morire (morere, in rima)
Quanto alla morfologia, oltre alla normale alternanza di forme dittongate e non dittongate (muore anche in poesia - Rime CIV 90 -, ma in rima sempre more; al congiuntivo presente si ha moia [in rima], mora e muoia), si notino: moro, ind. pres. I singol.; mora, imper.; morria, cond. pres. III singol.; in rima, morrei, cond. pres. I singol.; muoi, cong. pres. I singol.; morisse, cong. imperf. I singolare.
Il verbo è di uso molto largo in tutte le opere (fatta eccezione per il Detto) e ricorre spesso al participio passato (manca invece il participio presente), con funzione sia attributiva che predicativa; in alcuni casi il participio è sostantivato. Si ha anche qualche esempio di infinito sostantivato. Particolarmente degni di nota sono la forma ‛ morirsi ', abbastanza frequente (per il cui uso, anche presso altri scrittori, v. Franca Brambilla Ageno, Il verbo nell'italiano antico, Milano-Napoli 1964, 141), e il costrutto transitivo.
All'uso proprio si alterna quello figurato; non sempre però è possibile definire con certezza l'uno e l'altro valore; né è possibile, per il modo stesso in cui il verbo è impiegato in rapporto alle varie situazioni, una trattazione rigorosamente basata sui diversi costrutti, che porterebbe al frazionamento dei valori semantici. Pertanto i vari esempi verranno raggruppati e discussi tenendo conto soprattutto del significato.
1. Come intransitivo, nel senso proprio di " cessare di vivere ", detto di persone, è adoperato sia in assoluto, sia con espressioni (talora un predicativo) che indicano circostanze determinate: Vn XXXIII 6 13 sono astioso di chiunque more; XXXII 2 mi pregoe ch'io li dovessi dire alcuna cosa per una donna che s'era morta; e simulava sue parole, acciò che paresse che dicesse d'un'altra, la quale morta era certamente; If III 122 quelli che muoion ne l'ira di Dio; Pg III 136 quale in contumacia more / di Santa Chiesa; Pd XIX 76 Un uom... / Muore non battezzato e sanza fede; Cv IV XXIV 17 se lo padre muore intestato; e così Vn XIX 9 36, Cv IV XI 14, XXIX 11, Pd III 100 (infinito sostantivato), e, al participio, Rime dubbie XIII 6, Cv III XV 17.
Più frequente l'allusione a personaggi determinati, attinti alla storia o al mito: da Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade (Cv IV XXIII 10; cfr. anche § 11 e, con costrutto transitivo passivo, II V 2), a s. Giovanni che vide tutti i tempi gravi, / pria che morisse, de la bella sposa (Pd XXXII 128), agli apostoli Pietro e Paolo (XVIII 131), a Filippo III di Francia, che morì fuggendo e disfiorando il giglio (Pg VII 105), a Marzia, desiderosa che dopo me si dica ch'io sia morta moglie di Catone (Cv IV XXVIII 18), alla vergine Cammilla, a Pallante (If I 107, Pd VI 36), a Nesso, / che morì per la bella Deianira (If XII 68), a Omberto Aldobrandeschi, a Provenzano Salvani (Pg XI 65 e 125), ecc.: cfr. ancora Cv IV XXVIII 15, If XIII 71 (infinito sostantivato), XV 58, XXVII 112, Pg XVII 27, Pd X 135, If XXIX 111, XXXIII 70, 74, 121 e 140, XXVI 84; Vn XXII 16 14, Pg X 84. Al participio: If XXVI 61 morta, / Deïdamìa ancor si duol d'Achille, e XXX 17 Ecuba... / vide Polissena morta; Pg XII 41 e 54, Rime dubbie IV 4, sempre come predicativo; come attributo, in Cv IV XXVI 13 e XXVII 17.
