MORFOLOGIA TERRESTRE
. Quando si parla di morfologia terrestre (o geomorfologia) non s'intende lo studio della forma complessiva della Terra - la cui determinazione e il cui studio sono preciso compito della geodesia - e nemmeno delle linee generali del rilievo terrestre, quali sono date dalla stessa esistenza e distribuzione delle masse continentali e dalla presenza e andamento delle principali catene montuose, il cui studio rientra nei compiti della geologia. Però, se la morfologia terrestre può apparire qualche cosa di nettamente separato dalla geodesia, non altrettanto si può dire nei confronti della geologia. A voler essere rigorosi nel differenziare i compiti essenziali dell'una scienza e dell'altra, noi possiamo dire che di una catena montuosa, ad esempio, il geologo studia l'interna struttura, cioè l'andamento e la successione e l'età dei singoli strati che la costituiscono, l'andamento più o meno complesso delle pieghe per le quali essi vengono ripetutamente e complicatamente ad affiorare, per dedurne il meccanismo e le cause del sollevamento, e anche il periodo, breve o lungo, unico o multiplo, nel quale esso si è verificato per effetto di quelle forze interne che si dicono orogenetiche, proprio perché a esse è dovuta la formazione delle montagne. Il morfologo, invece, può astrarre da tutto ciò, perché il suo compito essenziale è lo studio delle forme esteriori che una catena montuosa può presentare: le quali possono essere assai differenti, come può comprendere chi pensi, anche soltanto, all'aspra e incisiva grandiosità delle Alpi e al tenue e morbido modellamento degli Urali.
Quello che si è detto per le catene montuose, può ripetersi per qualsiasi tipo di rilievo terrestre, cioè non soltanto montuoso, ma collinare e anche addirittura spianato: si pensi, quasi all'estremo opposto nell'infinita varietà di tipi nel rilievo terrestre, anche al deserto, del quale pure il geologo può limitarsi a studiare l'intima costituzione e struttura del substrato roccioso, mentre il morfologo deve studiarne le caratteristiche forme.
Non è da credere però, che tra geologia e morfologia terrestre sia quel netto distacco che apparirebbe dal contrasto che abbiamo ora indicato in quelli che sono i loro compiti essenziali. Si pensi invece a quello che è scopo ultimo della geologia, scienza sintetica per eccellenza, la quale mira a ricostruire la storia della Terra, cioè a ricostruire le condizioni geografiche - distribuzione delle terre emerse e dei mari, caratteri del rilievo, caratteri del clima, delle condizioni idrografiche, anche della vita vegetale e animale - in quei successivi periodi che si sogliono dire, appunto, geologici. In questo senso, sintetico, dello scopo ultimo della geologia, si vede come molte altre scienze, generalmente considerate come collaterali, le siano in realtà subordinate: la litologia con lo studio delle rocce, la paleontologia con lo studio degli organismi fossili così animali come vegetali, la stratigrafia con l'indagine della successione e dei mutui rapporti tra gli strati depostisi in età differenti, la tettonica con lo studio delle pieghe e del loro andamento e delle loro molteplici complicazioni, contribuiscono, tutte insieme, a fornire alla geologia i mezzi, gli strumenti, gli elementi indispensabili alla sua sintesi. Anche la morfologia terrestre ha, in fin dei conti, la stessa posizione subordinata rispetto alla geologia, e a questa deve offrire, come diremo, elementi per ricostruire la complessa storia della Terra.
Questo non è forse pacificamente accettato, in quanto i geografi ritengono che la morfologia terrestre rientri nei compiti loro e non già in quelli dei geologi. E ciò può fino a un certo punto sembrare vero, se, in opposizione a quella che abbiamo dato come definizione della geologia, si pensa anche a quella che è di solito data per la geografia, cioè studio della superficie terrestre e dei fenomeni - fisici, biologici e umani - che vi hanno sede. Può, fino a un certo punto, sembrare vero anche per il fatto che la geografia, come descrizione della superficie della Terra, si può considerare scienza assai antica, mentre la geologia, per i suoi stessi caratteri di scienza eminentemente sintetica, è la più recente delle discipline naturali e recentissima come dottrina che ha corpo di scienza indipendente. Sicché, indubbiamente, i primi elementi di morfologia terrestre si possono ritrovare anche in opere di geografia, vecchie oramai di qualche secolo, assai prima, cioè, del sorgere di una vera e propria disciplina geologica.
Quello che è certo anche si è che la prima volta nella quale si vede usato il termine di "morfologia terrestre" è in un manuale di geologia, quello di Naumann del 1858, e che tra le prime indagini morfologiche sono indubbiamente quelle dovute alla scuola geologica americana, rappresentata da F. G. Gilbert, da J. W. Powell, da J. D. Dana, anche se vecchi geografi trattatisti - basti nominare i maggiori, C. Ritter e F. Humboldt -, ci avevano dato descrizioni morfologiche delle varie regioni della Terra, e più tardi un geografo, il Peschel, nei suoi Problemi di geografia comparata tentò la fissazione e il confronto di tipi morfologici distinti, la determinazione di loro aggruppamenti in paesaggi, appunto, morfologici, e la ricerca delle loro correlazioni con altri fatti fisici, specie geologici e climatici.
Di qui la questione, più volte sollevata, se l'origine della morfologia terrestre si debba ricercare fra le opere degli studiosi europei o fra le opere di quelli americani. E questa, come pure l'altra se la morfologia terrestre rientri più nel campo degli studî geologici o di quelli geografici, possono magari sembrare questioni oziose. Ma non lo sono, se si vuol fissare la posizione della morfologia terrestre nel grande quadro di tutte le scienze della Terra.
È bensì vero che dalle descrizioni regionali dei geografi della vecchia maniera si possono trarre elementi che ci dànno un'idea generica e talora anche particolareggiata delle forme d'una o d'altra regione, ed è anche vero che tali elementi si possono trarre anche dalle relazioni di viaggiatori che, pur non essendo specificatamente geografi, dimostrino acutezza di osservazione e fedeltà descrittiva. Ma questa è piuttosto morfografia, cioè descrizione delle forme, che non vera e propria morfologia, la quale, comprendendo anche la loro spiegazione, è quindi implicitamente anche genetica. E da questo punto di vista, bisogna riconoscere forse nei geologi della scuola americana della fine del sec. XIX i fondatori della moderna morfologia terrestre.
Forse come primo trattato di morfologia si deve considerare il volume di F. v. Richthofen, Istruzioni per i viaggiatori, pubblicato nel 1886, poi seguito dalla Morfologia della superficie terrestre, di A. Penck, del 1894. Questi due trattatisti sono considerati come geografi: ma geografi formati essenzialmente alla scuola geologica, come puro geologo è E. De Margerie che nel 1888, in collaborazione con G. De La Noe, scrisse su "Le forme del terreno", e puro geologo G. Rovereto e di preparazione geologica Olinto Marinelli, i due principali rappresentanti italiani dell'indirizzo morfologico moderno.
Influenza delle condizioni geologiche sulla morfologia. - Altro è infatti descrivere e altro, invece, interpretare le forme del terreno. Per interpretarle bisogna avere una preliminare, e non superficiale, preparazione per riconoscere le caratteristiche - litologiche, stratigrafiche e strutturali - del terreno del quale si vuole indagare il modellamento, e anche una preliminare, e non superficiale, preparazione intorno al meccanismo con il quale si svolgono le molteplici azioni modellatrici, le quali sono in massima parte dovute ai cosiddetti agenti esterni, ma più o meno direttamente legate alle stesse caratteristiche litologiche, stratigrafiche e strutturali.
Ciò può valere ugualmente per le forme del terreno che assumono, per la loro estensione, valore regionale, e per quelle che talora compaiono localizzate su piccolo spazio, sì da costituire soltanto forme di dettaglio. Sono, fra queste, la maggior parte, forse, delle cosiddette curiosità naturali, come le sculture alveolari (fig. 1), che cribrano, talora, la superficie di talune rocce, o i caos di grossi blocchi arrotondati (v. tav. CLV), i ripari e le semigrotte o le cosiddette "pile di formaggi" o i massi che sembrano, e qualche volta anche sono, in uno stato di equilibrio che il minimo urto può turbare.
Le piccole sculture alveolari, così minute talora da sembrare opera di un cesello - note specialmente da talune coste rocciose -, sono quasi sempre incise nell'arenaria o nel granito o in rocce di struttura non dissimile: un aggregato di cristalli o di granuli tenuti insieme da un cemento: dove questo, spesso lungo linee che variamente s'incrociano, è più saldo, la roccia resiste meglio al disfacimento, e rimane in risalto, mentre le piccole zone frapposte, meno resistenti, si sfanno più rapidamente, i granelli o i cristalli che le costituiscono cadono per gravità o sono portati via dal vento e dall'acqua, e ne risulta la caratteristica scultura alveolare. Lo stesso accade dei grossi blocchi informi, però sempre più o meno arrotondati, che si accatastano a costituire grandi caos pittoreschi (v. tav. CLV): anch'essi rappresentano i nuclei più saldamente cementati dentro la massa apparentemente uniforme della roccia, e ancora resistenti contro le azioni distruggitrici, quando il resto, intorno a essi, si è sfatto, si è ridotto in polvere e in sabbia, ed è stato portato via dalle acque dilavanti. Anche in questo caso non tutte le rocce si prestano a una tale tipica forma di particolare. Lo stesso anche per i ripari e per le semigrotte e per le "pile di formaggi".
