MORFOLOGIA (dal gr. μορϕή "forma" e λόγος "ragionamento"
Questo termine che secondo l'etimologia significa "studio delle forme" è usato per lo più assolutamente, nel linguaggio tecnico delle varie discipline; con un aggettivo che lo caratterizza, nel parlare ordinario.
Biologia. - Fra i numerosi attributi della sostanza vivente, la forma è certamente uno dei più caratteristici, forse il più tipico ed essenziale, poiché è l'espressione più evidente della diversità e della specificità dei plasmi, e poiché ad esso è indissolubilmente legato il fenomeno della vita. La mirabile varietà delle forme degli organismi che popolano la terra è la manifestazione più immediata del fenomeno della vita, e non trova riscontro nel mondo inorganico, poiché le forme geometriche e costanti dei cristalli sono ben lungi dall'offrire tanti e sì complessi problemi quanto i varî aspetti degli esseri viventi, lo sviluppo, la successione, le modificazioni, la trasmissibilità attraverso un tenue substrato materiale, di questa proprietà fondamentale degli organismi. I numerosi problemi che le forme organiche ci pongono sono i problemi fondamentali della biologia: l'origine della forma, sia nell'individuo sia nella serie delle generazioni, è stato ed è pur sempre il problema centrale della scienza della vita; il fatto che le forme degli organismi e delle loro parti sono mirabilmente adatte alle funzioni che devono compiere, nei diversi ambienti, costituisce uno dei più ardui problemi che essa presenta. Anche i movimenti, le funzioni degli esseri viventi e dei loro organi, oggetto di studio della fisiologia, presuppongono la conoscenza della morfologia, poiché è caratteristica delle funzioni vitali l'esser legate necessariamente alla forma: non esiste una "sostanza vivente" di cui siano costituiti tutti gli organismi, ma esistono altrettante sostanze o plasmi quanti sono quelli, e i plasmi sono vivi in quanto rivestono una struttura determinata, cessata l'integrità della quale si spegne la vita e cessano le funzioni vitali. Anche le differenze chimiche che esistono fra i diversi plasmi trovano quindi la loro prima e necessaria estrinsecazione nella forma.
La morfologia è dunque il fondamento di ogni disciplina biologica. Essa può costituire fine a sé stessa, rivestire cioè il carattere di scienza puramente descrittiva, quando il ricercatore si limita a studiare e a classificare le forme, analiticamente o raggruppandone in una visione d'insieme la molteplice varietà. Così la sistematica botanica o zoologica, che prima si valeva soprattutto dei caratteri morfologici esterni, ora si vale di quelli desunti dallo studio dell'embriologia, e in particolar modo, per i vegetali, dello sviluppo del sacco embrionale e dell'embrione, nonché dei dati forniti dalla cariologia, e raggruppa o divide, a seconda della maggiore o minore somiglianza, le piante e gli animali in specie, generi, famiglie, ordini, ecc. (v. classificazione); la paleontologia studia le faune (paleozoologia) o le flore (paleofitologia) vissute in epoche geologiche passate; l'anatomia macroscopica od organologia descrive la struttura e le relazioni topografiche dei varî organi che costituiscono il corpo umano o degli animali o delle piante; l'anatomia microscopica e l'istologia studiano la minuta tessitura degli organismi e distinguono i varî tipi di tessuti che costituiscono gli organi; la citologia spinge l'indagine più oltre verso i limiti dell'invisibile e descrive l'intima struttura delle cellule; l'embriologia ricerca lo sviluppo delle forme e stabilisce il succedersi degli stadî che si susseguono nel ciclo vitale degli organismi; la genetica si pone invece il compito di studiare la costanza e le variazioni della forma attraverso le generazioni e la trasmissione dei caratteri nelle successive filiazioni.
È evidente che un modo puramente statico e descrittivo di considerare le strutture degli organismi non è che un arido elenco di forme, quando la ricerca non sia guidata da concetti informatori che la indirizzino verso determinati problemi. Così, ad esempio, la ricerca sistematica e l'anatomica possono essere volte a riconoscere le affinità dei diversi organismi, comparando i dati della morfologia analitica descrittiva; nascono così dall'anatomia descrittiva l'anatomia comparata, dall'embriologia l'embriologia comparata, ecc.
Le affinità fra i varî gruppi possono essere poi considerate staticamente come risultato dell'attuazione di un piano sistematico prestabilito, oppure dare luogo al problema della loro origine, e essere quindi considerate come indizî di legame genetico, di parentela, secondo il concetto dell'evoluzione. A questo punto di vista portano notevoli contributi non soltanto l'anatomia e l'embriologia comparate, ma anche le scienze paleontologiche.
Oltre che da questo punto di vista, che si può chiamare storico, la morfologia può essere intesa in senso dinamico. Così, non soltanto l'anatomia, l'istologia, la citologia possono costituire il fondamento della ricerca delle funzioni degli organi, dei tessuti, delle cellule, o delle loro alterazioni, e costituire quindi la base della fisiologia e della patologia, ma la morfologia stessa può costituirsi un proprio problema dinamico, fisiologico, e indagare la successione delle cause che, nel corso dello sviluppo, fanno insorgere e sviluppare la forma. Così l'embriologia e la genetica non si esauriscono nel loro compito descrittivo, ma trovano ampio sviluppo e nuova ragione di vita nell'indagine causale, e da scienze eminentemente descrittive e storiche divengono scienze sperimentali.
Questi sono i principali aspetti e gl'indirizzi più importanti delle scienze morfologiche. È evidente da quanto si è detto, che i grandi problemi della riproduzione, dello sviluppo, dell'evoluzione della specificità, dell'individualità, degli adattamenti e delle funzioni stesse degli organismi, ecc., cioè quasi tutti i massimi problemi biologici, hanno necessariamente la base nelle scienze morfologiche, e spesso dei soli metodi di queste possiamo valerci per tentare la via della loro soluzione. La morfologia perciò precede, storicamente e logicamente, ogni altro modo di considerare i fenomeni vitali e costituisce così il primo fondamento di ogni ramo delle scienze biologiche.
Storia. - Per quanto riguarda in particolare l'anatomia umana, l'embriologia, l'istologia, la citologia, la genetica, nonché i problemi speciali zoologici e botanici, e la classificazione, si rimanda alla parte storica delle voci relative. La presente trattazione si riferisce essenzialmente allo sviluppo dell'anatomia comparata, e dei problemi morfologici generali.
Le origini delle conoscenze della struttura degli organismi possono ricercarsi molto lontano, nelle civiltà più antiche, dove sono sorte soprattutto da necessità di ordine pratico, e, di conseguenza, sono rimaste limitate, per lo più, a quelle che potevano fornire i cacciatori o i pescatori, i macellai, i sacerdoti che offrivano vittime agli dei o gl'imbalsamatori di cadaveri, ove questa pratica era diffusa. Fra i sacerdoti nacquero probabilmente le prime scuole di medicina, e si svilupparono così le prime conoscenze biologiche: piante e animali erano oggetto di studio, le une perché fornivano farmachi e medicamenti, gli altri perché servivano di base allo studio dell'anatomia, che non sempre poteva essere fatto sui cadaveri umani. Il trasferire all'uomo i dati della zootomia, e l'ignoranza delle modificazioni prodotte dalla morte cruenta (svuotamento delle arterie, ad es.) furono fonte di non pochi né lievi errori anatomici e fisiologici, che si perpetuarono nelle varie scuole mediche antiche.
Le notizie relative alle conoscenze biologiche dei popoli preellenici sono in generale assai scarse e frammentarie, ciò che, almeno in alcuni casi, è indizio della povertà di quelle nozioni, in confronto con l'elevato grado di sviluppo raggiunto, negli stessi popoli, da altre scienze, come l'astronomia, le matematiche, ecc. Nella civiltà greca nacque e si affermò il problema biologico, trattato prima esclusivamente da un punto di vista teorico e speculativo, più tardi con metodo induttivo. Delle conoscenze anatomiche e zoologiche dei prearistotelici poco sappiamo e quel poco è per lo più derivato dalle citazioni che si trovano nelle opere di Aristotele. Fra i più antichi anatomici è ricordato Alcmeone di Crotone, di cui abbiamo pochi frammenti, relativi a questioni anatomiche e fisiologiche. Altri medici filosofi, come Parmenide di Elea, Empedocle d'Agrigento, Democrito di Abdera, hanno tramandato ai posteri almeno il ricordo di teorie relative ad alcuni fenomeni biologici. Empedocle, con la sua bizzarra idea che da un caos primitivo fossero nati, per incontri fortuiti, mostri d'ogni genere costituiti dalla riunione di parti diverse (gambe, braccia, occhi, ecc.) e che poi solo quelli adatti alla vita fossero sopravvissuti, fu il primo forse a esprimere il concetto di attitudine alla vita, e di sopravvivenza dei più adatti. Corre fama che Democrito abbia studiato e sezionato animali d'ogni sorta, ed è probabile ch'egli avesse un buon corredo di nozioni anatomiche e zootomiche, che però non ci sono giunte nella loro integrità. Lo stesso si dica del suo contemporaneo, Eraclito d'Efeso, che considerò la natura da un punto di vista dinamico ed espresse il concetto di lotta per la vita. A Diogene d'Apollonia si deve una famosa descrizione delle vene (vene e arterie). Molti filosofi poi s'interessarono del problema della generazione, esponendo varie teorie sulla provenienza del seme dall'uno o dall'altro genitore, sulla determinazione del sesso, ecc. Un notevole sviluppo della scienza anatomica si ebbe poi nelle famose scuole mediche di Cnido e di Coo, e ne fa fede il corpo di scritti giunti in parte fino a noi, sotto il nome di Ippocrate. Ne è fatto cenno ampiamente alla voce anatomia.
In tutte le opere dei prearistotelici, quindi, siano essi medici o filosofi, il problema morfologico è soltanto adombrato, o, quando anche sia considerato di proposito, è trattato su basi prevalentemente teoriche e speculative. I medici raccolgono notizie sull'anatomia umana, non preoccupandosi della posizione dell'uomo fra gli altri esseri viventi; i filosofi tentano soluzioni più o meno ardite e geniali del problema dell'origine delle forme, ma, per quanto a noi consta, senza una base sufficiente di conoscenze sulla struttura degli organismi.
Aristotele invece pone il problema morfologico a base di tutta la sua teoria biologica, e questa edifica su un solido e vastissimo fondamento di nozioni sull'anatomia degli animali. Egli si libera in gran parte dall'antropocentrismo, che è il carattere più spiccato delle dottrine dei suoi predecessori (le sue conoscenze di anatomia umana sono anzi scarse e indirette, sempre molto inferiori a quelle dell'anatomia degli animali) e concepisce il mondo dei viventi nella sua totalità, come un mondo governato da leggi sue proprie, diverse da quelle del mondo inorganico e che sono valevoli tanto per l'uomo, la creatura più perfetta, quanto per gl'infimi animali e le piante. Aristotele è perciò il primo morfologo, e quindi biologo, nel senso moderno della parola. Questa sua personalità così originale, questa sua attitudine che sboccia quasi senza precedenti, o, comunque, si distanzia lungamente dai precursori, non può non sorprendere. Chi bene approfondisca il pensiero di Aristotele, ed esamini tutti i dati di fatto sui quali egli fonda la sua teoria, non sa se più debba ammirare la genialità e lo spirito nuovo che ne anima il pensiero, o l'immensa mole di fatti quasi tutti esatti, minuti, precisi, ch'egli conosce e descrive. È assai probabile ch'egli abbia attinto a opere preesistenti; è verosimile pure che abbia raccolto molte delle nozioni sull'anatomia e sulla biologia degli animali, dalla viva voce dei pescatori, dei cacciatori, degli agricoltori, ma è certo ch'egli dovette studiare con dissezioni e osservazioni dirette l'anatomia e la vita degli animali, portando anche in questo campo quasi inesplorato la sua ansia di conoscere e di tutto spiegare.