Soltanto una volta, nella Commedia, il verbo si riferisce a Virgilio (If XXVIII 49), e un'altra volta a Virgilio e a D. insieme: s'e' son morti, per qual privilegio / vanno scoperti de la grave stola? (XXIII 89). Le allusioni a D., sporadiche nella Commedia - nelle parole dei suoi interlocutori (Pg XX 42 e XXVI 75, Pd XXII 15; in Pg XI 104 il tu, pur riferito a D., ha valore generico, alludendo in realtà a tutti gli uomini) e una volta, in sede di paragone, in quelle del poeta stesso (io venni men così com'io morisse, If V 141) -, sono invece piuttosto frequenti nella Vita Nuova e nelle Rime, nell'ambito di ‛ visioni ' o in genere di particolari situazioni psicologiche; sicché in qualche caso il verbo attenua il suo valore proprio, avvicinandosi a quello figurato. Così nel lungo capitolo della Vita Nuova, in cui D. narra di essere stato preso da uno sì forte smarrimento, che... cominciai a travagliare sì come farnetica persona, onde apparvero a me certi visi di donne... che mi diceano: " Tu pur morrai "; e poi... " Tu se' morto " (XXIII 4). Cessata la fantasia, D. si rivolge alle donne che lo assistono, le quali quando mi videro, cominciaro a dire: " Questi pare morto " (§ 14). La vicenda è rievocata nella canzone che segue, con l'efficace duplicazione - visi di donne m'apparver crucciati, / che mi dicean pur: - Morra ' ti, morra ' ti - (§ 22 42) - che ricorda il Moia, moia che pare ‛ gridato ' dalle pietre (XV 5 8), nonché l'altro Mora, mora!, anch'esso ‛ gridato ' dai Palermitani contro la mala segnoria di Carlo d'Angiò (Pd VIII 75). E cfr. ancora Vn XII 13 33, XXXII 5 4; Rime LXVI 13 Gentil mia donna, mentre ho de la vita, / per tal ch'io mora consolato in pace, / vi piaccia agli occhi mei non esser cara, e XCI 32; Rime dubbie XX 4 Tre pensier... fannomi morere; II 12 e XXVII 14. Nella canzone Amor, da che convien (Rime CXVI) il verbo ritorna cinque volte, ai vv. 7, 12 (infinito sostantivato), 40, 42, e 64 (al participio). Decisamente figurato in Rime LXVIII 14 Per quella moro c'ha nome Beatrice.
Nello stesso capitolo XXIII della Vita Nuova si addensano alcune delle occorrenze riguardanti Beatrice (è appunto il pensiero della morte di lei che provoca in D. lo smarrimento di cui si è detto): Onde... dicea fra me medesimo: " Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia " (§ 3); e poi, nella ‛ visione ' (Vero è che morta giace la nostra donna, § 8, due volte), con ripresa nella canzone: Ben converrà che la mia donna mora (§ 21 34); non sai novella? / Morta è la donna tua (§ 24 56; cfr. anche § 26 66). Si veda inoltre XXXI 14 55, XXXVII 8 13, XL 1; Rime LXXII 14 (se la nostra donna è Beatrice).
Anche nel Fiore, per il carattere stesso dell'opera, il verbo è talvolta al limite del figurato: prima... converrà ch'eo mora; / per che 'l me' core sta tanto doglioso / di quel villan, VII 5; fermo son, se morir ne dovesse, / d'amar il fior, XLVI 12; Malabocca... già era morto, CXCIV 9 (cfr. anche CXXXIX 13 [per il costrutto, v. 2.] e, al participio, CXL 2 e CC 10, con riferimento allo stesso personaggio); in senso proprio, Molti buon Santi ha l'uon visti morire, XCV 1; XCIX 6, CVIII 7, CCXI 14.
Nel Fiore ricorre, due volte, la formula ‛ far m. a gran dolore ' (XXVI 8 e XCII 10). ‛ Far m. ' anche in XLIV 7, e Rime dubbie XX 4 (già citato).
Il participio passato con valore di sostantivo si ha nel capitolo XXIII della Vita Nuova (le corpora de li morti, § 10: si noti la frequenza del verbo in questo capitolo) e nella Commedia, ora in senso del tutto generico (If XII 82; in Pg XII 67 il participio ricorre due volte, una come sostantivo, una come predicativo), ora con riferimento a coloro che D. definisce i veri morti (Pg XXIII 122), cioè i " dannati che sono morti quanto a la grazia, che mai debeno avere remissione " (Buti); l'allusione anche a questa ‛ morte ' spirituale, che si può cogliere inoltre nelle occorrenze di If XXVIII 131 e Pg XXX 139 (e in If VIII 85 morta gente, quelli che " son morti della morte temporale e morti nella morte eternale ", Boccaccio), è invece naturalmente esclusa nel Purgatorio: in XI 72 i morti sono i penitenti.