La costituzione rocciosa può avere altra influenza sulle forme del terreno, ben altra importanza, tale cioè da imprimere un carattere del tutto particolare anche a regioni estese. E non occorre - tanto la correlazione è evidente - avere una speciale competenza in fatto di geologia, per comprendere come le forme morbide, tutte a minuscole collinette tondeggianti, delle cosiddette "crete" senesi siano legate all'argilla che costituisce il terreno; mentre là dove sono forme aspre e incisive si può esser sicuri di constatare la corrispondenza di rocce specialmente salde, compatte e resistenti. Questo è particolarmente evidente dove rocce morbide e rocce invece ben salde sono frammiste, perché allora il contrasto delle forme legate alle une e alle altre risulta immediato all'osservatore. Così nell'Appennino settentrionale, dove in mezzo ai pendii uniformi e addolciti dati dall'esteso affiorare di scisti argillosi si vedono sporgere spuntoni rocciosi in netto rilievo, che in altri tempi servirono a localizzare, per la più facile difesa, villaggi e castelli: essi corrispondono ad ammassi di serpentine o altre delle cosiddette rocce verdi, intercalate irregolarmente dentro gli scisti argillosi.
E questi sono esempî di facile comprensione, anche per chi non sia particolarmente preparato in fatto di geologia. Ve ne sono altri che, ad essere interpretati, vogliono invece una certa preparazione. È noto che l'altipiano abissino, esteso sino a comprendere parte della Colonia Eritrea, è caratterizzato dalla forma tabulare dei suoi monti: tanto che "amba", termine indigeno che significa genericamente monte, è stato accettato col significato speciale, appunto, di monte tabulare. Ma, nelle grandi distese spianate, quasi livellate, si vedono sorgere, in pieno contrasto morfologico, gli strani monti fatti a grandi mammelloni, a pan di zucchero, a cupola, alti per quanto ristretta è la loro base, e arrotondati nei fianchi e nella sommità: cosi sono le "ambe" di Senafè (v. tav. CLVI) e quelle anche più note di Adua. Così queste come la maggior parte delle ambe spianate, e anche della superficie d'altipiano dove sia rotta in lembi minori, sono costituite di una roccia vulcanica, ma diversa nell'un caso e nell'altro: una roccia che per i suoi caratteri costitutivi ha un'assai alta temperatura di fusione, è quella delle ambe a cupola e a mammellone; e ciò significa che quando essa fece eruzione, venendo nell'ambiente termico esterno fu costretta a consolidarsi rapidamente, e si raffermò quindi localizzandosi in corrispondenza dei punti di emissione. Altrove, invece, si effuse una lava che, per i suoi intimi caratteri, ha un'assai più bassa temperatura di fusione; e ciò significa che, fuoriuscendo, poté mantenersi fluida più a lungo, e quindi espandersi ampiamente e costituire le grandi distese livellate dell'altipiano, poi rotte nei lembi delle ambe tabulari (ambe basaltiche, tavola CLV). Non altrimenti si è originato il piatto paesaggio del Deccan indiano.
Questi sono, dunque, tutti esempî dell'influenza che la natura delle rocce può avere sulle forme del terreno, siano di dettaglio e siano anche regionali. Vi sono però anche altre condizioni geologiche, che possono esercitare una loro influenza morfologica: principali quelle di giacitura, cioè, in fin dei conti, l'andamento degli strati rocciosi. Vi sono certe valli - per es. nelle Prealpi friulane -, le quali si mostrano tipicamente dissimmetriche nei due fianchi opposti: l'uno assai ripido l'altro più dolcemente inclinato. Ed è facile la constatazione che questo secondo corrisponde, su per giù, alla superficie degli strati e quindi ne riproduce anche l'inclinazione, mentre il primo li taglia di traverso, assumendo facilmente più forti pendenze. E queste, in taluni casi, possono giungere alla verticalità.
Un caso estremo si ha quando gli strati sono orizzontali, perché allora tutti quanti i fianchi di un monte li tagliano, giro giro, di traverso, e tutti quindi tendono ugualmente a essere verticali. La bellezza paesistica delle Dolomiti (v. tav. CLVI), con le loro grandi pareti perpendicolari, con le forme dei monti a torrioni, a castelli - o a campanili, quando la distruzione loro sia molto progredita -, è essenzialmente dovuta a questa condizione: che gli strati onde sono costituite, corrono orizzontali. Condizione questa che si ripete ovunque siano simili pareti pittorescamente dirupate, che sembrano tagliate di netto dall'alto al basso: così nei cañones del Colorado (v. arizona), come nella cosiddetta Svizzera Sassone (fig. 2), come nelle Meteore di Tessaglia (v. meteore). Né si creda che la ragione essenziale sia, invece, nella saldezza della roccia: le "balze" di Volterra, anch'esse tagliate così di netto, sono costituite di sabbie e di argille, cioè di rocce morbide, ma in banchi orizzontali (v. erosione, XIV, p. 266).
Vi sono condizioni di giacitura, più di eccezione, le quali pertanto possono influire sulle forme del terreno: vi è, nella Colonia Eritrea, un'amba Toquilè, molto nota perché si leva alta e isolata da una specie di bacino, lunga assai ma stranamente sottile, sì che l'aspetto ne è diversissimo secondo il lato dal quale la si veda (v. tav. CLVI). Essa s'identifica con un enorme dicco eruttivo, che un tempo si trovava intruso dentro le rocce circostanti: queste sono state distrutte dai varî processi erosivi, mentre il dicco - anche perché di roccia più salda e resistente - è rimasto proteso al cielo come una lama gigantesca.
Gli strati geologici - come è noto - conservano solo eccezionalmente l'andamento regolare col quale furono, in tempi più o meno remoti, deposti in seno alle acque. Le forze interne che li hanno sollevati, li hanno anche, quasi sempre, costretti a ripiegarsi, e spesso con complicanze che non è necessario richiamare adesso.
Quando queste pieghe degli strati sono molto complesse e strette, esse hanno forse minore influenza sulle forme del terreno, sulle quali influisce maggiormente il locale andamento dei singoli strati: così a una stratificazione localmente verticale possono, spesso, essere dovute certe creste montuose caratteristicamente sottili e dentellate e l'arditezza di certe "guglie" alpine. Ma quando il piegamento degli strati è ancora relativamente semplice, allora, abbastanza spesso, esso trova una sua corrispondenza nelle forme complessive esteriori.
Basta osservare una carta topografica del Giura (figg. 3 e 4) anche se non si ha una diretta conoscenza della regione - per constatare che, più che un vero paesaggio montuoso, si ha un paesaggio collinare. Ma sono strane colline: costituiscono un fascio regolare di piccoli rilievi, lunghi e paralleli fra loro, dalle lunghe schiene arrotondate e dai fianchi regolari, e disgiunti da valli che sembrano docce, tanto regolari sono, anch'esse, nella loro incurvatura. Dorsali morbide e docce frapposte corrispondono, esattamente, alla dolce piegatura degli strati del sottosuolo. E nel Friuli, tra la pianura pedemontana e le catene prealpine vi è come una serie di grandi cupole molto depresse, le cui superficie superiori costituiscono come lembi di altipiano, tanto dolce ne è la curvatura, ed esse pure corrispondono a cupole depresse, nelle quali sono incurvati gli strati del sottosuolo.
Impossibile, dunque, astrarre dalle condizioni litologiche, stratigrafiche e strutturali, quando si vogliano interpretare e spiegare le forme del terreno: quante gole di valli e quanti salti nel loro fondo, sono dovuti al locale affioramento di una roccia più salda; quanti slarghi vallivi sono dovuti, invece, all'affiorare di rocce morbide, quanti bacini interni sono dovuti alla disposizione stessa degli strati, piegati in grandi conche allungate. E vi sono poi quelle forme, tutte speciali, che sono legate a fenomeni eruttivi: i quali, se sono rappresentati esclusivamente o prevalentemente da effusioni laviche, possono originare quegl'immensi espandimenti, dei quali già si è fatto cenno e che valgono a imprimere il carattere morfologico predominante, se non unico addirittura, a intere regioni, come ne è esempio più grandioso di tutti lo zoccolo basaltico del Deccan, che con i suoi pianori sconfinati costituisce da solo buona parte dell'India. Ma quando i fenomeni eruttivi sono prevalentemente o esclusivamente di carattere esplosivo allora si ha la formazione di quei monti caratteristici, i vulcani, dalla forma conica più o meno regolare, dalla base più o meno ampia, dai pendii più o meno inclinati e l'altezza più o meno grande, secondo la modalità e la violenza delle esplosioni: monti che quasi sempre hanno la sommità in apparenza come spianata, in realtà scavata in una specie d'imbuto o bacino o caldera, il cratere (v. etna), monti non confondibili con nessun altro. E se essi, anche se isolati - come il Vesuvio -, rappresentano un elemento morfologico del tutto speciale nel paesaggio circostante, possono d'altronde costituire, da soli, un paesaggio morfologico estremamente caratteristico, quando si ripetano numerosi sopra un'intera regione: tanto più che se il vulcanismo è in essi spento da gran tempo, essi non rappresentano più un fenomeno in attività, ma essenzialmente soltanto forme, le quali divengono anche più tipiche per il fatto che ogni cavità craterica può divenire un bacino lacustre. Abbiamo, in Italia, il classico paesaggio vulcanico dei Campi Flegrei, e quello, forse più caratteristico ancora, del Lazio tra Bolsena e gli Albani (v. vulcano).