Nelle opere biologiche di Aristotele la materia è disposta alquanto disordinatamente, in modo che tradisce una stesura affrettata e trascurata, la quale rende spesso oscuro o contraddittorio il pensiero, difficili i confronti e l'enucleazione di un sistema. Già nei fondamenti del sistema filosofico aristotelico si scorge chiaramente la sua tendenza a valorizzare la forma. Egli conduce l'idea platonica ad aderire intimamente alle cose, considerandola non come un ente esteriore e separato dalla cosa, ma identificandola con la forma. La forma è l'idea della cosa, la sua vera realtà: la materia dà alla forma la possibilità di estrinsecarsi, di esprimersi, di divenire quindi realtà attuale.
La teoria aristotelica della generazione, che si distanzia di gran lunga dalle precedenti teorie rozzamente materialiste ed è l'espressione più elevata e completa del suo pensiero biologico, è informata a questi concetti (v. meccanicismo; vitalismo).
Principio fondamentale della filosofia aristotelica - e non è forse errato supporre che l'autore l'abbia derivato proprio dalla considerazione dei fenomeni della vita - è il principio di finalità. La forma non è il semplice risultato casuale di una serie di processi precedenti, ma rappresenta il punto di arrivo di una serie di fenomeni concatenati e rivolti a quel fine o scopo ben preciso. Nello sviluppo embrionale la causa finale è la forma stessa, che deve essere raggiunta. Per ogni specie di animale o di pianta, la forma rappresenta il mezzo con cui quella può assolvere ì suoi compiti nella vita. Questa interpretazione teleologica dei fenomeni biologici, e in particolare della forma, è mantenuta a ogni costo, anche quando è necessario fare qualche concessione alle interpretazioni causali meccaniche.
Del gran numero di esatte descrizioni di particolari anatomici dei varî animali, che si trovano disseminate nelle opere biologiche di Aristotele, non è possibile dare un cenno neanche sommario. Conobbe profondamente l'anatomia dei Vertebrati, di cui descrisse accuratamente i varî organi, e le loro relazioni anatomiche; anche di alcuni Invertebrati ha lasciato descrizioni molto precise. Molti dei fatti ch'egli aveva messo in luce caddero nell'oblio, e rimasero poi sconosciuti per lungo tempo, finché, molti secoli più tardi, non vennero riscoperti.
La classificazione degli animali (v. classificazione) dimostra la sua profonda conoscenza dell'anatomia comparata. In varie occasioni egli si sforza anche di definire i principî della classificazione, e si mostra nettamente contrario al sistema dicotomico: l'obiezione principale che muove a tale sistema è la sterilità dei caratteri negativi come principî di divisione. Riconosce inoltre il diverso valore sistematico dei varî caratteri, alcuni dei quali sono contingenti, mentre altri costituiscono una profonda e fondamentale proprietà di certi gruppi. Insiste pure sulla necessità di tener conto di numerosi caratteri, ponendo in seconda linea quelli funzionali, che dipendono spesso dall'ambiente: in tal modo fa giustizia delle classificazioni che distinguono gli animali in terrestri, acquatici, volatori, ecc., e non tengono conto delle affinità strutturali degli organismi. Si può ben dire quindi che Aristotele è stato il fondatore della classificazione "naturale" ancorché il suo scopo principale non fosse la creazione di un sistema, ed egli non fosse guidato da alcun criterio genetico, evoluzionista.
Il sistema aristotelico degli animali rimase insuperato per secoli, e si riannoda direttamente ai sistemi creati alla rinascita dell'anatomia comparata, e particolarmente a quello del Cuvier. Rispecchia una profonda conoscenza dell'architettura degli organismi, e manifesta in chi lo elaborò, un'ampia e profonda cognizione del valore e del significato della classificazione.
Fra le altre conquiste di Aristotele nel campo della morfologia vogliamo ancora accennarne una, che è in pari tempo l'espressione di un principio fisiologico: è il principio della compensazione organica o del balancement des organes, rimesso in onore nel sec. XIX da E. Geoffroy Saint-Hilaire, che afferma che lo sviluppo esagerato di un organo può avvenire soltanto a detrimento di uno o di più altri, e inversamente la sua riduzione va a vantaggio del resto del corpo.
Anche la distinzione fra parti similari e parti dissimilari (rispettivamente: tessuti e organi, in termini moderni) componenti gli organismi e le numerose osservazioni comparate sull'analogia di varî organi in diversi gruppi animali (similitudine fra l'ala d'un uccello, l'arto anteriore di un quadrupede, fra la mano e la pinna toracica d'un pesce, ecc.) dimostrano che Aristotele ebbe una chiara visione dell'unità del piano di struttura di varî gruppi animali, e dell'unità morfologica e fisiologica dell'organismo.
In Aristotele quindi troviamo, più o meno sviluppati, molti dei problemi della morfologia moderna, e, soprattutto una precisa coscienza del problema morfologico generale, anche se le sue osservazioni, e più le sue deduzioni, siano talvolta errate. Questi indirizzi tuttavia non furono sviluppati in seguito: si può dire che questo ramo della scienza biologica dell'antichità si compendia e si riassume in Atistotele e nel suo discepolo Teofrasto d'Ereso, che si dedicò soprattutto alla botanica, campo che Aristotele aveva lasciato quasi inesplorato, e raccolse scrupolosamente molti fatti e osservazioni particolari, senza collegarli però in una visione teorica generale, così vasta come quella del maestro.
Alla scuola medica di Alessandria, fondata nel 323 a. C. da Tolomeo Sotere, fu coltivata l'anatomia, e varî ricercatori che colà operarono, tramandarono il proprio nome alla posterità per notevoli scoperte anatomiche (Prassagora, Erofilo, Erasistrato). Ma l'anatomia descrittiva era l'unica preoccupazione dei medici di quella scuola, e di nessuno d'essi ci sono rimaste idee originali e generali sull'architettura degli organismi.
Dopo il decadimento della civiltà greca, e il sorgere di quella latina, il centro della cultura venne spostandosi a Roma e qui dobbiamo cercare i medici e i naturalisti che raccolsero l'eredità ellenica. Ma né in Lucrezio, che non era anatomico, né in Plinio, compilatore e raccoglitore poco fornito di senso critico, troviamo, nonché un progresso, neppure un'esatta valutazione di quanto avevano fatto i Greci nel campo della biologia. Rufo d'Efeso e Marino, medici vissuti in Roma nel sec. II d. C., ci tramandarono qualche osservazione sull'anatomia animale, da cui cercavano di risalire a quella umana, ch'era vietato studiare sul cadavere, ma nessuna concezione originale. Galeno, invece, fu il grande anatomico e fisiologo della latinità, e certo supera, nella scienza anatomica, ogni altro studioso dell'epoca sua. Anche per lui, come medico, lo scopo principale della ricerca fu l'anatomia umana, che dovette però contentarsi di dedurre, spesso con geniali divinazioni, dallo studio degli animali (scimmie e altri mammiferi). Benché manchi quindi a lui quella vasta visione del mondo organico che caratterizza l'opera aristotelica, sono tuttavia degne d'essere ricordate alcune sue generalizzazioni e interpretazioni, che manifestano una conoscenza abbastanza profonda dell'anatomia dei Vertebrati.
Egli, ad esempio, compara e classifica gli organi della digestione in varî gruppi di Mammiferi, riconosce che il cuore dei Vertebrati a sangue caldo è doppio, quello dei Vertebrati a sangue freddo semplice; stabilisce varie analogie e armonie di struttura, come quella fra muscoli e ossa, fra la forma dei denti e l'organizzazione e il regime di vita degli animali, ecc. Nella ricerca dell'interpretazione delle strutture e delle funzioni, è guidato dallo stesso principio di finalità aristotelico, anche più spinto e sostenuto da motivi religiosi, che talvolta lo conduce fuori di strada, e a grossolani errori d'interpretazione.
Per tutto il periodo che intercede fra la decadenza e la caduta di Roma, e il Rinascimento, l'interesse per lo studio della natura è affievolito, e non troviamo alcuna opera biologica da mettere accanto all'attività filosofica del Medioevo. La medicina e l'anatomia degli Arabi non portarono alcun contributo originale degno di nota al problema che ci occupa. La zoologia e la botanica medievale rivelano una conoscenza del tutto rudimentale del mondo organico, frammista di ingenue leggende e di fiabe inverosimili. Quanto era rimasto e si era tramandato della zoologia e della botanica antiche, lo troviamo raccolto in varie compilazioni (Bestiarî, Physiologus, il Tesoro di Brunetto Latini, ecc.) ed espresso nelle figurazioni di animali chimerici, di cui è così ricca l'arte medievale.
Quel tanto di biologia ch'era necessario alle speculazioni dei filosofi è fornito dalla tradizione classica, tramandata attraverso le traduzioni e il commento degli Arabi, e l'autorità di Aristotele e di Galeno, adattata alle necessità del cristianesimo, s'impose, senza discussione, anche in questo campo. In S. Tommaso e in Dante troviamo mirabilmente riassunta la scienza biologica medievale, soprattutto per quel che concerne il sistema della generazione, ch'è quello di Aristotele.
Fra gli antesignani del Rinascimento scientifico, vanno ricordati, per quanto qui ci riguarda, Alberto Magno, che ebbe almeno l'intenzione di far rinascere l'interesse per l'osservazione diretta dei fatti, Ruggero Bacone, che presagì e tentò di codificare i nuovi canoni della ricerca scientifica, e altri filosofi che s'adoperarono ad abbattere il dogmatismo della scolastica.
Il Rinascimento scientifico, tuttavia, fu più lento di quello letterario e filosofico. Per l'argomento che ci occupa va ricordato innanzi tutto il rifiorire della scienza anatomica nei secoli XV e XVI, e la successione delle grandi scoperte, per opera soprattutto delle scuole anatomiche italiane, dopo la riforma del Vesalio, che sono partitamente ricordate alla voce anatomia (III, p. 116 segg.) e che, conducendo alla scoperta della circolazione del sangue (Cesalpino, 1593; W. Harvey, 1628) aprirono la via anche alla fisiologia moderna. Poche sono invece, nello stesso periodo, le ricerche di zoografia e di zootomia, e tutte improntate a indirizzi che preludono, ma sono tuttora, assai lontani da quelli moderni. Ricordiamo fra gli zoografi del '500: E. Wotton, C. Gesner, U. Aldrovandi, J. Johnston (v. classificazione, X, p. 537), giustamente chiamati enciclopedisti, perché ancora risentono del metodo pliniano, e sono piuttosto raccoglitori di notizie e di osservazioni, anziché studiosi e interpreti della natura. Tuttavia le loro opere si distinguono nettamente dalle compilazioni medievali, perché rivelano molto più acuto spirito di osservazione e maggiore senso critico, nonostante facciano ancora larga parte alle descrizioni di animali chimerici e favolosi (figg. 1 e 7). Le classificazioni adottate dagli zoografi di questo periodo sono, o quella aristotelica, che il Wotton rimise in onore, o rimaneggiamenti non molto felici di quello o di altri antichi sistemi. Anche gli zootomi, alcuni dei quali ci lasciarono opere pregevolissime per la finezza delle osservazioni e delle illustrazioni, hanno vedute piuttosto anguste e limitate. Citiamo fra gli altri, Carlo Ruini (1456-1557) che compose un'ottima Anatomia del cavallo (1598), adorna di belle figure (fig. 2), G. Rondelet (1507-1556), autore di una buona descrizione anatomica dei Pesci (De piscibus marinis, 1554; fig. 3), P. Belon (v.) che studiò anch'egli i Pesci e gli Uccelli, Gyllius (Pierre Gilles, 1490-1555) che lasciò un trattato di storia naturale, sotto forma di commentario a Eliano e un trattato sugli elefanti, Ippolito Salviani (1514-1572) autore di un trattato sui Pesci (Aquatilium animalium historiae, Roma 1554-58) che gareggia e forse supera quelli di Rondelet e Belon.
In quest'epoca (1583) Andrea Cesalpino elaborò una classificazione dei vegetali molto importante, perché rappresenta il primo tentativo di classificazione basata su criterî naturali, servendosi in modo particolare dei caratteri dei frutti e dei semi che fino a ora erano stati completamente trascurati da quanti avevano escogitato un ordinamento dei vegetali.