Oltre che a persone, il verbo, al participio, è riferito a cose che tuttavia sono strettamente connesse con la persona fisica o addirittura la indicano: lo fuoco che dovea ardere lo corpo morto (Cv IV XXVI 13); caddi come corpo morto cade (If V 142; e cfr. anche Pd XIV 63); Vn VIII 6 11 'l vidi [Amore] lamentare... sovra la morta imagine avvenente, " sopra quel bel corpo, di donna morta " (Barbi-Maggini); Rime XL 13; e così ancora per la faccia di Forese (Pg XXIII 55) e le ossa di Manto (If XX 91). In ciò che non more e ciò che può morire (Pd XIII 52) D. accomuna tutte le creature, sia quelle corruttibili, animate e non, sia quelle incorruttibili: gli angeli, i cieli, l'anima, di cui una parte [la razionale]... mai non muore (Cv IV XXIII 3; invece Epicuro e tutti suoi seguaci / ... l'anima col corpo morta fanno, If X 15).
Tre volte il verbo è riferito ad animali - gli uccelli, che a D. pareva che per l'aria cadessero morti (ancora Vn XXIII 5), la simbolica lupa (If I 102) e la mitica fenice (XXIV 107) -; una volta alle piante che, se si transmutano, o muoiono del tutto o vivono quasi triste (Cv III III 4; ma vedi anche Rime C 42 morta è l'erba, e 47).
Degno di nota l'uso di m. (talora al participio) in contrapposizione più o meno accentuata a ‛ vivo ', ‛ vivere ', ‛ vita ', a cominciare dal deciso Qual io fui vivo, tal son morto di Capaneo o dall'Io non mori' e non rimasi vivo di D. al cospetto di Lucifero (If XIV 51 e XXXIV 25). E ancora: E tu che se' costì, anima viva, / pàrtiti da cotesti che son morti (III 89, dove si può cogliere ancora l'allusione alla ‛ morte ' spirituale); Vn XL 1 la cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissima donna; Rime CXVI 64 qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi, e Fiore XLV 7 l'Amor... / fa le genti vivendo morire, già ricordati; a questi si aggiungano i passi, anche già visti, di Rime LXVI 13, If XXIII 89, Pg XI 72 e XII 67, Pd XVIII 131; e infine, con costrutto impersonale, Pd XIV 25.
Tale contrapposizione si nota anche nel Convivio: due volte m., al participio, è in senso proprio (IV XIV 14); parecchie altre volte ritorna nel capitolo VII dello stesso trattato, con significato metaforico, sempre alludente alla ‛ morte ' spirituale. Il punto di partenza è dato dal passo di Le dolci rime dove si parla della ‛ viltà ' di colui cui è scorto 'l cammino e poscia l'erra, e arriva al punto ch'è morto e va per terra (v. 40). Il verso è poi ripreso e commentato: dico questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che veramente morto lo malvagio uomo dire si puote (VII 10). Segue poi, sulla scorta di Aristotele, la dimostrazione che, se 'l vivere è l'essere [ dei viventi... ragione usare è l'essere] de l'uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto... E però dice Salomone... " Quelli muore che non ebbe disciplina... " [Prov. 5, 23]. Ciò è a dire: Colui è morto che non si fè discepolo... e questo vilissimo è quello. Potrebbe alcuno dicere: Come è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia (§§ 12-14). Una doppia contrapposizione in Cv I XI 8 (nel ‛ grido ' delle populari persone [§ 6]: Viva la loro morte, e Muoia la loro vita), per cui cfr. la nota di Busnelli-Vandelli. V. anche If XX 28.
Agli esempi, già visti, di linguaggio amoroso nelle Rime, riferentisi a D. stesso, si aggiungano questi altri, in cui il valore del verbo può, anche, considerarsi figurato: Rime dubbie XII 8 Che fai / dentro a questa persona che si more?; Fiore IV 12 molte volte ti parrà morire (per la pena d'amore); LVI 13 sie certan che le parrà morire / insin che no lli cade sotto inversa; CLXXXVIII 6 (ancora retto da ‛ parere '); LXV 7, già citato.