Agenti esogeni del modellamento terrestre. - I precedenti sono soltanto esempî della molteplice influenza che le condizioni puramente geologiche possono avere sopra le forme del terreno: cioè nel contribuire a determinarle, qualche volta nel determinarle addirittura. Ma gli agenti morlologici, modellatori della superficie delle terre sono essenzialmente altri, e sono esterni. Anche se forze interne, o condizioni di costituzione o di struttura, possono, originariamente, provocare una forma, questa però, fin dal momento della sua stessa origine, è sottoposta alle azioni esterne, le quali sovrappongono la loro influenza modellatrice, fino a cancellare, magari del tutto, la forma originaria, se esse possono esercitarsi per un tempo sufficientemente lungo.
Queste azioni esterne, modellatrici della superficie delle terre, sono quelle esercitate dalle acque correnti, dai ghiacciai, dai venti, dal mare. Esse si svolgono per tre fasi distinte e che possiamo considerare regolarmente successive: una prima di erosione (v.); una seconda di trasporto; e una terza di deposito. Si consideri pure un corso d'acqua o un ghiacciaio o il vento o il mare: ciascuno di questi agenti comincia a usurare, scalzare, erodere il fondo roccioso, - diciamo anche più genericamente - la superficie rocciosa, sulla quale esso può esercitare una sua azione meccanica; quindi trasporta ciò che è risultato da questa fase di erosione - siano blocchi e massi, o detriti e ciottolame, o sabbia e polvere - secondo la forza viva della quale dispone e della quale la velocità è l'elemento essenziale; infine lo abbandona, secondo che la forza viva, della quale disponeva, diminuisce e magari si annulla.
Morfologicamente parlando, essenziali sono i due termini estremi di questa triplice azione: perché essi possono provocare forme, che sono, appunto, o di erosione o di deposito. Se s'immagina di svuotare del suo ghiacciaio un'alta valle alpina, dov'era il suo bacino di raccoglimento vedremo come una grande nicchia scavata nel fianco superiore della montagna; dove si snodava la sua lingua estrema, vedremo il semicerchio arginiforme delle sue morene; la grande nicchia è il risultato dell'erosione, il semicerchio morenico è il risultato del deposito: l'una e l'altro, forme dovute all'azione del ghiacciaio (v. fig. 5).
Si è comunemente attribuita grande importanza al potere erosivo degli agenti esterni; in questa comune credenza, però, si rivela certo l'influsso derivante dall'osservazione della potenza ed estensione di taluni loro depositi. Tutte le alluvioni che adesso costituiscono la pianura padana con uno spessore anche di centinaia di metri, evidentemente deposte e, prima, trasportate dai fiumi scendenti dalla cerchia alpina e da parte dell'Appennino, sembra infatti logico immaginarle il prodotto dell'erosione di tutti questi fiumi e dei ghiacciai che si trovino alla loro origine. Oggi vi è la tendenza a limitare sempre più il potere erosivo dei cosiddetti agenti esterni e ad attribuire prevalentemente ad altre azioni la preparazione, la produzione di quel materiale detritico, grossolano o sottile, che gli agenti esterni trasportano e alfine depongono.
È quel complesso di azioni che ha nome di disfacimento meteorico perché il suo effetto è la disgregazione e frantumazione delle superficie rocciose e la sua causa risiede nei caratteri fisici dell'atmosfera: essenzialmente nella temperatura, o meglio nelle sue oscillazioni. Il riscaldamento o per influenza della temperatura ambiente o per quella, anche più intensa, della diretta insolazione, alternato col raffreddamento, provoca il dilatarsi, e quindi il nuovo contrarsi delle rocce, in sé stesse o negli elementi cristallini che le costituiscono: di qui la formazione di fessure (tav. CLVII, in alto a sinistra), di soluzioni di continuità, per le quali la roccia, prima compatta, si frantuma e quasi si disgrega. Molto aiuta, in quest'opera, anche l'umidità, specialmente dove le basse temperature notturne fanno congelare l'acqua penetrata nelle fessure già formatesi, e il ghiaccio, con l'aumento di volume, esercita in certo modo un'azione di cuneo. Molto aiuta anche la vegetazione; meno il mondo animale, specialmente però quello inferiore.
Se elementi meteorologici sono la causa essenziale di questo disfacimento, ragioni climatiche ne determinano d'altronde la varia intensità. Esso è infatti più intenso là dove maggiori sono i salti diurni della temperatura: caratteristica, questa, così del clima desertico come di quello della montagna alta. Ed è per questo, appunto, che nelle regioni desertiche le superficie sono ricoperte, assai spesso, di massi e blocchi e detriti, sempre angolosi, che nessuno degli agenti esterni avrebbe in nessun caso potuto distaccare dalla massa rocciosa; è per questo ancora che noi scorgiamo i fondi e i pendii meno inclinati di alcuni alti valloni alpini come invasi dal cosiddetto sfasciume glaciale, così denso a volte, da nascondere completamente le superficie ancora intatte, che ne vengono riparate da un'ulteriore intensa disgregazione.
Dove le superficie sono pianeggianti o assai poco inclinate, i prodotti del disfacimento restano dunque - almeno quelli più grossolani - là dove si sono formati. Se però le superficie sono assai inclinate, tutti gli agenti esterni, capaci di esercitare un'azione di trasporto, intervengono per asportare il prodotto del disfacimento offrendo così alla disgregazione sempre nuove superficie rocciose. Interviene però anche la semplice gravità, quasi esclusivamente là dove al disfacimento sono esposte pareti perpendicolari. Basta richiamare alla mente il paesaggio morfologico delle Dolomiti: grandi pareti verticali, di roccia nuda, e ai loro piedi regolari, uniformi pendii, generalmente di media inclinazione, fatti tutti di pietrisco angoloso: sono i detriti che il disfacimento fa distaccare dalle pareti e la gravità cadere via via che sono formati, adunandoli nei caratteristici "detriti di pendio" (fig. 6). Rientrano in questi fenomeni e in queste cause morfologiche anche le frane (v. frana). Nell'esempio indicato delle Dolomiti il distacco è frammentario e continuo, e porta da un lato all'arretramento lento ma senza soste delle pareti rocciose e all'accumulo dei detriti lungo tutto il loro piede. Nelle frane invece il distacco è subitaneo (fig. 7), saltuario, e in massa: si forma una specie di nicchia là dove esso è avvenuto, e un accumulo informe - ma talora a guisa di argine e magari come a onde successive - là dove la massa rocciosa frantumata si è fermata nella sua caduta.
Tutte cause, dunque - queste più o meno legate al disfacimento meteorico -, capaci di esercitare un'azione morfologica. La loro massima importanza, però, risiede proprio nel fatto ch'esse preparano, con intenso lavorio, quel materiale che gli agenti esterni prenderanno, per trasportarlo e quindi deporlo altrove.
Ora, si noti fin da adesso un fatto d'ordine generale. Il disfacimento meteorico, se ha effetti morfologici che però possiamo considerare di dettaglio, ne ha anche uno più grande: quello di tendere ad abbassare, sempre più, tutte le superficie topografiche, bene inteso quelle in rilievo e scoperte, esercitando quella che si chiama degradazione.
E d'altra parte deve anche apparire evidente che tutti quanti gli agenti esterni, con la loro triplice azione di erosione, di trasporto e di deposito, devono tendere a spostare materiali detritici, fini o grossolani, dalle zone più elevate a quelle che lo sono meno. Tutto deve concorrere all'abbassamento delle superficie in rilievo e a un complessivo spianamento e livellamento delle terre emerse. Questo è un risultato ultimo che ci è dunque permesso d'intravvedere già dalla conoscenza preliminare di come gli agenti esterni agiscono nelle loro fasi successive e di come il disfacimento meteorico prepara, in certo modo, la loro azione.
Per quanto, però, gli agenti esterni esercitino i loro effetti modellatori della superficie delle terre attraverso le stesse tre fasi di erosione, di trasporto e di deposito, essi sono nettamente diversi per il modo con il quale essi esercitano queste loro azioni e quindi per le forme che ne derivano. Sono anche diversi per importanza: vi è quasi, fra essi, una specie di gerarchia. Uno infatti - dato dalle acque correnti - ha carattere di generalità; si chiama, per questo, agente normale; la sua azione, variamente intensa secondo le condizioni climatiche e anche secondo la costituzione rocciosa del terreno, ha però carattere quasi di universalità. Gli altri, invece, appaiono localizzati nella loro azione e nei loro effetti; sono quindi agenti, in certo modo, di eccezione; il mare, infatti, esercita la propria azione lungo le coste; il vento, in maniera prevalente, nelle zone a clima caldo e arido; il ghiacciaio, là dove le superficie topografiche sono più alte del locale limite delle nevi, e permettono quindi il depositarsi di nevi permanenti o eterne. In relazione con la localizzazione di questi diversi agenti, abbiamo anche paesaggi morfologici speciali e ben localizzati: quelli costieri, quelli desertici, quelli d'alta montagna.