Fra gli anatomici, tuttavia, che spesso dovevano ancora ricorrere alla dissezione degli animali, per la scarsità dei cadaveri umani messi a loro disposizione, cominciò a sentirsi la necessità d'istituire la comparazione fra la struttura degli animali e quella dell'uomo, sì che a questo periodo debbono ricondursi le prime origini dell'anatomia comparata. Il Vesalio stesso, restauratore dell'anatomia, J. Berengario da Carpi, il Falloppia e molti altri si riferiscono spesso alle differenze osservate fra gli animali e l'uomo. G. Fabrizi d'Acquapendente (1537-1619), nelle sue ricerche embriologiche e anatomiche, mise in atto un vero metodo comparativo e si può, in un certo senso, considerare un primo restauratore dell'anatomia e dell'embriologia comparata (fig. 4). A. Paré paragonò uno scheletro d'uccello a quello umano, e il Belon (1517-1564) osservò la somiglianza delle varie parti nei due (fig. 5), chiamando con lo stesso nome le ossa analoghe (omologhe, secondo la terminologia moderna). Più d'ogni altro si avvicinò alla moderna anatomia comparata, M. A. Severino (1580-1656) che nella sua Zootomia democritea (1645) diede un saggio della comparazione fra l'anatomia di varî animali (Mammiferi diversi, Uccelli, e anche Insetti e altri invertebrati) ed espresse l'opinione che tutto il regno animale sia costituito su un unico piano di organizzazione. Anche più importante dal punto di vista della morfologia comparata, è l'opera di Th. Willis (1621-1675), che studiò l'encefalo dell'uomo, paragonandolo con quello di diversi altri Mammiferi, e ne riconobbe l'unità strutturale.
Di proposito abbiamo tralasciato di parlare di Leonardo. L'opera sua morfologica e zoologica, in generale, ha una posizione tutta speciale, e, grande e divinatrice com'è, ha tuttavia un'importanza relativamente scarsa da un punto di vista strettamente storico, perché non venne a far parte del patrimonio culturale del tempo. Di ciò sono causa il non essere stata divulgata per le stampe, e forse anche la singolarità e la grandezza sua, che la rendevano difficilmente comprensibile ai contemporanei, nonché quel carattere frammentario e sconnesso che le è proprio. Per l'opera leonardiana rimandiamo alla voce leonardo, limitandoci qui a ritenere il significato dello spirito realistico e naturalistico che la pervade, e che a poco a poco si diffuse ed ebbe ragione del dogmatismo tradizionale.
Nel sec. XVII troviamo, per quanto riguarda la morfologia, non soltanto la continuazione dell'indagine anatomica per opera di molti epigoni dei grandi anatomici del cinquecento (ricordiamo: G. Aselli, Th. Bartholin, O. Rudbek, F. Glisson, Th. Willis, R. Vieussens, R. de Graaf, ecc.), ma anche nuove grandi scoperte rese possibili dal microscopio il cui uso si andò diffondendo in quell'epoca. Nel Seicento si gettano le basi dell'anatomia microscopica, per opera di M. Malpighi, N. Grew, R. Hooke, A. van Leeuwenhoeck, J. Swammerdam, F. Ruysch, ecc. È un nuovo campo che si apre alla ricerca morfologica, e che darà i suoi frutti migliori soltanto due secoli più tardi. Accanto all'anatomia microscopica si sviluppa anche la conoscenza degli organismi che, per la loro esiguità, sfuggivano prima alla vista umana. Malpighi scopre e descrive la minuta struttura di molti organi dei Vertebrati, e indaga magistralmente l'anatomia del Bombice (v. entomologia) e descrive lo sviluppo del pulcino (fig. 6). Il Leeuwenhoeck scopre i corpuscoli del sangue, gli spermatozoi, (fig. 8), gl'infusorî, e descrive una quantità di minute particolarità strutturali degli animali e delle piante. Lo Swammerdam, con una tecnica pazientissima e con mirabile acume, studia l'anatomia di molti insetti e di altri invertebrati (fig. 9). Il Ruysch, col metodo delle iniezioni, ottiene risultati eccellenti nell'anatomia microscopica umana. È una messe di osservazioni disparate, spesso isolate e sconnesse, che formerà la base per le costruzioni teoriche del futuro.
Intanto, pur tra il fiorire delle speculazioni mistico-naturalistiche che caratterizzano questo periodo, il metodo galileiano si fa strada anche nella biologia e comincia a dare i suoi frutti. Sono di questo tempo i primi tentativi d'interpretazione meccanica dei fenomeni vitali (A. Borelli, C. Perrault, N. Stenone) e i primi esperimenti, come quelli del Redi sulla generazione spontanea, istituiti sotto gli auspici dell'Accademia del Cimento.
S'iniziano intanto i primi tentativi di sistemazione delle nozioni descrittive degli animali e delle piante, che si vanno sempre accrescendo, con l'acuirsi dell'interesse per le cose naturali, e le esplorazioni delle terre antiche e nuove (v. botanica; classificazione; zoologia). La sistemazione culmina, nel secolo XVIII, con l'opera di Linneo. Questa è, sotto certi aspetti, inferiore a quella di Aristotele, perché manca la visione generale dei grandi tipi di struttura del regno animale, rimessa in onore poi dal Cuvier, ma, per quanto si riferisce alla delimitazione delle specie, e al loro aggruppamento in famiglie e in ordini, è certamente fondamentale e segna un enorme progresso nella conoscenza della morfologia esterna degli animali e delle piante. L'opera di Linneo nella morfologia vegetale è molto importante, perché a lui dobbiamo - con grande chiarezza - le definizioni delle membra e degli organi vegetali (radice, fusto, foglia, brattea, costituenti del fiore, frutto); egli ne fissò la costituzione e la forma con terminologia impeccabile e se ne servì, con precisi criterî, nella sistematica. E il suo sistema sessuale, per quanto artificioso, per taluni gruppi vegetali contiene innegabili criterî di affinità naturali.
Nel sec. XVIII, accanto al fiorire della sistematica linneana, che esprime una concezione statica, immobile, del mondo organico, s'incontrano varî altri indirizzi di ricerca e correnti di pensiero, preparatori della biologia moderna. Ricordiamo innanzi tutto lo studio dell'anatomia degl'invertebrati, oltre che della loro morfologia esterna, in cui eccellono i nomi di R. A. de Réaumur, K. de Geer, A. Trembley, A. Vallisnieri, J. B. Bohadsch (fig. 10), A. Roesel von Rosenhof, G. Bianchi (J. Plancus, fig. 11), P. Lyonnet, G. Olivi (fig. 12), ecc., e le ricerche sull'anatomia macroscopica e microscopica dei Vertebrati, per opera di B. G. Albinus, N. Lieberkühn, P. Camper, J. Hunter, P. S. Pallas, L. Daubenton, F. Vicq d'Azyr, F. Blumenbach, Th. Sömmering, ecc. Tutti costoro, e molti altri, portarono contributi varî, più o meno accurati e precisi, alla conoscenza dell'intima struttura degli organismi di varî tipi, preparando i materiali per la sintesi che sarà compiuta più tardi dal Cuvier. In questo secolo non bisogna poi dimenticare, per quanto concerne la morfologia vegetale, l'opera di C. F. Gärtner (173a-1792) che nel suo trattato De fructibus et seminibus plantarum sviluppò, con nuovi e razionali criterî, la morfologia del frutto e del seme e aprì la strada alle indagini moderne.
D'altra parte si fece strada un nuovo indinzzo nell'interpretazione dinamica dei fenomeni biologici, che tosto pervase anche la morfologia. Questa tendenza si manifestò dapprima come un vento di reazione alla mentalità dogmatica di Linneo, e, ad opera soprattutto del Buffon, introdusse una concezione più agile della sistematica, a cui veniva dato un valore piuttosto contingente, soggettivo.
Il Buffon, insieme con il suo collaboratore L. Daubenton, fu uno dei primi a comprendere l'importanza della morfologia comparata, e sentì la necessità di una sintesi, di un pensiero che valesse a collegare i dati dell'anatomia e della sistematica, rimasti disgiunti dalla minuta analisi linneana, e anticipò così, sebbene oscuramente, due concezioni che andarono rapidamente conquistando terreno: l'unità del piano di organizzazione degli organismi e la mutabilità della specie.
Un'altra mente che pure, con poca simpatia per i rigidi schemi linneani, tentò la sintesi e presentì l'importanza di alcuni concetti nuovi e fecondi, fu quella del Goethe, che fino da giovane, e per tutta la vita, s'interessò di studî morfologici sugli animali e sulle piante: a lui anzi si deve l'introduzione del termine "morfologia". Con il suo Primo saggio di una introduzione generale all'anatomia comparata (1795), il Goethe dichiara che il più importante mezzo di ricerca del morfologo è il metodo comparativo, e lo scopo ch'egli si deve prefiggere è la creazione di un "tipo ideale" a cui si possano ricondurre le varie forme animali, privandole di quelle che sono le particolarità anatomiche meno importanti. Questo concetto del tipo ideale, o fondamentale del fenomeno, provenne forse al Goethe dalla dimestichezza con J. G. Herder discepolo di Kant che già l'aveva formulata. Che la natura possa creare numerose variazioni intorno al tipo ideale, è il concetto svolto dal Goethe in vari lavori (Saggio sulla metamorfosi delle piante, Teoria vertebrale del cranio, ecc.) che gli valsero, forse a torto, un posto fra i precursori dell'evoluzionismo.
Il concetto del tipo ideale, e del fenomeno primitivo (Urphenomenon) ebbero la massima importanza nelle speculazioni della cosiddetta filosofia della natura, indirizzo mistico-filosofico, a base quasi esclusivamente speculativa, che ebbe particolare sviluppo soprattutto in Germania (L. Oken, C. G. Nees von Esenbeck, C. G. Carus, ecc.).
Le nebulose astrazioni dei filosofi della natura, smarrite in una metafisica a cui mancano anche le basi di una solida filosofia, non meriterebbero di essere ricordate, se fra esse non si fossero conservati e perpetuati alcuni concetti fondamentali della morfologia moderna, come quello di un tipo di struttura (sia pure meramente ideale, in contrapposto a quello ricavato dalla comparazione di dati anatomici) e quello dell'evoluzione.
La grande riforma della morfologia fu compiuta, agli albori del secolo XIX, da Giorgio Cuvier. Numerosi precursori a lui vicini, avevano più o meno oscuramente adombrato i problemi ch'egli risolse.
Oltre a tutti coloro che con ricerche anatomiche su varî animali o gruppi di vertebrati o d'invertebrati (ricerche in cui si sente l'assenza di un'idea direttiva atta a collegare i dati dell'analisi), avevano contribuito, nel sec. XVIII, a preparare parte dei materiali su cui il Cuvier poté edificare le proprie teorie, oltre al Bonnet, al Buffon, al Goethe e ai filosofi della natura, che avevano espresso, in forma più o meno confusa, il concetto di piano di struttura degli organismi, vanno ricordati in modo speciale A. Monro (1697-1767) autore di un manuale di anatomia comparata (1744) e J. Hunter (1728-1793) e F. Vicq d'Azyr (1748-1794) che intesero entrambi la necessità di un criterio che servisse di guida nella morfologia comparata, e scelsero, il primo l'importanza delle funzioni dei varî organi, il secondo un concetto anatomico e fisiologico a un tempo. Quasi contemporanei del Cuvier furono poi H. Kielmeyer (1765-1844) che il grande anatomico considerò suo maestro, e che primo si adoperò per fondare lo studio della zoologia su basi anatomocomparate, e E. Geoffroy Saint-Hilaire, anatomico insigne, precursore dell'evoluzionismo ed erede spirituale dei filosofi della natura, che, lasciandosi troppo trascinare dal desiderio di generalizzazione, non seppe cavare dai principî che aveva stabiliti come guida delle ricerche quei brillanti risultati ch'essi diedero in altre mani. I suoi principî sono: la teoria delle analogie, secondo cui le stesse parti, gli stessi materiali organici, devono trovarsi in tutti gli animali; la teoria delle connessioni, per cui le stesse parti si trovano sempre nelle medesime relazioni e posizioni rispettive, qualunque sia la loro funzione nei singoli casi; e il principio d'equilibrio degli organi (cfr. più sopra, quanto è detto a proposito di Aristotele); principî sani, fecondi, dunque, sui quali poteva essere edificata un'anatomia comparata, solo che la critica assistesse nella generalizzazione. Il Geoffroy Saint-Hilaire ebbe chiara l'idea dell'unità del piano di organizzazione dei vertebrati, ma ebbe il torto di volerla estendere anche a tutti gli altri animali, provocando la giusta disapprovazione del Cuvier.
