considerate come obblighi costosi, possibilmente da eludere o raggirare. Anche in questi paesi, comunque, un processo innovativo in tema di cultura della sicurezza sul lavoro è stato successivamente avviato.
Oltre alla produzione normativa, riguardo all’azione comunitaria susseguente al Programma d’azione del 1987 è da segnalare l’istituzione di un organismo tecnico-consultivo, l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (regolamento nr. 2062/94 del Consiglio, del 18 luglio 1994), incaricata di raccogliere e diffondere informazioni tecniche, scientifiche ed economiche negli Stati membri, nonché di promuovere la ricerca, anche in collegamento con le organizzazioni internazionali specializzate. Altre iniziative di tipo non legislativo sono il programma Safe, volto a promuovere la corretta applicazione della legislazione vigente, soprattutto nelle piccole e medie imprese, attraverso il finanziamento di attività formative, e il programma Phare, finalizzato a offrire un sostegno, soprattutto finanziario, agli Stati (allora) candidati all’ingresso nell’Unione per agevolarne l’adeguamento agli standard comunitari di protezione della salute nei luoghi di lavoro.
Riveste interesse, infine, la comunicazione della Commissione Europea trasmessa il 5 febbraio 2004 al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle Regioni nella quale, a distanza di 15 anni, veniva fatto il punto sulle disposizioni delle maggiori direttive che si occupano di sicurezza sul lavoro: oltre alla 89/391, sono state prese in considerazione la 89/654 (luoghi di lavoro), la 89/655 (attrezzature da lavoro), la 89/656 (dispositivi di protezione individuale), la 90/269 (manutenzione manuale dei carichi) e la 90/270 (attrezzature schermanti per la protezione degli occhi). I commenti della Commissione riguardavano in particolare la modalità in cui la legislazione in materia di sicurezza è stata applicata nei vari Stati membri, il rapporto costi/benefici per le imprese, gli effetti economici generali e le indicazioni per un miglioramento della disciplina.
L’OIL
L’intervento normativo della Comunità Europea è stato certamente influenzato dall’azione di alcune organizzazioni internazionali, in primis l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL). Costituita nel 1919 come Conferenza internazionale del lavoro nell’ambito della Società delle Nazioni e divenuta nel 1946 la prima istituzione specializzata collegata con le Nazioni Unite, l’OIL ha come scopo primario la promozione dell’adozione di condizioni di lavoro eque e umane per i lavoratori attraverso la creazione di una legislazione minima uniforme che gli Stati membri si impegnano ad accettare e applicare. La protezione dei lavoratori contro gli infortuni sul lavoro è posta tra i suoi obiettivi principali, elencati nel preambolo della parte XIII del Trattato di Versailles, che è la sua Costituzione.
Carattere peculiare dell’OIL, unica nel suo genere, è il tripartitismo. Con questo termine si indica una struttura che prevede che i delegati dei datori di lavoro e dei lavoratori, designati dalle associazioni più rappresentative, seggano negli organi deliberanti e con parità di diritti al fianco dei rappresentanti dei governi. I partecipanti agli organi collegiali hanno titolo per votare in maniera difforme anche se provenienti dallo stesso paese.
Per promulgare le sue decisioni, l’OIL si avvale di due strumenti: convenzioni e raccomandazioni. La convenzione ha la struttura di un trattato internazionale multilaterale. Deve essere perciò ratificata da parte dei singoli Stati membri che in tal modo assumono un duplice obbligo: il formale impegno di applicarne le disposizioni e l’accettazione di un controllo internazionale. La raccomandazione, invece, pur essendo simile alla convenzione, non dà luogo a ratifica poiché è essenzialmente destinata a orientare l’attività sul piano nazionale, offrendo delle linee guida per gli Stati. Generalmente concerne quelle materie che, per la loro complessità o per la diversa disciplina tra gli Stati, difficilmente potrebbero essere trattate in sede di elaborazione di una convenzione, oppure esplicita in dettaglio le norme contenute nella convenzione alla quale si accompagna.
L’OIL ha sviluppato numerosi accordi tesi a sviluppare negli Stati aderenti una cultura della sicurezza in ambito lavorativo. Il primo testo adottato risale al 21 giugno 1929, con la raccomandazione nr. 31 sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, nella quale erano indicate le relative misure da adottare. Rivestono inoltre una particolare importanza le raccomandazioni nr. 97/1953 e 112/1959 concernenti la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la protezione della salute sui luoghi di lavoro e i servizi di medicina del lavoro nelle aziende, e le convenzioni nr. 102/1952, 117/1962, 121/1964 sulle norme minime della sicurezza sociale, gli obiettivi e le norme fondamentali di politica sociale, le prestazioni in caso di infortunio sul lavoro o di malattie professionali.
L’intera politica dell’OIL in questa materia è riassunta in due convenzioni internazionali e nelle raccomandazioni che le accompagnano: la convenzione nr. 155/1981 con la raccomandazione nr. 164/1981, riguardanti la salute e la sicurezza di lavoratori e ambienti di lavoro, affrontano, per la prima volta, il problema della sicurezza in modo globale, stabilendo l’applicazione della stessa a tutte le branche di attività economica e a tutte le categorie di lavoratori, oltre alle azioni da intraprendere a livello nazionale e aziendale (artt. 1, 4, 8, 16). In modo analogo la convenzione nr. 161/1985 e la raccomandazione nr. 171/1985 si occupano dell’introduzione di servizi per la salute nel lavoro, per contribuire all’incremento degli standard indicati nei testi precedenti.
Principi e contenuti di questi atti, come l’eliminazione dei fattori di rischio e di incidente, l’informazione, la consultazione, la partecipazione equilibrata e la formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, sono stati in seguito recepiti e implementati dalla direttiva nr. 89/391 della Comunità Europea.
Dati numerici
Per verificare l’effettivo successo riscosso dalle politiche in materia di sicurezza sul lavoro intraprese sia dagli organismi internazionali, sia dai governi nazionali, è sicuramente utile la consultazione delle statistiche annualmente elaborate da varie agenzie. La comparazione tra i dati rilevati nei vari Stati, anche per quanto riguarda quelli economicamente più avanzati, è, tuttavia, difficile da attuare, in quanto in ciascuno, nell’effettuare il calcolo, vengono presi in considerazione elementi non coincidenti. Per es., soltanto alcuni Stati includono gli incidenti stradali in itinere nelle loro statistiche. In altri la copertura degli incidenti non è completa in alcuni settori, in special modo quelli pubblici, in quelli della pesca e delle industrie estrattive o nelle imprese familiari. Per questa ragione, i dati raccolti dalle agenzie internazionali, come Eurostat per l’Unione Europea o il Bureau of Statistics dell’OIL, generalmente si basano su alcuni campi comuni a tutte le nazioni, tra i quali l’agricoltura, i trasporti o le imprese di costruzioni.