In tutto il rimanente delle terre emerse, il paesaggio morfologico è dovuto all'azione delle acque correnti, anche se i suoi caratteri si presentino variabili, anzi talora magari tanto diversi da sembrare contrastanti.
Azione del mare. - Specialissima è, certamente, l'azione morfologica del mare, e nemmeno sempre evidente la successione di quelle tre fasi nelle quali si svolge il lavoro degli agenti esterni. Ma come di questi abbiamo detto, in generale, che l'azione di trasporto si svolge tra zone, delle terre emerse, più elevate e zone più basse - nelle prime delle quali prevale dunque l'erosione, e nelle seconde il deposito -, così è, in fin dei conti, anche del mare: e non vi è frequentatore di rive marine, il quale non sappia per osservazione propria, che le coste alte e rocciose tendono a essere distrutte progressivamente dal mare e quindi a retrocedere, e che le spiagge sabbiose tendono invece ad avanzare per i sempre nuovi depositi ch'esse vanno ricevendo.
Nemmeno molto evidente può apparire l'azione morfologica del mare, finché non intervengano fenomeni d'altro ordine - legati a quella che si può considerare vita interna, e non superficiale, della Terra -, giacché, se da un lato le zone di deposito, le spiagge, complessivamente piatte, sono già per questo loro carattere poco appariscenti, e lento del resto e non continuo il loro progredire, d'altro lato nelle zone di erosione la forma che rappresenta il risultato dell'azione distruggitrice del mare è pure nel complesso piatta e per di più anche sommersa o appena appena affiorante.
Dei varî movimenti proprî del mare è essenzialmente il moto ondoso quello che esercita, e talora con grande intensità, un'azione distruggitrice sulle coste rocciose a ripa, come deve essere noto, se non altro, dalle difese e dai ripari che l'uomo è costretto a opporre dovunque quell'azione minacci anche opere umane: l'esempio della piccola isola di Helgoland (v. germania, XVI, p. 672) rappresenta una vera lotta contro la distruzione operata dal mare. Questo, con le sue onde, batte violentemente alla base le alte ripe rocciose, esercitando un'azione quasi di catapulta; ed è aiutato dall'opera preparatoria del disfacimento meteorico, che a sua volta trova particolari condizioni di favore in riva al mare. Il risultato è che la base della ripa è battuta in breccia, e lungo essa verrà a formarsi un incavo, una specie di riparo sotto roccia, che la perseverante azione demolitrice tenderà a sempre più ingrandire. Ma a un certo momento la parte superiore della ripa rocciosa, sporgente sopra questa grande doccia scavata alla sua base, e disgregata dal disfacimento meteorico, dovrà rompersi e franare in blocchi e in detriti. Così la ripa viene a trovarsi retrocessa rispetto alla posizione ch'essa aveva all'inizio di questo abbastanza semplice processo demolitore. Ma anche sulla nuova ripa verticale il processo demolitore continua, con lo scavo di un nuovo solco basale, poi con il franamento della parte superiore divenuta a sua volta sporgente, e con il risultato di una ulteriore, progressiva retrocessione della ripa.
Se fosse tutto qui il risultato dell'azione demolitrice del mare, qualcuno potrebbe magari pensare ch'esso non abbia, in fin dei conti, veri effetti morfologici, in quanto si risolverebbe in uno spostamento della linea di riva, non nel modellamento di "forme" nuove. Ma in realtà non è così. È noto che il moto ondoso si trasmette soltanto fino a piccola profondità nel mare; e quindi a poca profondità si estende la sua azione meccanica demolitrice: sì che mentre la parte emersa della ripa rocciosa viene distrutta e a poco a poco retrocede, la sua parte sommersa rimane intatta, e con la superficie pianeggiante di questa, cosparsa dei massi e detriti della parte emersa franata, viene a formarsi una specie di piattaforma costiera, via via più estesa, secondo che la riva marina va retrocedendo. Il suo livello si può immaginare corrispondente a quello medio del mare; sì che la superficie pianeggiante, sommersa durante l'alta marea, può talora affiorare durante la bassa marea. Ora, è opportuno por mente a un fatto che ha carattere generale, perché si riscontra in tutti quanti i processi morfologici: via via che la ripa retrocede, sempre più attenuato, nella sua forza viva e quindi nei suoi effetti, la raggiungerà il moto ondoso, costretto a propagarsi sopra questa piattaforma appena un poco sommersa e che costituisce dunque un ostacolo al suo moto: sì che la retrocessione della ripa, sul principio rapida, deve farsi via via più lenta e tarda col progredire stesso del processo demolitore. Contemporaneamente, l'azione del moto ondoso, propagantesi sopra la piattaforma, deve esercitarsi anche nel frantumare e ridurre sempre più quei massi e quei detriti onde essa era cosparsa, finché lo stesso ritorno delle onde e gli altri movimenti del mare possono essere capaci di asportarli verso il largo.
Così si svolge l'azione erosiva del mare, la quale prende il nome speciale di abrasione. La sua azione di trasporto, d'altronde, può essere esercitata da tutti i suoi movimenti: marea, correnti, lo stesso moto ondoso. Essa si esercita però non soltanto sopra i materiali più fini, che sono l'ultimo prodotto della distruzione delle ripe rocciose, ma prevalentemente sopra quello, ingentissimo, che al mare portano i corsi d'acqua. La massima parte si depone però in seno al mare medesimo, a più o meno grande distanza dalla riva: sfugge, quindi, alla costituzione delle terre emerse, finché le forze interne della Terra non sollevino i depositi così formati nei fondi dei mari e degli oceani: le rocce stratificate, che noi vediamo, hanno infatti una tale origine, più o meno lontana nel tempo. Ma una parte di quei materiali, ed essenzialmente tra i più fini, può essere trasportata da correnti che abbiano andamento radente alle coste, e poi, specialmente dove queste abbiano rientranza e seni riparati, può esservi abbandonata a formare spiagge (v. tav. CLVII) le quali mostrano quindi, assai spesso, la tendenza ad accrescersi e di conseguenza ad avanzare.
Il moto ondoso giova all'azione di deposito lungo le spiagge, giacché la facoltà di trasporto dell'onda di ritorno sopra la riva è minore di quella dell'onda avanzante. L'interramento di porti spesso non è che una manifestazione di quest'opera di trasporto e di deposito esercitata dal mare. Talora infatti si ha dapprima un assottigliamento delle già basse acque costiere, finché sopraggiunge il momento che un ulteriore deposito è sufficiente a emergere: nel qual caso l'avanzamento della spiaggia sembra avvenire per sbalzi, mentre il lavorio preparatorio è continuo, anche se non apparente.
Modellamento eolico. - Lungo le spiagge si esercita anche l'azione del vento, dando luogo a forme generalmente di non grandi dimensioni e strettamente localizzate nella fascia costiera, ma non per questo meno caratteristiche ed evidenti. Sono le dune (v. duna), piccoli rilievi allungati di sabbia, che il vento aduna, spesso provocati da un preesistente ostacolo sul terreno - come possono offrirlo anche bassi cespugli - e che il vento può anche, come è noto, fare spostare come risultato della somma dello spostamento dei singoli granelli di sabbia. E siccome i venti prevalenti, lungo le coste marine, provengono di solito dal mare, così le dune si allungano nella direzione opposta, cioè più o meno parallelamente alla riva. I cosiddetti tomboli non sono che vecchie dune, fissate ed anche rivestite di vegetazione.
Ma per quanto caratteristico, il paesaggio costiero a dune rappresenta l'effetto soltanto di azioni assai ridotte, esercitate dal vento. Lo dice la stessa limitazione o ristrettezza della fascia così caratterizzata. Ma a pensarci appena, si deve constatare che l'azione di erosione è pressoché nulla o nulla addirittura, giacché il vento trova il materiale sabbioso già pronto sulla spiaggia, di dove essenzialmente si limita a sollevarlo; il trasporto, anche, avviene sopra assai piccola distanza; e il deposito non è mai molto intenso, come prova appunto la mediocrità stessa delle forme che ne derivano. Per avere un'idea esatta dell'intensità e dell'estensione spaziale, con le quali l'influenza morfologica del vento può manifestarsi, bisogna avere in mente le regioni desertiche, le quali nella duplice fascia a clima tropicale asciutto costituiscono il paesaggio morfologico tipico.