L'opera del Cuvier si distingue da tutte quelle dei predecessori e dei contemporanei, non soltanto per la mole dei fatti osservati (molti dei quali già conosciuti, moltissimi da lui scoperti nelle sue diligenti dissezioni di animali d'ogni gruppo e nella ricerca dei fossili; fig. 13), ma soprattutto per il metodo rigorosamente induttivo, che la rende affine in certo modo all'opera aristotelica, e per lo spirito vasto e organico che la anima. Il Cuvier si mette al lavoro senza preconcetti teorici, e, ponendo al paragone dei fatti osservati le varie teorie, le scarta o ne accetta quanto ai fatti non contraddice. Pone il problema morfologico nei suoi veri termini, distinguendolo nettamente, senza tuttavia separarlo, dal problema fisiologico: gli organi dei varî animali devono essere studiati dal morfologo per quelle relazioni anatomiche che presentano, non già dal punto di vista fisiologico, ché la funzione di organi morfologicamente simili può essere assai diversa. Le modificazioni che un organo o un sistema presenta in una serie di organismi, non sono isolate, ma sempre più o meno strettamente associate a modificazioni di altri organi o sistemi (principio della correlazione delle parti). L'organismo è quindi concepito come un'unità indissolubile, di cui una parte non può essere modificata senza che tutte le altre lo siano di conseguenza. Un altro importante principio a cui giunse il Cuvier è quello, già enunciato per i vegetali da A. L. de Jussieu, della "subordinazione dei caratteri": alcuni organi o sistemi - che sono i più importanti dal punto di vista fisiologico - sono meno soggetti a variazioni, e sono quindi quelli che forniscono i caratteri diagnostici più costanti e perciò di maggior valore per caratterizzare i gruppi.
Scartata l'idea di un'unità del tipo di struttura di tutti gli organismi, il Cuvier trovò invece che il regno animale si lascia ripartire in un certo numero di embranchements (tipi animali, come li chiamò poi il De Blainville), ciascuno dei qualì comprende gli organismi costituiti secondo un medesimo piano strutturale. La simmetria, la struttura e le posizioni relative di alcuni sistemi organici (fra cui il sistema nervoso e il circolatorio sono i più importanti) servono di base nella distinzione dei tipi. Quattro furono quelli originariamente istituiti dal Cuvier (1812), ulteriormente suddivisi poi dagli zoologi successivi (R. Leuckart, Th. Von Siebold, ecc.; v. classificazione).
La riforma dell'anatomia comparata condusse quindi, all'inizio del sec. XIX, alla creazione della teoria dei tipi e perciò a una nuova riforma della sistematica, che modificò soprattutto le grandi linee della classificazione degli animali. D'allora in poi lo sviluppo della morfologia, fondata su queste basi, procedette con un ritmo così celere, che diviene quasi impossibile seguirlo nei particolari. Tosto ai numerosi lavori di anatomia comparata, fatti secondo la direzione segnata dal Cuvier (citiamo fra i molti continuatori della sua opera, C. F. Burdach, L. Bojanus, C. G. Carus, G. F. Meckel, C. A. Rudolph, E. H. Weber, M. H. Ducrotay de Blainville, H. Rathke, J. Müller, L. R. Owen, H. Milne Edwards, L. Agassiz, ecc., e, fra gl'Italiani, B. Panizza, S. delle Chiaje ecc.), vennero ad aggiungersi quelli di embriologia, che portarono nuovi contributi alla teoria dei tipi, ed estesero e completarono le ricerche anatomiche. Tra i fondatori dell'embriologia comparata ricordiamo, fra i predecessori del Cuvier, C. F. Wolff, che instaurò su basi epigenetiche la nuova embriologia, Lazzaro Spallanzani, le cui ricerche di morfologia sperimentale trovarono sviluppo soltanto in epoca molto più recente, e, fra i contemporanei e i successori, G. F. Meckel, C. H. Pander, e soprattutto C. E. von Baer, scopritore dell'uovo dei Mammiferi, H. Rathke e J. Müller, e, fra gl'Italiani, Mauro Rusconi, a cui si devono ottime ricerche anatomiche sul Proteo, ed embriologiche sugli Anfibî (fig. 14).
Stabilite così su solide basi l'anatomia e l'embriologia comparate, e instaurata su fondamenti anatomici la teoria dei tipi animali, la morfologia, liberata dalle incertezze della metafisica, entra in una nuova, rigogliosa fase di sviluppo. Due sono le teorie che tosto s'innestarono su questo già vasto e solido corpo di dottrina, e gli diedero nuova vita: la teoria cellulare e la teoria dell'evoluzione.
I grandi microscopisti secentisti avevano trovato soltanto pochi degni continuatori della loro opera nel sec. XVIII, e fra questi vogliamo ricordare soprattutto F. Fontana, che studiò la striatura delle fibre muscolari (fig. 15) e scoprì, prima di R. Brown, il nucleo delle cellule, e L. Spallanzani, che lasciò una quantità di osservazioni e di esperimenti sugli animali microscopici.
Nel sec. XIX si ha la continuazione e il completamento dell'opera del Malpighi e dei suoi contemporanei. Gli organismi delle infusioni sono studiati e classificati a opera di O. F. Müller (1730-1774) prima, e di C. G. Ehrenberg (1795-1876), di F. Dujardin (1801-1862), di Th. v. Siebold, poi, e la minuta struttura degli animali e delle piante viene esaminata con l'aiuto di sempre più potenti microscopî. Si deve poi ricordare, per quanto riguarda la botanica, l'opera di Hugo von Mohl (1805-1872) che è stato il fondatore della moderna istologia vegetale e che ha molto contribuito ai progressi della morfologia delle piante.
F. X. Bichat, alla fine del '700, istituisce la teoria dei tessuti, dichiarando che tutti gli organismi sono composti da un insieme di parti elementari, di cui si possono distinguere 21 qualità; F. Dujardin poi, introduce la nozione di protoplasma (sarcode) e M. J. Schleiden (1838) e Th. Schwann (1839) fondano la teoria cellulare. Ogni organismo è costituito di una o più "cellule", che sono gli elementi morfologici ultimi che costituiscono gli esseri vivi. La cellula cessa quindi di essere una celletta vuota, qual'era stata descritta nel Seicento, e assume l'importanza di elemento costitutivo di ogni organismo, sia vegetale, che animale. Ecco trovata così la connessione fra i due grandi regni organici. I progressi dell'istologia e della citologia, a partire da quest'epoca, sono immensi: verso la fine del secolo questi rami delle scienze biologiche si distaccano dal tronco principale, assumendo l'importanza di discipline a sé, con metodi e scopi loro proprî. Lo sviluppo di queste scienze è delineato alle voci relative (v. citologia; istologia), qui basterà accennare alle molteplici relazioni che esse contrassero con altri rami delle scienze biologiche (protistologia, anatomia, embriologia, fisiologia, patologia), portando dappertutto uno spirito novatore.
Un altro movimento che ebbe la più ampia e profonda ripercussione nel campo della morfologia fu originato dalla teoria dell'evoluzione (v.). Non è qui il luogo di tracciarne la storia: basterà ricordare come, dopo le speculazioni dei naturalisti e dei filosofi della natura del Settecento, essa abbia trovato, in J.-B. de Lamarck il primo teorico e in Darwin il più completo, organico espositore. Il Cuvier, che aveva assunto una posizione rigidamente ortodossa e dogmatica, la ostacolò al suo sorgere, ma tuttavia essa si fece strada, e, trovando argomenti favorevoli nei dati dell'anatomia, dell'embriologia e della paleontologia, riformò tutta la concezione della morfologia.
La prima metà del sec. XIX può dirsi l'epoca della morfologia statica, intesa come la ricerca del piano architettonico del mondo organico, piano che era considerato come una realtà stabile e fissa secondo la tradizione tramandata, attraverso i secoli, da Aristotele, a Linneo, a Cuvier. La morfologia post-datwiniana, invece, considera l'attuale aspetto del mondo dei viventi come il risultato di un lungo processo evolutivo e considera quindi le affinità strutturali come indizî di parentela più o meno stretta. La sistematica subisce così un'ulteriore revisione critica, e il concetto di specie, nettamente definito da Linneo, si dilegua nell'impreciso. Si fa strada sempre più l'idea che le nostre classificazioni rappresentino uno smembramento artificiale (cioè soggettivo) di un tutto unico e continuo. La teoria dell'evoluzione fa appello a tutte le scienze morfologiche per scoprire i legami di parentela che intercedono fra i varî gruppi zoologici e botanici: anatomia comparata, embriologia comparata, paleontologia, sono i piedistalli su cui l'edificio teorico cerca appoggio. E, reciprocamente, l'evoluzionismo informa di sé tutte queste discipline, le quali imprendono con spirito rinnovato nuove vie di ricerca, collegando e coordinando i loro dati. È tutto un grandioso fervore di opere suscitato dall'idea trasformista, che, dopo il periodo aureo del Cuvier, segna una nuova grande epoca nello sviluppo storico della morfologia.
Il darwinismo trovò, fino dal suo sorgere, varî critici e oppositori, alcuni dei quali rappresentavano indirizzi sorpassati, come R. Owen, attaccato ancora al concetto romantico del tipo ideale; altri invece ne vedevano fin d'allora i punti deboli, come A. Kölliker e il Wigand. Ma il consenso e l'entusiasmo dei più soffocò le voci contrarie e il trasformismo trionfò nelle scuole, permeando ben presto ogni campo della cultura. Tra i morfologi che si schierarono per il Darwin e iniziarono la nuova riforma dell'anatomia, vanno ricordati Th. Huxley, che portò anche notevoli contributi teorici e critici alla teoria darwiniana, e soprattutto C. Gegenbaur e la sua scuola (M. Fürbringer, A. W. Hubrecht, J. E. Boas, ecc.). L'opera del Gegenbaur ha un'impronta tutta personale, e una tendenza nettamente trasformista. Egli dà la massima importanza all'anatomia comparata e pone in secondo luogo l'embriologia. Precisa i concetti di omologia e analogia degli organi, dandone definizioni esatte, a complemento di quanto già aveva stabilito R. Owen. Scopo ultimo delle scienze morfologiche è, per lui, la filogenesi, cioè la costruzione degli alberi genealogici dei varî gruppi animali. L'insieme dei fatti, relativi soprattutto ai Vertebrati, raccolti e ordinati da tale filo conduttore è veramente imponente.
Un altro morfologo che s'indirizzò subito verso il trasformismo, fu Fritz Müller, il cui libro Für Darwin (1864) fece conoscere in Germania la nuova dottrina. Egli studiò specialmente gl'invertebrati, e richiamò in onore quel principio già espresso da M. Serres, che fu poi battezzato da E. Haeckel col nome di "legge biogenetica fondamentale" secondo il quale la ontogenesi sarebbe una ricapitolazione della filogenesi.
In E. Haeckel il trasformismo trovò il massimo fautore e apostolo e in gran parte per merito suo divenne presto popolare. Dando il massimo valore ai principî enunciati dal Darwin e dai suoi seguaci, e accettando come prove certe, indizî spesso fallaci, il Haeckel mise insieme una vasta e completa teoria della discendenza, in cui ogni ramo della morfologia era messo a contributo. La teoria dello sviluppo del Haeckel, dominata dalla "legge biogenetica fondamentale" tenne il campo per molti anni nella biologia.
Le tendenze dogmatiche e assolutiste del Haeckel furono contrastate da un altro trasformista convinto, K. Vogt, che seppe intendere il valore d'ipotesi che avevano le teorie in voga, da molti accettate come verità di fatto.
Degl'Italiani che recarono contributi alla morfologia ispirata all'evoluzionismo, ricordiamo, fra gli altri, G. B. Grassi, C. Emery, C. Cattaneo, L. Camerano.