In altri casi soggetto del verbo è il ‛ cuore ' o lo ‛ spirito ' dell'amante: aggi pietà del cor che tu feristi, / che spera in te e disiando more, Rime LVIII 4; LXVII 26 (al participio); Rime dubbie X 14; Rime LXVI 2 Ne le man vostre... / raccomando lo spirito che more; Vn XIV 8 (al participio).
Analogamente in Cv II Voi che 'ntendendo 39 e 40, dove parla l'anima: " ... Io dicea: ‛ Ben ne li occhi di costei [la Donna gentile] / de' star colui che le mie pari ancide! ' / E non mi valse ch'io ne fossi accorta [" stessi in guardia "] / che non mirasser tal, ch'io ne son morta ". / " Tu non se' morta, ma se' ismarrita, / anima nostra... ". I versi sono ripresi in IX 8, X 1 e XV 8, e spiegati in X 3 (due volte).
Si notino poi i casi in cui è specificata la causa della ‛ morte ', introdotta da ‛ di ' o ‛ per ': Vn XXII 3 quale la mirasse doverebbe morire di pietade; XXXI 12 39 ven tristizia e voglia / di sospirare e di morir di pianto, e XXXII 5 4, già ricordato; Rime dubbie X 7 lo cor... conven che morto sia [" muoia "; v. anche XXVII 14 e Fiore XXXVII 12] / per un gentil disio ch'Amor vi tene; Fiore CIX 13 muor d'envia, e CL 9 convenia che di dolor morisse. Attraverso l'esempio del fantolino / che muor per fame e caccia via la balia (Pd XXX 141; v. anche IV 2) si arriva al senso proprio, a proposito di quel che morrà di colpo di cotenna (XIX 120: " E' predice qui la morte del bello re Filippo lo quale ad una caccia fu percosso da un cinghiale, onde elli morì ", Ottimo). V. anche Fiore CVI 8.
Ancora in senso traslato, con soggetti per lo più astratti, m., spesso al participio, acquista significati vari. In alcuni casi si mantiene vicino al valore proprio di " estinguersi ", con la conseguente inabilità del soggetto a produrre i suoi effetti: Rime CIV 90 s'io ebbi colpa, / più lune ha volto il sol poi che fu spenta, / se colpa muore perché l'uom si penta (si noti l'accostamento di m. a ‛ spegnere '); Pd X 18 se la strada lor [dei pianeti] non fosse torta, / molta virtù nel ciel sarebbe in vano, / e quasi ogne potenza qua giù morta; If X 106 tutta morta / fia nostra conoscenza da quel punto / che del futuro fia chiusa la porta, " però che nulla sarà più futuro... seguita dunque che non conosceranno più alcuna cosa: imperò che non sarà se non presente " (Buti); e ancora, If XX 28, Pd XXI 27.
Con metafore di altro tipo: i raggi del sole morti già ne' bassi lidi (Pg XVII 12) sono quelli " incominciati a venire meno ", come dice il Buti, e richiamano la nota immagine del giorno... che si more (VIII 6); il sonno fratto guizza pria che muoia tutto (XVII 42), " prima di svanire del tutto " (Chimenz): è un'immagine che nella sua incorporeità si collega a quella del color bruno che procede innanzi da l'ardore nella carta che brucia, colore che non è nero ancora e 'l bianco more (If XXV 66), " svanisce ", " desinit esse album " (Benvenuto). E ancora: Di questa... gioia / ... grande fama rimase; e pria che moia [" si estingua "; ma sono possibili anche altre interpretazioni, per cui v. INCINQUARSI], / questo centesimo anno ancor s'incinqua, Pd IX 39; Ciò che m'incontra, ne la mente more, ciò che mi avviene " mi passa di mente " (Barbi-Maggini, in Vn XV 4 1; la vista morta / de li occhi, c'hanno di lor morte voglia [§ 6 13] è spiegata dallo stesso D. come la pietosa vista che ne li occhi mi giugne [§ 8], " l'aspetto smorto dei miei occhi ", Barbi-Maggini). Si ha un soggetto concreto in Rime C 60 (l'acqua morta è l'acqua " ferma ", che si converte in vetro / per la freddura, cioè si ghiaccia), e in Pg VII 72 un sentiero... ne condusse in fianco de la lacca, / là dove più ch'a mezzo muore il lembo, in un passo non chiarissimo (v. LEMBO), dove tuttavia muore vale " incomincia a venire meno in verso l'altessa de la via " (Buti): cioè dove " il fianco della valletta... è ridotto a meno della metà dell'altezza che ha nel fondo " (Porena).