L'immagine più comune che si suole avere del deserto è quella di sconfinate distese di sabbia (v. duna, XIII, p. 274) sollevata nelle piccole collinette delle dune. È certamente un'immagine incompleta. Se si pone mente, infatti, a quelle successive tre fasi per le quali passa l'azione morfologica degli agenti esterni, si deve facilmente comprendere che il tradizionale deserto sabbioso rappresenta soltanto l'area di deposito nella molteplice azione del vento. Vi deve anche essere un'area nella quale si esercita la sua azione erosiva: questa è infatti costituita dal deserto di roccia, quello che gli Arabi distinguono col nome di hammada. Non bisogna però credere che nemmeno nei deserti, che sono, in certo modo, il regno dei venti, questi abbiano un'intensa facoltà di erosione. Nei deserti rocciosi - per quanto già è stato accennato - la mancanza quasi assoluta di vegetazione e di un rivestimento di humus, la mancanza pure quasi assoluta di acque correnti e la grande secchezza dell'aria, l'intensità fortissima dell'insolazione e il grande sbalzo diurno della temperatura, concorrono validamente a provocare un'intensa disgregazione delle superficie rocciose. E l'azione del vento si manifesta, in realtà, nel sollevare i materiali più sottili prodotti da questa disgregazione delle rocce, e nel trasportarli più o meno lontano, per deporli finalmente là dove la sua forza viva si attenui, generalmente in aree relativamente basse. Tra il momento nel quale il materiale sottile è sollevato e quello nel quale è deposto, una vera e propria azione erosiva è pertanto esercitata: non tanto, però, dal vento stesso - che non è se non aria in movimento -, quanto dai granuli di sabbia ch'esso trasporta: nel soffiare, infatti, al disopra delle superficie nude del deserto roccioso, quei granuli urtano violentemente contro tali superficie, specialmente contro sporgenze grandi o piccole che se ne sopraelevino, anche sopra il ciottolame più grossolano che faccia appena risalto dal piano più uniforme; e nell'urto violento, usurano, corrodono, levigano la roccia, che ne assume un aspetto del tutto caratteristico, per la levigazione e la lucentezza che ne derivano. Questa è la cosiddetta corrosione esercitata dal vento: essa si esercita sui granuli stessi ch'esso trasporta, i quali risultano pure corrosi e arrotondati, da angolari che erano quando furono presi e sollevati. Naturalmente, anche le acque correnti possono usurare e levigare le rocce sopra le quali esercitano la loro azione erosiva, e lo stesso anche i ghiacciai: e le une e gli altri, come il vento, non tanto per azione propria, quanto per quella esercitata dai materiali sottili ch'essi trasportano e che funzionano quasi come uno smeriglio. Ma queste levigature dovute ai corsi d'acqua o ai ghiacciai sono localizzate al letto torrentizio o fluviale o a quello glaciale, e anche poi limitate a zone assai ristrette, mentre la levigatura esercitata dai venti nei deserti assume carattere regionale e tipicamente paesistico.
Quest'estensione spaziale dell'azione morfologica dei venti può allargarsi anche oltre i confini dei deserti. Si può intanto avvertire che l'azione stessa si manifesta non soltanto in quelle grandi fasce climatiche, le quali hanno - come si è accennato - caratteristiche tali da escludere l'influenza morfologica di altri agenti esterni e da validamente preparare quella dei venti. Purché queste condizioni si ripetano, anche se attenuate, forme desertiche, ma quasi soltanto di deposito, si possono originare anche completamente al di fuori di quelle due grandi fasce climatiche: in grandi pianure alluvionali situate nell'nterno dei continenti, le quali cioè abbiano caratteristiche di clima continentale, con scarsa umidità e con rilevanti sbalzi di temperatura, si possono ritrovare estesi campi di dune, per le quali il materiale, sollevato e quindi deposto e modellato dal vento, è in certo modo già pronto come parti sottili delle alluvioni.
Avviene però per il vento quello che avviene per i corsi d'acqua, giacché le analogie nell'azione degli agenti esterni sono assai maggiori di quanto non potrebbe apparire a prima vista. Un corso d'acqua, che abbia diminuita la velocità, cioè la propria forza viva, cioè la propria facoltà di trasporto, comincia con l'abbandonare, vale a dire col deporre, i materiali più grossolani; più tardi deporrà quelli fini, e con ritardo maggiore quelli finissimi. Lo stesso è pure del vento: e se la sabbia ch'esso trasportava viene abbandonata a costituire il paesaggio del deserto dunoso, il pulviscolo più sottile viene trasportato ulteriormente, talora per distanza grandissima rispetto alla regione nella quale è stato sollevato. Di solito, però, esso viene talmente disperso, che la sua caduta può apparire talora come fenomeno sorprendente, ma insignificante risulta il deposito che ne avviene. In alcuni casi, però - quando, per esempio, ai margini di una regione desertica si levi una fascia di monti -, questi impediscono una dispersione del pulviscolo trasportato dai venti, il quale quindi si deposita sopra una zona relativamente ristretta, e può accumularsi, col perdurare del fenomeno, per potenza anche grande. E allora anche il deporsi del sottile pulviscolo può dar luogo a un paesaggio morfologico caratteristico, giacché esso tende a uniformare le piccole asperità e ineguaglianze delle superficie topografiche: le basse falde del K'uen-lun e del T'ien-shan, che pure sono fra le maggiori catene montuose della Terra, hanno i contrafforti e le creste, le sommità e gli sproni stranamente uniformi nei pendii, morbidi, arrotondati, proprio per effetto del lungo depositarsi del pulviscolo trasportato dai venti. Non differente origine hanno i grandi depositi del cosiddetto löss (v. tav. CLVII) in Manciuria e in Cina.
Modellamento glaciale. - L'azione morfologica dei ghiaccia al pari di quella del vento esige condizioni climatiche speciali (v. ghiacciaio). O meglio: condizioni speciali di clima sono necessarie per l'esistenza stessa dei ghiacciai. Occorre, cioè, che le condizioni locali di temperatura siano tali, che non tutta la neve caduta nell'anno possa esserne fusa: che si abbiano, in altri termini, nevi permanenti o eterne, dalle quali successivamente si forma il ghiaccio dei ghiacciai.
Anche ai ghiacciai si è attribuito un intenso potere erosivo; ma forse si è esagerato. Comunque è interessante il modo nel quale questo potere erosivo si esercita e le forme che ne sono originate. Si avvertano intanto due circostanze. Nella montagna alta - che è, nelle nostre regioni, dominio dei ghiacciai - si dànno, come già si è accennato, particolari condizioni di clima, per le quali la disgregazione delle roccie è intensa: forte insolazione, alti sbalzi di temperatura, intervento continuo dell'alterno gelo e disgelo. Dunque, così, vi è la preparazione di abbondante materiale, che il ghiacciaio può prendere, trasportare e finalmente deporre. La seconda circostanza: non è tanto il ghiacciaio - come si è pure detto per il vento - che direttamente eserciti un'azione erosiva sopra il fondo roccioso sul quale prende e si sposta, quanto invece il materiale detritico, grossolano o no, ch'esso ingloba, e che, costretto dalla grave pressione e dal movimento del ghiacciaio, esercita uno sfregamento e quindi un'usura sopra il letto della lingua ghiacciata. Ne risulta una levigatura (fig. 8), arrotondatura e anche striatura, così del letto roccioso come del materiale frammentizio che ne è la causa, e, d'altra parte, la formazione di una polvere sottilissima, che è pure il prodotto di quest'azione di usura e che a sua volta serve a intensificarla. Il risultato consiste da un lato, nell'elaborazione dei cosiddetti ciottoli striati, caratteristiei per l'arrotondatura di ogni angolosità originaria e per la lisciatura e striatura delle facce, e nell'elaborazione del finissimo limo glaciale, per il quale le acque uscenti dai ghiacciai hanno quel loro tipico aspetto lattiginoso; e da un altro lato - e questo è vero effetto morfologico - nella lisciatura, arrotondatura e anche striatura di quella parte del fondo vallivo sopra la quale sia passato un ghiacciaio: le cosiddette rocce montonate (v. ghiacciaio, XVI, p. 902) ne sono tipico esempio; ma chi abbia percorso una valle alpina, avrà bene osservato queste caratteristiche forme, tanto frequenti anche a distanza dalle fronti dei ghiacciai attuali, perché impresse da ghiacciai ben più grandi, che un tempo scesero giù sino a sboccare nelle prossime pianure.
Queste però sono soltanto forme di dettaglio: importanti comunque nel determinare la tipica morfologia della montagna alta - quella cioè modellata da ghiacciai - non però le più essenziali.