L'embriologia comparata fu forse la branca della morfologia che più intensamente si sviluppò sotto l'influenza del trasformismo. In questo senso lavorò A. Kowalewsky e iniziarono le ricerche i fratelli Hertwig, fondatori della "teoria del celoma". E. Korschelt, K. Heider, E. Ray Lankester, F. M. Balfour, W. His, A. Goette, N. Kleinenberg, A. Dohrn, F. Raffaele, sono altrettanti insigni cultori di quella disciplina, che si ispirarono, almeno inizialmente, all'evoluzionismo.
Alcuni dei massimi problemi agitati dalla morfologia del periodo del trasformismo, furono l'origine della metameria (v.) in generale e lo studio della metameria del capo dei vertebrati, in cui eccellono, dopo il Goethe, i nomi di R. Owen, Th. Huxley, Froriep, Van Wijhe, A. Dohrn, ecc.; quello delle modificazioni degli arti nella serie dei vertebrati (M. Fürbringer, L. Vialleton), quello dell'origine del celoma e la teoria del mesoderma (v.) a cui portarono notevoli contributi i fratelli Hertwig, il Ràbl e altri; l'embriologia del sistema circolatorio (His, Rückert, Brachet, Kuppfer, Raffaele) e del sistema nervoso dei Vertebrati, nonché le relazioni filogenetiche dei varî tipi animali, e specialmente l'origine dei Vertebrati, a cui dedicò tutta una serie di lavori A. Dohrn, che, principalmente per questo studio, fondò l'Acquario di Napoli.
Anche la paleontologia già messa in onore dal Cuvier, ebbe il massimo incremento, per opera degli evoluzionisti, che in essa trovarono l'aiuto più prezioso.
La teoria dell'evoluzione indirizzò anche l'interesse dei biologi sul problema dell'eredità, fondamento di ogni processo evolutivo. Furono dapprima vedute teoriche, come quelle del Darwin, del Naegeli, e la vasta e lungimirante teoria del Weissmann, e, indipendentemente da queste, ricerche sperimentali, a opera del Mendel, che ebbe varî precursori (v. genetica) e poi dei riscopritori del mendelismo e delle loro scuole, che contribuirono a creare un nuovo e ora fiorente ramo delle scienze morfologiche, la genetica o scienza dell'eredità. I dati della citologia, che, indipendentemente, erano stati elaborati nella seconda metà del secolo, vennero poi chiamati a sussidio nell'interpretazione dei fenomeni ereditarî, e venne creata, per opera soprattutto di Th. H. Morgan e della sua scuola, la teoria cromosomica dell'eredità.
Come spesso accade, i fatti e le teorie che sono filiazione diretta di un'idea, forniscono i dati per la critica dell'idea stessa. Così fece la genetica, che fornì molti argomenti, se non contrarî all'evoluzionismo, certo limitatori di quelle possibilità evolutive pressoché illimitate che erano state ammesse. Sorgeva intanto, per questa e molte altre ragioni, tutto un lavoro di critica dell'evoluzionismo e soprattutto delle sue conclusioni troppo azzardate e precise e dei pretesi meccanismi d'evoluzione, che screditò alquanto la concezione trasformista dell'anatomia e dell'embriologia.
Queste andavano, peraltro, orientandosi, insieme con la genetica, verso un nuovo indirizzo: l'indirizzo sperimentale. Fino dal '700 il Trembley, lo Spallanzani e altri avevano istituito alcuni esperimenti che possiamo dire di morfologia causale, ma soltanto verso la fine del secolo XIX questo indirizzo andò acquistando favore, e si propose fini e metodi proprî. La morfologia sperimentale pone come problema fondamentale l'indagine causale di quei processi che, nel corso della vita individuale, determinano l'insorgenza e il differenziamento delle forme sia nello sviluppo dell'individuo dalla massa apparentemente quasi amorfa dell'uovo, sia nei processi di rigenerazione, nelle metamorfosi, ecc. La morfologia sperimentale ebbe come antesignani W. His e A. Rauber, ma W. Roux (1888) ne è generalmente considerato il fondatore (la chiamò meccanica dello sviluppo, Entwicklungsmechanik), con i suoi classici esperimenti sulla determinazione e la potenza dei primi blastomeri dell'uovo di rana, che lo condussero a una nuova teoria preformistica dello sviluppo (uova a mosaico). H. Driesch (1890) invece fu condotto, dagli esperimenti sulle uova di riccio di mare, a una concezione epigenetica e vitalista (uova regolative).
D'allora in poi gli esperimenti si sono moltiplicati e la fecondazione, lo sviluppo, la rigenerazione, i fenomeni riproduttivi in genere, sono stati cimentati dall'esperimento, e ridotti, da problemi puramente morfologici, a problemi fisiologici. C. Herbst, O. Hertwig, J. Loeb, Y. Delage, E. Bataillon, A. Brachet, E. B. Wilson, Th. Morgan, R. G. Harrison, F. R. Lillie, H. Spemann, sono alcuni fra i più eminenti cultori di morfologia e d'embriologia sperimentale. Fra gli Italiani che seguirono tale indirizzo ricordiamo A. Zoja, P. Della Valle, A. Ruffini, F. Raffaele, G. Chiarugi, A. Giardina, T. Terni, G. Cotronei, P. Pasquini. (v. embriologia: Embriologia sperimentale). La morfologia vegetale ha assunto un indirizzo analogo: sono da ricordarsi in questo campo i nomi di J. Sachs, W. Pfeffer, K. E. Goebel, J. Wiesner.
Anche l'istologia e la citologia si sono orientate chiaramente verso l'indirizzo sperimentale, con le colture in vitro dei tessuti o di frammenti di organi (R. G. Harrison, A. Carrel, W. A. Lewis, A. Fischer, G. Levi, ecc.).
Nel campo della morfologia interna dei vegetali si deve ricordare l'opera di E. Strasburger, di Ph. van Thieghem e delle loro scuole e quanto ha fatto H. Solereder nel campo dell'anatomia sistematica comparata delle Dicotiledoni e delle Monocotiledoni.
Né si devono dimenticare lo sviluppo e i servigi resi dall'embriologia vegetale di cui G. B. Amici gettò nei primi decennî del sec. XIX le basi scientifiche, che vennero ampliate e perfezionate da J. Hanstein e dal Hofmeister per raggiungere i grandi progressi moderni dovuti agli studî di E. Strasburger, di S. Irase e I. Ikeno (scoperta degli spermî nel tubo pollinico delle Gimnosperme inferiori), di J. M. Coulter, C. J. Chamberlain, A. Lawson, L. Guignard, I. B. Overton, O. Rosemberg. A tali studî hanno contribuito largamente gl'italiani P. R. Pirotta, B. Longo, E. Carano, A. Chiarugi, e altri.
Per quanto riguarda la morfologia e la teratologia vegetale sperimentale bisogna ricordare G. Bonnier, L. Blaringhem e altri studiosi che hanno sviluppato tali ricerche, e nel campo di queste rientrano anche gli studî di elettrogenetica (che in fondo sono studî veri e proprî di morfologia sperimentale) che si vanno compiendo soprattutto in Italia in un istituto specializzato appositamente attrezzato.
L'introduzione del metodo sperimentale nello studio della forma si può dire la più notevole conquista di questi ultimi tempi nel campo della morfologia. E le tendmze più recenti di questa scienza, rappresentate dalla genetica e dall'embriologia e istologia sperimentali, sono appunto orientate verso la conoscenza causale immediata dei processi che determinano la forma. È d'uopo osservare però, che vi sono certi limiti logicamente imposti al metodo sperimentale, il quale non può risolvere tutti i quesiti che il problema morfologico pone, e occorre perciò ricordare che i metodi puramente descrittivi e comparativi sono tuttora i soli applicabili per alcune indagini.
Bibl.: Oltre le voci richiamate, v. G. Cuvier, Histoire des sciences naturelles, Parigi 1841-45; V. Carus, Geschichte der Zoologie, trad. franc., Parigi 1880; E. Perrier, La philosophie zoologique avant Darwin, Parigi 1896; J. Chaine, Histoire de l'anatomie comparative, Bordeaux 1925; E. Nordenskjöld, Geschichte der Biologie, Jena 1926.
Linguistica. - 1. La morfologia, una delle quattro partizioni fondamentali della linguistica, con la fonetica, la sintassi, la semantica, studia la costituzione funzionale della parola e le variazioni che avvengono nel suo valore per mezzo di elementi privi di vitalità autonoma. La costituzione funzionale della parola risulta dalla contrapposizione di elementi radicali o semantemi e di morfemi; per es., nella forma ridente, rid- contiene la nozione del "ridere", -ente dà il valore specifico rispetto alle altre forme ridere, ridevo, ridicolo, ridenti. Le variazioni del valore della parola avvengono per mezzo di morfemi reali o virtuali. I morfemi reali compaiono sotto la forma di prefissi (porre, de-porre; facio, con-ficio; poscit, po-poscit), infissi (presente relinquit, perfetto reliquit), suffissi (lod-erei, lod-are, lod-evole). Nell'ambito dei suffissi si chiamano desinenze quelli che rappresentano il massimo della specializzazione: per es. -e, -i di singolare e plurale che si distinguono nella forma ridente, tanto dal semantema rid-, quando dal suffisso -ent-. I morfemi virtuali consistono in alterazioni che avvengono all'interno del semantema: ò, à (da habeo, habet) indicano il valore di prima e terza persona con la stessa vocale che costituisce il semantema; oppure nell'assenza di un morfema: gl'imperativi latini, fac, duc si riconoscono come tali, pur essendo costituiti dal puro semantema, cioè avendo il morfema zero.
Nella grammatica tradizionale la morfologia fa capo alle due grandi divisioni di forme nominali (v. nome) e verbali (v. verbo), che, secondo le lingue, possono apparire più o meno accentuate. Intermedie sono, per es., le forme nominali italiane azione, attore di fronte ad agire, agente, che sono sostanzialmente verbali.
Esse pongono il problema dei rapporti della morfologia con la semantica attraverso i processi di "formazione delle parole". Numerosi problemi involgono pure, naturalmente, le relazioni che passano tra morfologia e fonetica da una parte, tra morfologia e sintassi dall'altra. Lo studio comparativo di varî gruppi linguistici illumina poi vantaggiosamente il meccanismo dei processi morfologici.
2. Semantema e radice. - S'intende per semantema la parte della parola che racchiude il significato generico. Non tutte le parole possiedono però un semantema, perché esistono nelle nostre lingue parole accessorie che adempiono a un compito esclusivamente formale, come le preposizioni. Viceversa "radice" può essere applicato a tutte le parole, perché, qualunque sia il valore della parola, esiste sempre un elemento variamente determinato da morfemi reali o virtuali. Radice è dunque il semantema incarnato in una forma definitiva. La storia delle radici appartiene alla morfologia, la storia dei semantemi alla semantica.
La definizione e l'isolamento del semantema nell'interno di una parola sono relativi. Nell'insieme delle parole facile, facilmente, facilità si può isolare un semantema facil- di fronte ai morfemi -e, -mente, -ità. Fatto, fattibile, fattivo mostrano un semantema fatt, come fattore: e se, dal punto di vista del significato, le due famiglie sono strettamente collegate, è difficile trovare dal punto di vista descrittivo un comune multiplo fac, fait, fa che leghi tutte queste parole insieme.
Dal punto di vista storico, è possibile, invece, definire e isolare la radice relativamente, beninteso, a un'età determinata. La famiglia delle parole citate deriva tutta da una radice latina fac. Se vogliamo invece prendere come termine di riferimento una fase più arcaica, quella indoeuropea comune, la forma del semantema è soltanto fa (indoeuropeo dhə), che solo in latino è stata ampliata da un elemento -k-, antico morfema venuto ormai a far parte del semantema. È chiaro però che in questi casi si tratta di pura paleontologia linguistica, senza alcuna conseguenza utile per l'analisi morfologica delle parole italiane.
Nella grammatica comparativa delle lingue indoeuropee vi sono radici di due sillabe (per es., bhewē "essere", pelē "riempire i) e radici di una sillaba (per es., es "essere", wel "volere"). La forma tipica risulta dalla serie consonante + sonante + vocale + sonante + consonante (v. fonetica; indoeuropei), eventualmente ampliata da un s che la precede: tweis "agitare" è un esempio di questa forma tipica che sarebbe altrettanto regolare con un s iniziale, stweis.