Ad alcuni oggetti che hanno attinenza con l'Inferno la qualifica di ‛ morto ' si addice non solo per loro caratteristiche intrinseche, ma anche per il fatto che riguardano, appunto, il mondo dei dannati, i veri morti (Pg XXIII 122): sicché la morta gora (If VIII 31) è certo la palude " immota " di cui parla Benvenuto, " quella palude Stige, che è acqua morta, e lotoso " (Buti; più sottile l'Andreoli: " la parte affatto stagnante dello Stige: per distinguerla da quella la cui superficie pullulava "); ma si potrà anche accogliere, con il Chimenz, l'ipotesi che " l'espressione significhi ‛ palude di morti materialmente e spiritualmente ' " (l'analogia con l'acqua morta di Rime C 60 [v. sopra] è dunque solo parziale). Del pari, la scritta morta (If VIII 127) allude ai " versi di colore morto " (Buti) di cui all'inizio del canto III, ma è tale anche " per ciò che ha a significare, a quegli che per essa [porta] entrano, eterna morte " (Boccaccio; analogamente altri).
Le stesse considerazioni si possono fare per l'aura morta dell'Inferno di cui è cenno in Pg I 17 e che qualche commentatore (Chimenz, Mattalia) mette in relazione con la morta poesì del v. 7, quella che " ha trattato della gente morta " (Lana; così Ottimo, Andreoli, e, tra i moderni, Scartazzini-Vandelli e altri). Ma Benvenuto respinge tale interpretazione: " Dicunt aliqui quod poeta hoc dicit, quia tractavit de mortuis; sed intellige sane, quia poesis non potest mori, sed mortua idest neglecta et calcata tempore suo; hodie vero potest dici mortua et sepulta "; analogamente il Buti (che prospetta anche la possibilità di " intendere che morta fusse la poesi, quando trattò de le cose infernali dove è morte perpetua "), Anonimo, Landino, Vellutello e, ancora in alternativa con la prima interpretazione, Venturi. Meno persuasivamente, il Castelvetro pensa alla " stanchezza presa in comporre XXXIV Canti dell'Inf., dove ha consumati gli spiriti spiratigli dalle Muse ".
2. Appartiene alla lingua antica l'uso transitivo di m. (e il valore, ovviamente, di " uccidere "), che anche in D. ricorre con una certa frequenza (più numerose, in proporzione, le occorrenze del Fiore), per lo più al passivo e quasi sempre in senso proprio: Noi fummo tutti già per forza morti (Pg V 52); Prima fue / morta la gente a cui il mar s'aperse, / che... (XVIII 134); Che ... io fossi preso / e poscia morto, dir non è mestieri (If XXXIII 18: ma qui - è il conte Ugolino che rievoca la sua lenta agonia per fame - il verbo vale " far morire ", non " uccidere "); Fiore CXIX s'i' dovess'esser... / morto a torto com furo i martiri; e cfr. ancora Rime LXVIII 23 (verrò morto), CXVI 40, Cv II V 2 (già ricordati), Pg XII 59; If III 15 ogne viltà convien che qui sia morta, " cioè cacciata da colui il quale vuole entrare qua dentro " (Boccaccio), " sradicata, distrutta nell'intimo " (Sapegno); Fiore XXXIII 14 (i' fu' quasi morto d'Amore), XCIII 11, CXXVIII 8, CLXXXVI 7, CCXII 11, CCXVI 5; XXXVII 12 Or ti parti da lui, o tu se' morto, dove tuttavia se' morto potrebb'essere anche forma attiva e indicare, con il tempo passato, l'immediatezza con cui l'azione del m. seguirebbe a quella del ‛ partirsi ': per un caso analogo, v. XCIX 6, già citato.
In forma attiva in Pd XVI 137 lo giusto disdegno che v'ha morti; Rime C 47 la stagion forte ed acerba, / c'ha morti li fioretti, già ricordato (la Oxfordiana legge qui ch'ammorta: v. AMMORTARE); figurato, in Pg VII 95, detto delle piaghe c'hanno Italia morta, " cioè disfatta " (Buti), e in Rime dubbie XVII 8; inoltre, Fiore CXXVII 14, CXXXV 9, CXXXIX 13.