Per comprendere l'importanza morfologica dell'azione erosiva dei ghiacciai, occorre porre mente al modo nel quale essa deve manifestarsi, tanto diverso rispetto a quello nel quale si svolge l'azione erosiva esercitata dai corsi d'acqua. Questi, infatti, sembrano concentrare la loro azione erosiva lungo una linea, che ne viene via via approfondita: per le valli normali si suole parlare, infatti, di una "linea di fondo", espressione che a nessuno verrebbe probabilmente fatto di usare per una valle occupata da ghiacciaio. Il corso d'acqua, dunque, erode e approfondisce il fondo vallivo lungo una linea: il risultato dovrebbe essere sempre in una forma a gola, se sui due fianchi non intervenisse l'azione degradatrice del disfacimento meteorico. Questo, infatti, si può immaginare che agisca, in ciascun momento, ugualmente per tutta l'altezza dei fianchi; ma siccome questi si sono formati con ritardo dall'alto verso il basso, via via che l'azione erosiva del corso d'acqua procedeva e approfondiva il suo letto, così ne risulta che l'azione disgregatrice del disfacimento si è esercitata per un tempo via via minore nelle parti più basse dei fianchi, e questi ne risultano gradualmente meno degradati dalle linee di cresta alla linea di fondo. La conseguenza di tutto ciò si è che, man mano che il corso d'acqua approfondisce il proprio letto, i due fianchi opposti non si mantengono verticali, e quindi paralleli tra loro, ma divergono verso l'alto, e la sezione trasversa della valle assume quindi l'aspetto di una V (fig. 9).
Il ghiacciaio, contrariamente al corso d'acqua, non concentra la propria azione erosiva sopra una linea, ma la suddivide su tutta la superficie di una fascia ampia quanto esso stesso è ampio: si pensi che vi sono ghiacciai di tipo alpino, i quali sono larghi 5 chilometri e anche più. Essi, naturalmente, erodono e approfondiscono la valle per tutta questa loro ampiezza. D'altra parte, con la potenza della loro grande massa ghiacciata, proteggono contro l'azione degradatrice del disfacimento la parte inferiore dei fianchi della valle.
Il risultato morfologico è nel modellamento di una specie di gigantesca doccia in corrispondenza della massa del ghiacciaio che ha avuto corso nella valle: fondo ampio e pianeggiante dal piede di un fianco all'altro, e lateralmente pareti perpendicolari che si raccordano col fondo mediante dolci incurvature. È quella che si suol chiamare una valle a U (v. tav. CLVII) ma - è bene avvertire - a U è in realtà solo la sezione del fondo e dei bassi fianchi, cioè fin dove ha agito e protetto il ghiacciaio; più in alto ha agito invece il disfacimento, e quindi in alto si vedono i fianchi divergere verso il cielo. La valle risulta dunque, in certo modo, di due modellamenti differenti: glaciale in basso, nella parte superiore dei fianchi invece normale; e il limite tra i due è dato da un'angolosità caratteristica nel profilo trasverso della valle. Ma, tra i due modellamenti, quello dato dal truogolo glaciale è certamente quello che impone il carattere essenziale al paesaggio d'alta montagna, anche perché così differente dal paesaggio vallivo normale, e anche perché - si può aggiungere - è quello meglio visibile all'osservatore, alla cui vista spesso sfuggono i fianchi superiori. Però non mancano, nemmeno nei fianchi superiori delle valli d'alta montagna, impronte dell'azione morfologica dei ghiacciai.
D'altronde, il fondo di una valle glaciale si distingue nettamente non soltanto per la caratteristica sezione e per la tipica forma a doccia o a truogolo, ma anche per caratteri minori, che devono apparire - anche questi - tanto più evidenti, se s'istituisce un paragone tra il modo di agire di un corso d'acqua e quello di un ghiacciaio. Immaginiamo che un corso d'acqua in fase di erosione incontri una zona, anche breve, di roccia molto resistente compresa tra rocce morbide, facilmente erodibili. Quella zona di roccia resistente evidentemente ritarderà renderà più lenta l'azione erosiva del fiume; ma questo ritardo si trasmette anche verso monte, dove pur sono rocce morbide, perché il fiume non può con la propria erosione scavare a monte più che a valle, cioè non può creare una contropendenza nel proprio letto.
Il ghiacciaio agisce diversamente: se si pensa ch'esso si muove giù per la valle con meccanismo tale da farlo paragonare a un corpo plastico, si può comprendere ch'esso può superare facilmente ostacoli frapposti al suo cammino; questo, dunque, non è alterato o interrotto dal fatto che il ghiacciaio trovi alternanze di rocce più o meno resistenti: erode meno intensamente le prime, più rapidamente le seconde, crea quindi disuguaglianze sul suo fondo, e cammina ugualmente. Ne risultano frequenti salti topografici nel fondo delle valli glaciali, in frequenti contropendenze - occupate da laghi (v. tav. CLVIII), quando il ghiacciaio non esista più - e in frequenti rilievi rocciosi (fig. 10), che si elevano isolati dal fondo vallivo, irregolari nella forma ma tipici nel loro modellamento di dettaglio, tutto arrotondature.
Fin qui il modellamento esercitato da un grande ghiacciaio vallivo, che abbia i suoi bacini di alimento presso le creste maggiori di una catena principale; lo stesso è nelle valli laterali (fig. 11; v. tav. CLVIII), che portino le loro testate fino a creste similmente elevate: è come un gran reticolo di docce glaciali, al disopra delle quali si levano i fianchi dei contrafforti minori, i quali - per la loro minore elevazione - non hanno ghiacciai vallivi: possono invece avere piccoli ghiacciai, che sembrano come aggrappati alla parte più alta di quei fianchi superiori, proprio sotto alla cresta di quei contrafforti, e non scendono tanto in basso da unire le loro piccole masse alle grandi lingue dei ghiacciai vallivi.
Essi occupano, dunque, soltanto la parte superiore di valloni laterali: e in essa soltanto esercitano perciò la loro azione modellatrice, mentre nella parte inferiore dei valloni stessi sono le acque correnti l'agente modellatore. Ne viene di conseguenza quindi che solamente quella parte superiore è erosa ampiamente, sì che ne deriva la formazione di una specie di grande nicchia - o "circo" (v. tavola CLVIII), come comunemente viene chiamata -, incisa sotto la linea di cresta: limitata posteriormente da pareti assai ripide, limitata sul dinnanzi e in basso da una soglia pianeggiante, col fondo frequentemente contropendente rispetto a questa soglia esterna, in modo che, una volta scomparso il piccolo ghiacciaio, vi si forma un lago.
Queste sono le caratteristiche del paesaggio glaciale, inconfondibili con quelle di qualsiasi altro agente morfologico, e tali da determinare la particolare bellezza paesistica della montagna alta. Però è opportuno avvertire una sostanziale differenza che vi è - rispetto all'osservatore - tra il modellamento glaciale e quello delle acque correnti e anche quello dei venti. La morfologia dovuta all'erosione dei corsi d'acqua e dei venti è direttamente osservabile quando l'erosione stessa è in atto: non quella, invece, dovuta ai ghiacciai. Quando osserviamo un ghiacciaio vallivo o un piccolo ghiacciaio secondario, non ne vediamo la grande doccia incisa dal primo o il caratteristico circo modellato dal secondo; e non vediamo neppure i salti del fondo valle, i monticoli isolati, le contropendenze, le lisciature e le striature delle roccie. Se saliamo da Zermatt fino al Gorner, per dominare tutta la catena dal Monte Rosa alla Dent d'Hérens con le innumerevoli lingue di ghiaccio che ne discendono, ammireremo un paesaggio glaciale, in quanto lì è il predominio dei ghiacciai e delle nevi eterne, ma vedremo, anche, ben poche forme di modellamento glaciale. Per vederle, bisogna che i ghiacciai non esistano più, o che abbiano limitata la loro estensione. Ed ecco come l'osservazione e il riconoscimento di elementi morfologici possono darci sicuri indizî di condizioni, della superficie terrestre, in tempi passati diverse dalle attuali.
Poco è necessario aggiungere intorno agli effetti morfologici dell'azione di trasporto e di deposito dei ghiacciai, perché sono effetti di gran lunga meno importanti di quelli dovuti all'erosione. Tutti i materiali rocciosi, grossolani o sottili, che il ghiacciaio trasporta sulla sua superficie o dentro la sua massa, giunti alla fronte - dove cioè tutto il ghiaccio che via via arriva per il suo moto di discesa, fonde anche tutto -, vengono depositati a costituire gli argini delle morene. Ma la maggior parte di essi è presa dalle acque di fusione, dai torrenti glaciali, ed è quindi, da quel momento sottoposta alle azioni dei corsi d'acqua. Ciò spiega la relativa esiguità dei depositi morenici, quando si pensi alla massa ingente di materiale che i ghiacciai convogliano. Comunque, quando i ghiacciai ebbero in passato - come se ne è fatto cenno - sviluppo tanto maggiore di quello attuale e dalle maggiori valli alpine sboccarono nelle prossime pianure, dinnanzi e ai lati delle loro fronti costruirono depositi che oggi ci appaiono, essi pure, giganteschi: e costituiscono quegli anfiteatri morenici (fig. 12) che rappresentano un tipico paesaggio morfologico, pure dovuto all'azione di ghiacciai. E se nel complesso essi mostrano una disposizione che giustifica quel loro paragone ad anfiteatri, mostrano però anche una certa irregolarità nelle cerchie e nei monticoli che li costituiscono: onde la frequenza di contropendenze, e la conseguente frequenza di piccoli laghi.
Si può qui osservare che anche i grandi laghi pedemontani alpini si adunano in truogoli modellati da ghiacciai e sono cinti, verso la pianura, da anfiteatri di morene: per questo la loro origine è stata spesso attribuita all'erosione e al deposito esercitati da antichi ghiacciai: in realtà, questi hanno agito come fattori concomitanti, ma la causa essenziale è diversa e legata alle forze che agiscono nell'interno della Terra.