Questi elementi possono mancare tutti, salvo vocale + sonante, vocale + consonante o vocale di quantità lunga: ei "andare" es "essere"; anche ē, se esistesse, sarebbe formalmente regolare, come regolare è dhē "porre"; non esistono, o per lo meno non funzionano da semantemi, radici del tipo e, o, se, so. Le consonanti sono a loro volta vincolate, nella loro disposizione, da regole generali, come quella che esclude radici con consonanti sonore semplici all'inizio e alla fine, tipo gad, o quella che vuole all'inizio e alla fine della radice o consonanti sorde o consonanti sonore aspirate: bheudh "apprendere", pet "volare" sono radici regolari, bheuth, pedh, non esistono.
La vocale normale di quantità breve è e che alterna con o e con una forma senza vocale. La radice pet si presenta dunque sotto le tre forme pet, pot, pt. Quando la vocale normale è lunga, allora il grado ridotto non è caratterizzato dall'assenza della vocale, ma da una vocale indistinta, dhē, dhü, dhə.
Elementi radicali costituiscono la parte essenziale anche dei morfemi, e delle parole accessorie che rivestono funzioni di morfemi: in questo caso non si pongono però regole assolutamente rigide per la loro costituzione fonetica e abbiamo forme del tipo di s (o)- t (o) come elemento radicale del pronome dimostrativo, o di e-o nucleo radicale identico a quel morfema che viene chiamato "vocale tematica" (v. § 5). Le stesse desinenze hanno forma e alternanze analoghe a quelle degli elementi radicali: tai alterna con ti, to con t (v. § 10).
3. Morfemi virtuali. - La possibilità che ha la radice indoeuropea di presentarsi sotto diverse forme alternanti, fa sì che un semantema possa determinarsi senza morfemi reali, ma solo attraverso il gioco delle sue varie forme. Come in italiano si trova un imperativo va con morfema zero, o un presente che contrappone non solo desinenze, ma anche alterazioni fonetiche del semantema (suono, suoni, suona di fronte a soniamo, sonate) compaiono in greco forme di ottativo come λείποι, λίποι in cui la differenza di tempo è data soltanto da quel morfema virtuale che è l'alternanza leip-lip. Così nel caso di οἶδε, ἴδε differenza di perfetto e aoristo. Così in italiano sali e salì sono forme identiche, differenziate esclusivamente dalla sede dell'accento.
Nelle lingue moderne vi sono molti esempî di differenze morfologiche indicate da monemi virtuali nei numerosi casi di metafonesi. In tedesco il morfema virtuale si associa a morfemi reali nel plurale dei sostantivi, come Haus-Häuser. In napoletano il plurale uomənə si distingue dal singolare omənon solo per il morfema reale. In genovese il plurale ken si distingue dal singolare kan solo per un morfema virtuale.
4. Morfemi reali. - Anche la definizione dei morfemi reali è diversa dal punto di vista descrittivo e da quello storico, fermo restando il fatto che i morfemi sono per sé stessi privi di vita autonoma. Da un punto di vista descrittivo ha diritto di essere chiamato morfema tutto quello che è vitale come tale, cioè può essere tolto o aggiunto a piacimento. Le desinenze -o, -i, -a del verbo italiano della prima coniugazione, le opposizioni -o -i, -a -e, -e -i di singolare e plurale, i suffissi verbali -av- dell'imperfetto indicativo, -ass- dell'imperfetto congiuntivo, i suffissi di derivazione -ità degli astratti, -izzare dei verbi denominativi, -evole degli aggettivi verbali, -accio dei peggiorativi, sono esempi di morfemi reali anche dal punto di vista della grammatica descrittiva.
Da un punto di vista storico, specialmente quanto più si sale lontano nel tempo, compaiono masse di morfemi suffissi che si sono a poco a poco fusi con semantemi, perdendo ogni valore derivativo, ma che impongono ciò nonostante un lungo lavorio di classificazione.
Quando si tratta di morfemi caratteristici di un caso della declinazione o di una singola "persona del verbo" si usa il termine di desinenze; quando si tratta di morfemi che non definiscono senza altro il semantema nella sua forma più generale, si usa il termine di morfemi secondarî; quando essi determinano il semantema in modo diretto si tratta di morfemi primarî; quando infine il morfema unito al semantema permette di costituire una radice che non contravvenga al tipo ideale di radice, si parla di determinativo della radice (Wurzeldeterminativ). Nella parola italiana terminato abbiamo a questa stregua il semantema puro ter e un gruppo di morfemi -minato nel quale sono da distinguere: 1. una desinenza di maschile singolare -o; 2. un suffisso secondario -t- proprio del participio passato e un suffisso secondario -a proprio dei verbi denominativi; 3. un suffisso primario in che si aggiunge direttamente al semantema, e costruisce il semantema italiano termin-; 4. un determinativo della radice m che ha ampliato il semantema generale ter fin dai tempi preistorici.
In rapporto con queste diverse funzioni, l'operazione di ampliamento viene chiamata in modo diverso: si dice ampliare per mezzo di un determinativo, derivare per mezzo di un morfema in senso stretto, flettere per mezzo di una desinenza. All'interno della flessione vengono usati ancora i due concetti inferiori del declinare e del coniugare rispettivamente di nomi e verbi, essendo però ben chiaro fin d'ora che i confini fra derivazione e coniugazione per il verbo sono meno netti e il concetto di coniugazione tende a estendersi (§ 10).
Più semplici sono le condizioni dei morfemi infissi e prefissi nelle nostre lingue. Gl'infissi non hanno più nessuna personalità nelle lingue indoeuropee, al di fuori del gruppo indoiranico in cui si osserva ancora un'alternanza na-n all'interno della radice ri(na)kti "egli lascia", ri(n)canti "essi lasciano". Fra i prefissi le associazioni più complicate hanno valore semantico: accontentare, rispetto a una radice ten e a un semantema italiano content-.
Alcuni prefissi più noti sono l'aumento, che in greco, in armeno, in indo-iranico determina il valore di "passato" nel verbo; il raddoppiamento, riproduzione più o meno completa della radice che contribuisce, da una parte, sotto forme attenuate a caratterizzare il perfetto, dall'altra in forma più fedele a formare i cosiddetti verbi intensivi; i preverbi che servono a modificare l'aspetto del verbo, per es., facio, conficio; vedo, rivedo, ecc.
Se da una parte vi sono morfemi virtuali, cioè specificazioni morfologiche sufficientemente chiare anche senza morfemi, non è escluso dall'altra che ci siano specificazioni morfologiche accompagnate, non da uno, ma da parecchi morfemi; come infine vi può essere un unico morfema che definisce contemporaneamente due diverse specificazioni morfologiche. La differenza di "modo" che passa fra l'indicativo e il condizionale è rappresentata in italiano non solamente dal morfema tipico del condizionale - (e)r-, ma anche da desinenze diverse come abbiamo in amerei, ameresti, amerebbe, ecc., non amero, ameri, amera. Così il perfetto greco può essere caratterizzato da raddoppiamento, da vocale o della radice, da desinenze diverse come mostra λέλοιπα (1ª pers. del perfetto) di fronte a λείπω (1ª persona del pres. ind.). Viceversa l'italiano amò con la sola desinenza ò mostra insieme il valore di terza persona singolare e di passato remoto.
5. Semimorfemi. - I morfemi non si definiscono successivamente, in forma sempre più specializzata quanto più sono lontani dal semantema. Semantemi e morfemi, morfemi e morfemi non si saldano mai con lo stesso grado d'intimità, anche lasciando da parte le esigenze fonetiche (§ 8) che intervengono ad accentuare o ad oscurare queste zone di confine. Specialmente là dove vengono a saldarsi morfemi ancora produttivi come tali, può accadere che s'incontrino elementi fonetici neutri, che funzionano come legamento, morfemi di qualità inferiore o semimorfemi.
Quando si confrontano le due parole italiane bontà e verità si capisce subito che si tratta di formazioni analoghe, che bon e ver sono i semantemi, che tà è lo stesso morfema: soltanto, nel primo caso, esso è immediatamente connesso con la radice, nel secondo, invece, esiste un elemento neutrale i. La presenza di questo elemento è utile per conservare elasticità alla formazione. Bontà non è un derivato di "buono", ma verità, nonostante la sua origine dotta, appare a noi come un derivato di "vero". Quando formiamo nuove parole, usiamo in italiano sempre la forma più ampia -ità, per esempio logicità, perché si sottolinea la comunità del sistema di logico, logicamente, logicizzare. Tutte le nuove formazioni hanno questa elasticità che si conserva fino a tanto che il sentimento della famiglia morfologica sussiste e resiste a tendenze contrarie, fino a tanto che questi morfemi appaiono fra di loro scambiabili.
La forma tipica di semimorfemi è nelle lingue indoeuropee la vocale e, la quale regolarmente alterna con la sua forma corrispondente o: λείπ-ο-μεν, λείπ-ε-τε, in latino sostituita da i/u: leg-u-mus, leg-i-tis, in italiano di nuovo legg-e, legg-o-no. Il semimorfema e/o viene chiamato vocale tematica, almeno nella sua applicazione alla morfologia del verbo. Si parla così di derivazione tematica e di derivazione atematica, di flessione tematica e di flessione atematica: anche se, in pratica, quest'espressione rimane limitata soltanto alla flessione del verbo, essa merita un'applicazione molto più generale. In latino fer-t rappresenta un presente atematico, leg-i-t un presente tematico, es-se un infinito atematico, em-e-re un infinito tematico.
Tema si chiama però non solo l'unione della radice e della vocale tematica, ma anche la combinazione più specializzata della radice più il morfema di una determinata forma temporale, alla quale si aggiungono direttamente le desinenze: così legēbā- è tema di imperfetto indicativo, legerē- tema di imperfetto congiuntivo.
Naturalmente elementi originariamente diversi possono venire a far parte della categoria dei semimorfemi, come un semimorfema tipico (quale la vocale tematica) può venire ad avere la funzione di morfema vero e proprio. Nella grammatica indiana si distinguono verbi set e anit, cioè verbi con i e senza i quale vocale-legamento, o semimorfema. Questo semimorfema che appare chiaramente come tale dall'opposizione di due temi di futuro (come çro-ṣya- "udirò", in cui si ha semantema e morfema, e bhav-i-ṣya- "sarò", in cui si ha semantema, semimorfema, monema), non è sempre stato tale: ma rappresenta semplicemente la seconda vocale di una radice di due sillabe. L'origine delle due classi di radici set e anit sta dunque nell'opposizione di radici bisillabiche e monosillabiche.
D'altra parte il semimorfema ha valore di morfema quando l'opposizione di forme atematiche e tematiche s'identifica nell'opposizione d'indicativo e congiuntivo. Fra il latino es-t e il latino er-i-t c'è soltanto la differenza rappresentata dalla vocale tematica. Ma questa indicava il vecchio congiuntivo che in latino è andato perduto e sopravvive solamente in alcune forme con valore di futuro.
In italiano il morfema dell'infinito -re non si trova più a contatto diretto del semantema, se non nel caso di alcuni verbi come da-re, sta-re, fa-re, be-re, di-re, por-re, ecc. che solo in pochi casi rispecchiano antiche forme atematiche. Le forme tematiche hanno trionfato in linea generale, ma non con la semplice vocale tematica che sopravvive in legg-e-re, corr-e-re e così via, bensì con tre tipi di vocali, ā, ē, ī, che sono come il simbolo delle grandi classi verbali in cui già il verbo latino aveva cominciato a organizzarsi.
Queste classi verbali, caratterizzate da vocali lunghe, rappresentano un ulteriore progresso rispetto ai semplici temi con e/o nella flessione e nella derivazione. Sicché il verbo latino contiene verbi atematici come volo, fero, verbi tematici semplici come lego, verbi tematici con ā, ē, ī come laudo, moneo, audio. Allo stesso modo nel sistema del nome non si ha soltanto la contrapposizione di una flessione atematica di temi radicali e una flessione tematica caratterizzata da e/o, ma una gamma più o meno ampia di altri temi in vocali, in a, in i, ecc., che, se non completamente, vanno acquistando in gran parte l'elasticità e la produttività delle formazioni provviste di semimorfema.
6. Definizione morfologica della parola. - La parola è il complesso formato dal semantema accompagnato da tutti i morfemi che lo determinano, dentro o fuori della parola fonetica od ortografica. Avuto è una parola fonetica, ortografica, morfologica; in ho avuto vi sono due parole ortografiche, ma solo una parola fonetica e morfologica; in avessi avuto vi sono due parole ortografiche e fonetiche, ma una sola morfologica.
All'interno di ogni parola sono i rapporti classici di equilibrio, di adattamento, di differenziazione fra semantemi e morfemi, fra morfemi e morfemi. La memoria che conserva in equilibrio questi elementi diversi è un fattore passivo. Ma la parola morfologica nel minor numero di casi è isolata: essa s'inquadra in un sistema più o meno ampio nel quale buono si definisce da una parte in contrasto con buoni, buona, buone, dall'altra d'accordo con tutti gli altri aggettivi singolari maschili in -o. La bontà di un sistema morfologico si misura dalla regolarità con cui queste categorie sono costituite e permettono alle forme di scambiarsi reciprocamente, e dall'energia con cui l'analogia ha appianato le irregolarità accumulate da millennî di svolgimento fonetico. L'analogia agisce rigorosamente nei gruppi più stretti come la flessione del nome, o di un determinato "tempo" del verbo. Meno energicamente fra "tempi" diversi del verbo dove ancora sussistono forme non morfologiche come do-diedi; ancora meno energicamente nel nome, dove il morfema -tore corrisponde come suffisso di agente all'infinito -re, ma non in forma regolare: attore non agitore rispetto ad agire, fattore non fatore rispetto a fare e così via.
Il sistema morfologico perciò non ha confini rigidamente definiti, ma le maglie che lo legano insieme diventano sempre più tenui fino a che gli elementi costitutivi vengano attratti in sistemi di tipi non morfologici, semantici o sintattici. All'interno di un sistema morfologico si alternano così fasi di equilibrio, fasi di espansione morfologica, fasi di stanchezza morfologica. Sono queste che caratterizzano appunto i rapporti della morfologia con le altre parti della linguistica.
7. Morfologia e semantica. - Lo spezzarsi di un sistema morfologico dà origine a sistemi minori che possono essere separati da un confine semantico. In sanscrito esistono, per esempio, il verbo che indica "pensare" e il causativo "far pensare", distinti semplicemente da un criterio morfologico. Il sistema morfologico dei due verbi s'inquadra in un sistema superiore, ancora di natura morfologica:
man-
manyate mānayati
fut. maṇsyate fut. māniṣyati
In latino i due perfetti memini o monui corrispondono ai due temi sanscriti, ma non sono più riuniti in un sistema superiore morfologico: sono ormai parole distinte, costituiscono con i loro derivati gruppi semantici autonomi. In sanscrito svap e svāpaya sono uniti; in italiano dormire e addormentare sono due parole diverse.
Lo stesso fatto è avvenuto con tutti quei verbi che indicano sfumature speciali dell'azione, desiderativi, intensivi, causativi e così via.
In un tempo antico esistevano verbi che potevano indicare soltanto l'azione nel suo svolgersi, e verbi che potevano indicare l'azione o compiuta o momentanea: differenza semantica che contrapponeva bher, la radice durativa del "portare", e telā la radice momentanea del "portare a destinazione". Con l'andar del tempo, si è venuta costituendo una coppia fero-tuli che ci permette di dire che tuli è il perfetto di fero, ma non già che questo rapporto sia un rapporto veramente morfologico. Il giorno che i Latini hanno creato tollo essi hanno voluto dare all'isolato tuli un presente morfologico, morfologizzare (sebbene senza successo) un rapporto non puramente morfologico.
Le parole italiane rivedere e risolvere appartengono storicamente alla famiglia morfologica dei derivati della radice latina ved, solv. Ma gli astratti revisione, soluzione non appartengono più, dal punto di vista descrittivo, alla famiglia morfologica dei rispettivi verbi. E poiché in questo momento si ha una tendenza a ravvivare la categoria dei verbi denominativi, a stringere i rapporti fra sostantivi astratti e verbi dell'azione corrispondente, così si osserva il nascere di verbi come revisionare o soluzionare che sono per il nostro gusto orribili, ma rispondono a un'esigenza più profonda, rispecchiano un processo di espansione morfologica.
8. Morfologia e fonetica. - Con la fonetica, le relazioni sono ancora più strette e involgono talvolta problemi morfologici vitali. La parola fonetica ideale, dal punto di vista della morfologia, 1. è sufficientemente ampia, in modo da permettere la contrapposizione di semantemi e morfemi, questi ultimi essendo graduati opportunamente; 2. è governata da un centro (o accento) abbastanza chiaro da mantenere unito il complesso fonetico, ma non troppo forte perché le parti deboli (finali e interne) non vengano oppresse, ridotte o eliminate.
Ora, non solo questo stato di perfezione non esiste, ma raramente un'esigenza morfologica reagisce foneticamente a un fatto fonetico, per esempio salvando un suffisso caratteristico dalla normale disarticolazione (aimé in francese da amatu-). La situazione fonetica suggerisce piuttosto o impone nuovi procedimenti morfologici, per es., quando l'aumento si manifesta nei verbi di minor mole fonetica (in Omero ἔβη, ἔϕη di fronte a βῆ, ϕῆ sono molto più numerosi che εἶδε, ἔϕερε di fronte a ἴδε, ϕέρε), quando l'uso delle preposizioni viene favorito dalla debole pronuncia delle consonanti finali e quindi dall'insufficiente chiarezza dei singoli casi; quando l'eliminazione di vocali atone interne ha spezzato i legami fra parole semplici e composte, fra pono (da posino) e sino, fra nido (da ni-zdo) e sedere, fra colgo (da colligo) e leggo. Soprattutto importanti sono i casi in cui lo svolgimento fonetico sopprime la possibilità di derivare forme legate nello stesso sistema morfologico, come nel caso di do/diedi, sto/stetti rispetto a do/dedi, sto/steti. L'omonimia uccide una categoria morfologica e determina un ripiego sintattico nel caso di habebam habebo, dei quali solo l'imperfetto è sopravvissuto, mentre il futuro è stato costruito perifrasticamente. L'incapacità morfologica a sopportare dei composti o l'ansia di morfologizzare una costruzione perifrastica, hanno affrettato il processo di fusione della parola fonetica nel latino preistorico hosti-potis diventato hospes, o nell'italiano avrò (habere habeo).
9. Morfologia e sintassi. - Particolarmente delicati sono i rapporti con la sintassi, perché sulla base del principio dell'inseparabilità tra forma e funzione si è fatta strada una tendenza a identificare le due grandi branche. In contrasto con questa tendenza, la morfologia, come dottrina della parola determinata per mezzo di elementi privi di vitalità autonoma, si contrappone alla sintassi, dottrina dell'associazione di parole autonome. Ciò nonostante gli scambî sono continui sia dal punto di vista descrittivo sia da quello storico.
La zona di confine è costituita da due fatti opposti e diversi anche come ampiezza: da una parte rapporti sintattici rappresentati con elementi morfologici soltanto, dall'altra rapporti morfologici rappresentati con mezzi, almeno in apparenza, sintattici. Alla prima categoria appartengono i composti nominali, associazione di due semantemi, che urta quasi contro la definizione morfologica della parola: la "donna cannone" conserva nell'aspetto un elemento sintattico abbastanza appariscente, ferrovia non è più sentito come un composto e quindi è completamente morfologizzato. Fra i due estremi c'è una lunga serie di casi intermedî. La condizione perché la composizione sia morfologica è che il rapporto sintattico adombrato sia unico (per es., sostituisca soltanto un rapporto di specificazione: di apposizione o di coordinazione o idroterapia "cura d'acqua", oppure "acqua da cura", oppure "acqua come cura", oppure "acqua e cura" costantemente) e che le due parole si saldino insieme con alterazioni fonetiche tali da farle parere, isolate, come non vitali. Tale il caso del greco ϑεό(δωρος) in cui ϑεο- non compare mai, del latino patricida in cui patrinon esiste, tale il caso dei composti verbali italiani "perditempo", "rompiscatole", "spazzaneve", "saliscendì", in cui il primo elemento non si presenta alla nostra mente come forma dell'imperativo, ma come una forma teorica del verbo indifferenziato.
Di fronte a questi tentativi di espansione morfologica, stanno gli esempî di esaurimento morfologico in tutti quei casi in cui una flessione si spegne. Quando viene meno la declinazione, le preposizioni adempiono all'ufficio morfologico, pur costituendo per un certo periodo di tempo un procedimento sintattico: domus patris, domus de patre si sono contrapposte per lungo tempo come formazioni rispettivamente morfologica e sintattica. Con l'andar del tempo la funzione delle preposizioni si morfologizza sempre di più, e le lingue moderne occidentali possono dire d'avere ormai una flessione per prefissi, anziché una flessione per desinenze. Le preposizioni rappresentano nelle nostre lingue le cosiddette "parole vuote" della grammatica cinese, parole che hanno il valore formale di specificare morfologicamente le parole "piene", i semantemi, che non sanno nel loro interno produrre nessuna alterazione. L'impossibilità di dare un significato a una preposizione è illustrata efficacemente da questi esempî, tratti indirettamente da J. Vendryes: a piedi (ted. zu Fuss), a Berlino (nach Berlin), alla riva (am Ufer), allo stretto (in der Enge), a malincuore (mit Bedauern), a mie spese (auf meine Kosten), a parte (bei Seite), alle sei (um sechs).
Caso particolare delle preposizioni è l'articolo, prefisso per distinguere singolare e plurale nelle lingue ove questa distinzione è minacciata: in francese lamär (madre, mare), lemär (madri, mari). Paralleli del verbo sono i pronomi personali, che in francese sono essenziali in forme come žârâ, tërâ, irâ (io rendo, tu rendi, egli rende). E poiché i pronomi personali, a differenza degli articoli e delle preposizioni, sono anche semantemi, così mentre in italiano io è semantema e ancora pleonastico come morfema, in francese dove il valore del morfema je è pieno, il semantema si è rifugiato in un'altra forma, moi.
Il ciclo completo: stanchezza morfologica, sussidio sintattico, morfologizzazione del sussidio sintattico, appare in certe formazioni perifrastiche del verbo. Alcune si sono conservate tali fino a oggi: p. es., ho avuto in cui ho ha valore di morfema, ma è pur sempre il semantema proprio di "avere": siamo solo alla seconda fase. Viceversa nel futuro e nel condizionale italiani appare il ciclo completo così riassumibile: stanchezza morfologica di habebo, ripiego sintattico di habere habeo, morfologizzazione della perifrasi in avrò.
Naturalmente tutte queste partite non si chiudono mai in pareggio. Certe distinzioni morfologiche perdute non sono più sostituite con criterî morfologici. Un fatto sintattico irrevocabile è, per esempio, l'ordine delle parole che, solo, permette di distinguere a noi il nominativo dall'accusativo: Il padre ama il figlio, il figlio ama il padre.
10. Tipi morfologici. Morfologia delle lingue indoeuropee. - La organizzazione d'una lingua è da lungo tempo classificata secondo il triplice criterio di lingue isolanti, agglutinanti, flessive. Questa divisione non ha valore genealogico. Con l'andar del tempo una lingua si trasforma e, attraverso tipi intermedî, passa a una categoria nuova.
Le lingue isolanti vanno piuttosto definite, come ha mostrato P. Meriggi, lingue aggruppanti. Non è vero che qualunque parola possa esser nome, verbo o altra entità grammaticale, ma per mezzo di "gruppi" di parole si ottengono determinazioni morfologiche. In altre parole i morfemi hanno nelle lingue aggruppanti un massimo di vitalità autonoma.
Nelle lingue agglutinanti i morfemi esistono come tali: ma la loro individualità è netta, e mancano processi di adattamento che impongano una vera unità superiore della parola. Nelle lingue flessive i morfemi, affatto privi di vita autonoma, sono riconoscibili piuttosto negativamente, come alterazioni della parola, che positivamente come elementi definiti. Connessa con questo fatto è la semplificazione delle categorie morfologiche, ma anche la crescita delle determinazioni formali delle singole categorie; in latino ci sono genitivi in -i e -s, ablativi in -d e in -e, e così via.