Modellamento carsico. - Siamo, finalmente, alle azioni modellatrici normali, quelle cioè dovute alle acque correnti. Ma, a proposito di queste, già si è incidentalmente accennato come le azioni stesse possano subire l'influenza della costituzione rocciosa del terreno. Vi sono, infatti, delle rocce di fronte alle quali le acque correnti hanno un comportamento tutto speciale, e alle quali quindi corrisponde anche un paesaggio morfologico del tutto particolare e straordinariamente caratteristico. Sono le rocce facilmente solubili. Tali sono, ad esempio, il sale comune ed il gesso; ma, in verità, essi prendono assai piccola parte alla costituzione delle rocce affioranti o che si trovino a piccola profondità sotto la superficie topografica, in modo da non avere una notevole importanza nel determinare le forme del terreno. Ma v'è un'altra roccia diffusissima, il calcare, che non sarebbe di per sé solubile, ma che lo diviene purché l'acqua contenga anidride carbonica: e, più o meno, ne contiene sempre. Il calcare non si presenta, poi, come una roccia compatta: non soltanto esso è diviso dalle giunte degli strati, ma intersecato in ogni direzione da fessure finissime, da fratturazioni, da veri spacchi; l'acqua superficiale, dunque, vi penetra - già quando corre dilavante dopo le piogge - facilmente, e per la facoltà solvente allarga tutti gli spacchi, le fessure, le giunte degli strati in modo da ampliarli sempre più. Il risultato è che questa fratturazione e fessurazione della roccia facilita sempre più, sino a renderla completa, la scomparsa delle acque superficiali dentro il terreno. Si stabilisce, così, un'idrografia sotterranea - detta carsica, dal Carso dove questi fenomeni sono straordinariamente sviluppati - che, ampliando sempre più le sue vie, dà luogo a sistemi complicatissimi e spesso anche grandiosi di cunicoli, di canali, di pozzi, di grotte, di caverne; ma questa idrografia sotterranea si stabilisce, dunque, perché le acque correnti sono sottratte alla superficie esterna, che non ne può quindi essere modellata. Vano sarebbe ricercare nelle regioni carsiche un paesaggio normale, dovuto cioè all'azione erosiva delle acque correnti. Quelle regioni sono caratterizzate invece - oltre che dalla complessiva nudità, e da poche forme di dettaglio, come certe tipiche solcature prodotte (v. tav. CLVIII) anche per soluzione, dalle acque dilavanti giù per i pendii rocciosi -, dall'infinita presenza di contropendenze nella superficie topografica, cioè di bacini chiusi, di ogni dimensione: ognuno ha, solitamente, degl'inghiottitoi, che segnano le più facili vie di scomparsa delle acque correnti dopo le piogge.
La forma più comune, e anche più minuta, di questo paesaggio carsico è la dolina (v.): cavità generalmente circolare, che somiglia, secondo le sue dimensioni e i caratteri del fondo, a una scodella o a un imbuto. Non è improbabile che all'origine di queste caratteristiche forme del Carso concorra il crollo della vòlta di qualche cavità sotterranea: certo, la solubilità del calcare ne è comunque la ragione prima. Ve ne ha di tutte le dimensioni, da piccolissime a veramente gigantesche (v. carsici, fenomeni, IX, tav. XLIX); ma se le dimensioni diverse possono essere in taluni casi originarie, generalmente vi è anche un fenomeno di crescenza delle doline: per il quale, da piccole e rade che esse potevano essere sul principio, divengono sempre più ampie e quindi sempre più ravvicinate, finché soltanto creste sottili le separano; e finalmente anche le sottili creste divisorie possono, in certo modo, essere consumate, e dare origine così a una forma concava molto più grande, derivata dalla fusione e concrescenza di altre prima indipendenti.
La soluzione del calcare lascia però un residuo insolubile, di carattere argilloso, e perciò impermeabile: esso, che costituisce la cosiddetta terra rossa del Carso, si raduna nel fondo delle cavità e in certo modo le impermeabilizza. Per questo laghi, spesso piccolissimi, non sono infrequenti nel paesaggio carsico più frequenti, forse, delle acque correnti, le quali si trovano soltanto dove vi sia un esteso mantello di terra rossa o sia conservato, nella costituzione del terreno, qualche affioramento di roccia impermeabile; ma, per la rarità, talvolta per la mancanza, di sorgenti, sono corsi d'acqua spesso soltanto temporanei e come i laghi mostrano grandi oscillazioni di livello, fino a un periodico loro prosciugamento. Ma vi è poi un carattere, che potremmo dire regionale, che si accompagna sempre al grande sviluppo di forme carsiche: cioè il fatto che il paesaggio sia complessivamente pianeggiante. Questa concomitanza è stata spesso interpretata come se anche il carattere regionale complessivo fosse, esso stesso, una forma del carsismo: questa concezione appare quasi implicita nell'espressione, frequentemente ricorrente, di altipiano carsico. La realtà è che la forma complessiva ad altipiano è preesistente ed è quella che provoca il grande sviluppo del carsismo: quanto più pianeggianti, infatti, sono le superficie topografiche, tanto più tarde e incerte sono le acque correnti, e tanto più facilmente sottratte dall'esterno verso l'interno della massa rocciosa. Le Prealpi friulane ed il prossimo Carso di Monfalcone sono costituiti press'a poco dagli stessi terreni; ma nelle prime i fenomeni carsici sono rari e sporadici, nel secondo invece sviluppatissimi perché il carattere ad altipiano lo ha permesso. Si può aggiungere però che questo carattere ad altipiano viene conservato dal carsismo, mentre invece verrebbe distrutto, se le acque correnti potessero esercitare le loro azioni normali.
Modellamento di erosione normale. Ciclo d'erosione. - Si è già indicato - sia in via generale, sia per contrasto con l'azione morfologica dei ghiacciai - quali siano i caratteri complessivi di quella delle acque correnti. Essenziale è comprendere che erosione, trasporto e deposito sono in funzione della forza viva della quale in ciascun punto del suo corso un torrente o un fiume dispone. Vi sono, nell'insieme, un tronco superiore che è dominio delle azioni erosive, e un tronco inferiore che lo è delle azioni di deposito: la conseguente tendenza, dunque, a un graduale abbassamento delle superficie topografiche in corrispondenza del primo, e ad un graduale loro innalzamento in corrispondenza del secondo. Ciò vale anche per i singoli tratti; osserviamo quello che avviene per l'azione di un torrente montano, che sbocchi in una valle maggiore: esso corre, nel proprio vallone, giù per un fondo assai inclinato; ha quindi notevole forza viva, e quindi notevole facoltà di erosione e di trasporto. Ma appena esso sbocca nella valle maggiore, che ha il fondo debolmente o comunque meno inclinato, le acque del torrente perdono di velocità, cioè di forza viva, cioè di facoltà di trasporto, e sono costrette a depositare gran parte del materiale che convogliavano fin lì: così si formano le conoidi, quei caratteristici depositi alluvionali, che si distendono a guisa di ventaglio uniformemente inclinati dallo sbocco dei valloni laterali dentro il fondo delle valli maggiori. Esse costituiscono un elemento veramente caratteristico in molte delle grandi valli alpine.
Risalendo una di queste, però, si constaterà anche che - dentro il quadro generale di un tronco superiore ove predomina l'erosione, e uno inferiore dove prevale il deposito - queste due azioni possono, in singoli tratti minori, anche alternarsi; ma si constaterà pure, che, dove il fiume erode, maggiore è la pendenza, e dove esso depone, la pendenza è minore. Ma l'erosione tende a diminuire la pendenza e quindi la facoltà di trasporto, e il deposito d'altronde tende ad aumentare la pendenza verso valle cioè a fare aumentare nuovamente, qui, la facoltà di convogliare materiale. Il corso d'acqua, dunque, tende sempre, lungo tutto il suo corso, verso un equilibrio tra il lavoro ch'esso può compiere e quello che è necessario per trasportare ulteriormente i materiali che giungono in ciascun suo punto. Il risultato ultimo di questo complesso lavorio deve essere un profilo longitudinale dato da una curva che si attenua sempre più dalla testata della valle al suo sbocco nel mare o in un lago o in una valle maggiore, cioè a quel punto estremo che si può considerare fisso e che costituisce il cosiddetto livello di base.
Raggiunto questo stato di equilibrio, il profilo longitudinale del fiume non presenta più irregolarità né salti; esso però non rimane immutato, ma tende a ruotare rispetto al livello di base, abbassandosi tutto quanto lentamente, e tanto più lentamente quanto più vada diminuendo la pendenza del tronco superiore e quanto più questo venga a limitare la propria estensione. Si può anche immaginare che anche questo tronco superiore venga finalmente a ridursi e poi ad abbassarsi a tal punto, che tutto intero il profilo longitudinale sia dato non più da una curva concava verso l'alto, ma da un pendio uniforme così dolce, che il fiume non possa più esercitare alcuna azione, né di erosione né di trasporto. Il fiume, in questo caso, si può dire estinto, in quanto agente modellatore della superficie terrestre.
Le leggi, per così dire, che regolano il profilo longitudinale dei corsi d'acqua non erano sfuggite a osservatori fin quasi di un secolo fa; ma spetta al morfologo americano W. M. Davis di aver paragonato, già nel 1884, quelle lente trasformazioni, sino a quella che si può considerare completa estinzione, a un ciclo vitale. Ma il Davis considerò questo ciclo vitale non tanto in un singolo fiume quanto nel complesso dei fiumi di un'intera regione: così che la sua considerazione divenne, da puramente idrografica, essenzialmente morfologica: e parlò, per questo, d'un ciclo d'erosione.
Non si può infatti immaginare che quelle graduali trasformazioni avvengano soltanto nel profilo longitudinale di un fiume: esse avvengono contemporaneamente, anche se non con perfetta coincidenza, per tutti quanti i fiumi di una stessa regione, dai maggiori ai minimi torrentelli. Ma contemporaneamente procede, su tutti i fianchi di questo reticolo vallivo, anche la degradazione: così che, con l'andare del tempo, non soltanto i profili longitudinali dei corsi d'acqua si regolarizzano e quasi si appianano, ma anche si abbassa sempre più e si uniforma tutto il rilievo topografico: l'ultimo risultato dovrebbe essere uno spianamento della regione. Si comprende dunque come qui si abbia veramente un ciclo vitale del paesaggio morfologico, fino alla sua estinzione. E, una volta ammesso questo concetto, è stato facile - diremmo quasi logico - distinguere nel ciclo vitale stadî o età successive, alle quali il Davis ha dato nomi tratti dalla vita anche umana; gioventù, maturità, vecchiaia, a ciascuna delle quali corrispondono particolari forme paesistiche.
Quando in una regione i corsi d'acqua sono nel primo stadio, con intensa erosione e profilo non assestato, e la degradazione è poco avanzata, tutte le forme del paesaggio sono incisive, hanno asprezze e rudezze, che si direbbero caratteristiche di gioventù; valli profonde e non ampie, fianchi ripidi (fig. 13), creste acute, cime aguzze. Procede l'erosione nei corsi d'acqua, ma procede anche il deposito; le valli si approfondiscono ancora, però più lentamente; i profili tendono a raggiungere un loro equilibrio, i fondi vallivi anche si allargano, i fianchi si fanno tutti meno inclinati, le creste più ottuse, le cime meno sporgenti; contemporaneamente tutto il paesaggio, oltre che aver perduto l'asprezza incisiva che aveva innanzi, è andato anche abbassandosi: è giunto alla sua maturità. Tutti i processi, di degradazione e di erosione normale, proseguono, però sempre più lenti, i secondi per i pendii sempre più attenuati; i fondi delle valli si uniformano e si ampliano; i fianchi si attenuano, le sommità si fanno arrotondate, quasi morbide: il paesaggio giunge alla vecchiaia (fig. 14). E finalmente, ma con sempre maggiore lentezza, si arriva allo spianamento completo, interrotto soltanto da qualche seguito di tenui colline, residuo della catena montuosa originaria. È la fine del ciclo d'erosione, e il suo risultato è il penepiano. Le Alpi sono una regione con caratteristiche prevalenti di gioventù; l'Appennino ha tratti che mostrano caratteri di maturità; gli Urali hanno già raggiunto la vecchiaia; lo zoccolo roccioso della Bretagna può rappresentare un penepiano.
La durata di un ciclo di erosione non può esser fissa, come non lo è quella della vita umana: può dipendere dall'intensità di sollevamento iniziale di una regione, e dall'intensità con la quale procedono la degradazione e il lavorio erosivo delle acque correnti: è in dipendenza, cioè, dell'intensità con la quale hanno agito le forze interne, poi della costituzione rocciosa, infine delle condizioni del clima. Si può affermare, comunque, ch'essa è una durata non misurabile con le età umane, ma dell'ordine di misura delle età geologiche.
Ciò deve far supporre che, se così lungo tempo è necessario affinché si svolga completamente un ciclo normale di erosione, possono bene intervenire fenomeni che turbino il suo regolare svolgimento. Così è, infatti, assai spesso. Basta immaginare che una regione giunta alla maturità morfologica, sia sottoposta, dalle forze agenti nell'interno della Terra, a un sollevamento, perché il suo ciclo di erosione venga interrotto e se ne inizi un altro. I maggiori pendii periferici verso il livello di base, determinati da quel sollevamento, faranno sì che perifericamente tutti i corsi d'acqua riprendano energicamente la loro azione erosiva in profondità, la quale a poco a poco retrocederà verso l'interno della regione. Verranno incisi così i vecchi depositi dei fiumi, con formazione di terrazze alluvionali, e verranno anche incisi i precedenti fondi vallivi in roccia con formazione di terrazze orografiche (figura 15). Ma soprattutto, mentre le sommità di tutti i rilievi conservano ancora le forme mature alle quali le aveva portate il ciclo precedente, le valli approfondite mostrano apertamente caratteri di gioventù imposti dal ciclo nuovo: è il vero ringiovanimento del paesaggio morfologico.
E questo può avvenire anche diverse volte, senza che nessun ciclo precedente sia giunto interamente a compimento; e può aversi, allora, la molteplicità delle terrazze, e superficie corrispondenti a stadî morfologici diversi, residui e testimoni di cicli anche diversi. Documenti morfologici, questi, della storia passata della Terra, cioè delle condizioni geografiche ch'essa ha avuto in età trascorse, vale a dire geologiche.
Assai difficile, però, datarle, giacché - come è ben noto - non possiamo avere altro elemento per stabilire l'età relativa nella storia della Terra, all'infuori dei fossili: e si tratta, quasi esclusivamente di fossili marini.
Qui può soccorrere la morfologia costiera. Possiamo immaginare infatti che quel sollevamento che ha fatto ringiovanire un paesaggio già maturo, abbia interessato anche una prossima zona costiera: pur che questa fosse fasciata da una piattaforma d'abrasione marina, questa verrà a emergere come terrazza litorale. La molteplicità del fenomeno è segnata, anche in questo caso, dalla molteplicità delle terrazze, che si succedono, lungo la costa, a varia altezza, come è classico esempio nella Calabria. Ma supponiamo soltanto un unico ringiovanimento: è evidente che la superficie della terrazza litorale ha la stessa età della superficie delle terrazze vallive, alluvionali e orografiche, e di tutte le forme, per ipotesi, mature che a esse si raccordano, tutte forme spettanti allo stesso momento dello stesso ciclo di erosione. Ma sulla terrazza litorale possono trovarsi, fossili, organismi che vivevano sulla piattaforma d'abrasione marina quando ancora era sommersa, cioè innanzi al sollevamento. E così, col sussidio di quei fossili, si potrebbe datare quello stadio di ciclo di erosione che ha dato forme mature prima del ringiovanimento.
Siamo dunque nel campo della geologia. Non, naturalmente, della geologia tradizionale, la quale, studiando la successione degli strati, i loro caratteri litologici e i loro resti organici, ricostruisce, in fin dei conti, solo la storia degli antichi oceani, e tutt'al più ci indica i limiti ch'essi avevano verso le antiche terre. Così è la geologia stratigrafica.
La geologia morfologica, invece, deve dirci i caratteri delle antiche terre. Ben più arduo compito, però: giacché, mentre la sedimentazione marina accumula e appila i documenti per la storia degli oceani, i processi erosivi degli agenti esterni cancellano di continuo i documenti via via più antichi, che sarebbero necessarî per ricostruire la storia delle terre emerse. E occorre ricercarne i lembi superstiti, e saperli interpretare, possibilmente anche datare. Ecco perché la morfologia terrestre è qualcosa di ben più complesso e arduo della semplice osservazione e descrizione di quelle forme di dettaglio dalle quali siamo partiti, e che forse più facilmente ritraggono l'attenzione dei più per il loro carattere di curiosità naturali.
Bibl.: G. De La Noë e E. De Margerie, Les formes du terrain, Parigi 1888; A. Penck, Morphologie der Erdoberfläche, Stoccarda 1894; F. v. Richthofen, Führer für Forschungsreisende, Hannover 1886; W. M. Davis, Physical Geography, Boston 1898; W. M. Davis e A. Rühl, Die erklärende Beschreibung der Landformen, Lipsia e Berlino 1912; O. Marinelli, Atlante dei tipi geografici, Firenze 1922; G. Rovereto, Trattato di geologia morfologica, Milano 1924; W. Penck, Die morphologische Analyse, Stoccarda 1924; S. Passarge, Physiologische Morphologie, Amburgo 1912; G. Braun, Grundzüge der Physiogeographie, Lipsia e Berlino 1930; A. Hettner, Die Oberflächenformen des Festlandes, Lipsia e Berlino 1928. Inoltre trattati di geografia fisica, specie quelli di E. De Martonne (Parigi 1926), A. Supan (Berlino e Lipsia 1930), A. Philippson (Lipsia 1930) e il periodico Zeitschr. für Geomorphologie (dal 1925).