Le lingue flessive s'imperniano sulla differenza del nome (oggetto) e del verbo (azione), essendo sottinteso che dal nome di un oggetto si trae il verbo che indica l'azione compiuta con quell'oggetto, da un verbo si trae un astratto che indica l'azione per sé stessa. Nella categoria del verbo noi possiamo rappresentare oggi morfologicamente differenze 1. di aspetto lodai (una volta): lodavo (continuatamente); 2. di modo lodo: loderei; 3. di tempo lodo: lodai; 4. di numero lodo: lodiamo; 5. di persona lodo: loda. Non distinguiamo più con morfemi veri e proprî i rapporti di diatesi lodo, sono lodato, doppî come nel latino laudo: laudor, tripli come nel sanscrito, bharami, bhare, bharye, "porto", "porto per me", "sono portato".
Il grado di necessità che lega queste determinazioni morfologiche è molto vario. È massimo e antico fra "persone" di una stessa formazione temporale, massimo tra formazioni temporali affini come il presente e l'imperfetto. Acquisto recente è il rapporto di necessità fra il presente e il perfetto in tutti i verbi deboli ereditati o di nuova formazione. Non esiste nessun rapporto di necessità fra il tema di presente e quello del perfetto nei verbi forti di tutte le lingue moderne. Esiste evidente la tendenza ad alleggerire il sistema verbale delle formazioni troppo complesse, ma anche a collegare le superstiti in un rapporto di necessità, cioè in un sistema di coniugazione.
Lo sviluppo della morfologia del verbo nelle lingue indoeuropee si può così riassumere: 1. espansione morfologica nel senso di legare anche formalmente forme in origine semanticamente indipendenti; 2. stanchezza morfologica nel sostenere formazioni verbali autonome come, ai nostri giorni, il passato remoto italiano, il passé defini francese, l'imperfetto tedesco; 3. progressivo dissolversi della personalità dei morfemi in "accidenti" della radice. In greco si vede ancora il rapporto s/so che oppone desinenze secondarie attive e desinenze secondarie medie; il rapporto si/sai che oppone desinenze primarie attive e medie. Nelle lingue moderne tutto questo viene meno. Quando s'introducono dei pronomi personali per sostituire le insufficienti desinenze, si ha un nuovo tentativo di ravvivare la morfologia del verbo, per mezzo di prefissi. Se questo non riesce, come in inglese dove I, you si ribellano a essere prefissi, passiamo alla terza fase, l'aggruppante.
Nella categoria del nome distinguiamo in italiano: 1. il genere buono: buona; 2. il numero buono: buoni; 3. limitatamente al pronome il caso la: le, lo: gli, io: me. Il genere è tripartito, per es., in tedesco, dove oltre al maschile e al femminile c'è il neutro; il numero è tripartito, per es., in certi dialetti lituani o nel greco antico, dove esiste il duale oltre al singolare e al plurale; il caso è organizzato ancora oggi in una declinazione, decadente in tedesco, vitale nelle lingue baltiche e slave. Il numero dei casi, otto nelle lingue indoeuropee, ridotti a sei in latino, a cinque in greco, a quattro in tedesco, ma teoricamente non limitabili, fa sì che si esercitino delle tendenze diverse, quella a metterli sullo stesso piede e a stringere i rapporti fra gli uni e gli altri (eliminazione della declinazione in consonante); quella a differenziare un caso per eccellenza, per es., il nominativo (lis non litis); infine quella a ridurre l'opposizione a caso retto e caso obliquo.
Rispetto al verbo la morfologia del nome presenta: minore espansione morfologica perché le diverse categorie del nome azione, attore, atto non sono ancora legate da un rapporto di necessità, in modo parallelo alla coniugazione; minore capacità a morfologizzare ripieghi sintattici come in habere habeo "avrò"; maggiore stanchezza morfologica di tutti i morfemi della flessione nominale. Espansione in parte morfologica si può documentare nella vitalità delle categorie di determinato e indeterminato, di partitivo e non partitivo che permettono di distinguere oggi un lupo e il lupo; i lupi e dei lupi di fronte alla semplice opposizione latina di lupus, lupi. L'allontanamento dal tipo flessivo è dunque più accentuato nella morfologia nominale che in quella verbale.
11. Morfologia di alcuni gruppi extra-indoeuropei. - I gruppi linguistici diversi dall'indoeuropeo precisano, rettificano o trasformano concetti fondamentali della morfologia. Nel gruppo semitico il fatto essenziale è dato dall'importanza di quelli che per noi sono i morfemi virtuali. Lo scheletro della radice è normalmente uno scheletro di tre consonanti, in mezzo alle quali compaiono varie combinazioni di vocali. Dallo schema qtl si possono avere quasi trenta derivazioni primarie per mezzo di vocali lunghe o di vocali brevi combinate con un rafforzamento della consonante interna: qatal, qatl, qātil, qattal, ecc. Definita la radice però soltanto come uno scheletro consonantico, è evidente che le alternanze vocaliche non sono più alternanze della radice, e che qui abbiamo dei morfemi infissi, nella prima maglia consonantica, nella seconda o in entrambe. Non è nemmeno da credere però che con questo il sistema semitico sia in netta opposizione con quello indoeuropeo; la fase indoeuropea che conosciamo noi, può esser stata preceduta da una fase in cui le alternanze vocaliche erano più varie e quindi riconducibili a morfemi infissi, come la fase storica delle vocali semitiche infisse può esser stata preceduta da una fase di vocalismo regolato cioè di morfemi soltanto virtuali. Nulla vieta di pensare che la nostra attuale flessione possa essere un giorno considerata "alternanza" e che i nostri suffissi possano apparire a grammatici ugro-finni come morfemi virtuali.
Il gruppo ugro-finnico, che appartiene essenzialmente al tipo agglutinante, mostra caratteri morfologici interessanti: come il tema nominale che ha esistenza reale e s'identifica col nominativo singolare.
In ungherese i casi sono: nominativo, accusativo, dativo, inessivo (stato in luogo), illativo (moto verso il luogo), superessivo ("sopra al tetto"), delativo ("dal tetto in giù"), adessivo ("presso al tetto"), sublativo ("portare sul tetto"), ablativo ("via dal tetto"), allativo ("verso il tetto"), terminativo ("fino al tetto"), essivo (apposizione), temporale, modale ("a modo di cerchio"), distributivo ("a gruppi"), comitativo ("insieme al padre"), sociativo ("col padre"), fattivo ("diventar padre"), causale finale ("per causa del padre").
Anche se la loro origine deriva in parte dalla trasformazione di posposizioni in morfemi, una morfologizzazione su così larga scala mostra una capacità di espansione morfologica sconosciuta nelle lingue indoeuropee.
Nel sistema verbale le desinenze personali sono legate ai "suffissi" personali della declinazione nominale, come nell'ungherese -m che indica "mio" con un sostantivo, "io" con un tema verbale.
Uno stato di cose modernissimo mostrano invece le lingue bantu, dove il sistema dei prefissi è qualche cosa di caratteristico. Con prefissi si formano distinzioni di singolare e plurale, gruppi semantici come quello degli esseri animati. Manca la declinazione. La differenza di nominativo e accusativo è indicata dall'ordine delle parole, il genitivo è caratterizzato da una particella, il dativo è ristretto dal fatto che si è morfologizzata la differenza semantica fra verbi con oggetto diretto (accusativo) e verbi con costruzione "relativa" a qualcuno; per cui l'opposizione di io penso a te, io ricordo te è eliminata introducendo un derivato di ricordo che ammetta l'accusativo, pur avendo il valore di verbo "relativo". Manca la flessione del verbo, sostituita dal pronome personale. Questo è così essenziale che si ripete anche quando esiste un soggetto.
Il cinese non ha morfemi in senso stretto e tutte le parole sono monosillabiche: una declinazione o una coniugazione non esiste. Tuttavia questo stadio si trova ad essere da una parte conclusione di un lungo processo che nel tibetano classico (sec. VII d. C.) non era ancora compiuto, perché esistevano allora dei morfemi, dall'altra inizio di un nuovo processo di morfologizzazione. Questo non esiste ancora nel modo di fare il plurale, ripetendo due volte il singolare: ma quando la parola tse "figlio" si associa a qualsiasi altra parola per indicarne il valore di sostantivo e viene alterata leggermente nella pronuncia (tao dzənon è "figlio del coltello"; ma "coltello" con la garanzia del suo valore sostantivale) si è ormai sulla via di possedere un morfema di derivazione nominale. E quando un derivato di lieco "compiere" diventa forma ausiliare di perfetto, abbiamo in la l'embrione di un morfema tipico per questa forma verbale.
12. Morfologia e progresso. - Così, attraverso i millennî, è un succedersi di lingue in cui il sistema morfologico si amplia o, si restringe, in cui gli elementi morfologici si flettono, si agglutinano o si aggruppano. Se è lecito parlare di forme progredite, bisogna che queste rispondano al concetto di progresso, semplificazione di processi, sfruttamento di nuove forze volte a un determinato fine. La lingua esterna, la lingua scritta sono una parte soltanto della creazione linguistica dell'uomo: una capacità di comprensione educata può fare a meno di costruzioni morfologiche pletoriche. È piccolo borghese ritenere che la quantità delle forme sia un pregio e che la lingua greca debba la sua fortuna ai numerosi participî. Ed è fuor di luogo la difesa a oltranza del passato remoto che si fa nella scuola, quando almeno dodici milioni d'Italiani non sanno più che farsene.
Uno dei fattori di modernità nella linguistica intera, e quindi anche nella morfologia, è la memoria visiva. Da questa derivano quei processi morfologici che soppiantano una lunga costruzione sintattica prendendo il suono o la sillaba iniziale delle parole del costrutto, FIAT o URSS. Sarebbe errato voler resistere a questi procedimenti.
Trovandosi al cuore dell'organismo linguistico la morfologia è un fattore fondamentale di resistenza e di progresso per ogni lingua. Come tale, deve tener conto delle due opposte insopprimibili esigenze, la semplicità e l'utilità.
Bibl.: J. Vendryes, Le Langage, Parigi 1924; A. G. Noreen (Pollak), Einführung in die wissenschaftliche Betrachtung der Sprache, Halle 1923; J. Schrjinen (Fischer), Einführung in das Studium der indogermanischen Sprachwissenschaft, Heidelberg 1921; H. Paul, Prinzipien der Sprachgeschichte, 5ª ed., Halle 1920; W. Wundt, Völkerpsychologie, I, 2ª ed., Lipsia 1908; A. Marty, Untersuchungen zur Grundlegung der allgemeinen Grammatik und Sprachwissenschaft, I, parte 2ª, cap. 1°, Halle 1908; F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Parigi 1916, p. 221 segg.; Travaux du cercle linguistique de Prague, IV (1931), pp. 53 segg., 160 segg.; V. Brøndal, Morfologi og Syntax, Copenaghen 1933; P. Meriggi, Journal de Psychologie, XXX (1933), pp. 185-216; A. Trombetti, Elementi di glottologia, Bologna 1922-23; Meillet-Cohen, Les langues du monde, Parigi 1924; P. W. Schmidt, Die Sprachfamilien und Sprachenkreise der Erde, Heidelberg 1926; E. Kieckers, Die Sprachstämme der Erde, Eidelberg 1931.
Medicina. - La morfologia clinica è la dottrina delle forme esterne del corpo umano (proporzioni corporee, plastica esterna dei tessuti, varianti costituzionali della pelle, arterie, vene e ganglî linfatici accessibili all'ispezione esterna e ogni altro segno esterno) portata a conoscenza del medico per la determinazione dei caratteri della costituzione individuale. A. De Giovanni intitolò Morfologia del corpo umano (1891), la sua opera fondamentale per l'indirizzo costituzionalistico, volendo con ciò significare che tale indirizzo si deve fondare innanzi tutto sull'anatomia per passare in secondo luogo allo studio costituzionale delle funzioni. Anche A. Chaillou e Mac Auliffe della scuola costituzionalista francese di A. Sigaud, nella loro opera fondamentale Morphologie médicale (Parigi 1912), hanno usato la parola morfologia nel senso costituzionalistico precedentemente datole dal clinico italiano.