Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Al centro del pensiero di Montesquieu si ritrova il tentativo di individuare quelle leggi che operano nel mondo storico e politico. Se già nelle Considerazioni sui romani si analizzano le ragioni che hanno prodotto la grandezza e la decadenza di Roma, ne Lo spirito delle leggi si ricostruisce quel complesso di norme che legano le relazioni umane nelle diverse società. Nella sua analisi delle leggi – condizionate sia da fattori naturali (il clima o la natura del terreno) sia da fattori storici – e nella sua ricostruzione delle relazioni tra storia, politica e scienza della società, Montesquieu fornisce un contributo centrale e innovativo al pensiero del XVIII secolo.
Il ruolo di Montesquieu all’interno della cultura Illuministica appare rilevante non tanto per la battaglia di diffusione della nuova cultura, esemplificata dall’impresa dell’Enciclopedia di d’Alembert e Diderot, o per la lotta contro l’oscurantismo e la superstizione, di cui Voltaire è l’indiscusso paladino, quanto per il tentativo di ricercare quelle leggi che regolano la storia e la politica. Montesquieu, che pure partecipa al movimento dei philosophes collaborando all’Enciclopedia con il Saggio sul gusto – uscito postumo nel 1757 nel settimo volume dell’opera –, e che prende posizione a più riprese contro il dogmatismo religioso e a favore della tolleranza, fornisce il proprio contributo più originale nel tentativo di delineare i contorni di una filosofia della politica di cui intende ritrovare le leggi e i principi.
Charles-Louis de Secondat nasce nel castello di La Brède, vicino a Bordeaux, nel 1689. Studia al collegio oratoriano di Jully e si iscrive poi alla facoltà di diritto di Bordeaux, dove inizia la carriera giuridica nel 1708. Dopo un soggiorno a Parigi di qualche anno (1709-1713), nel febbraio del 1714 diventa consigliere al parlamento di Bordeaux. Nel frattempo eredita dallo zio Jean-Baptiste (1635-1716) il titolo di barone di Montesquieu e la carica di presidente di sezione (président à mortier) nel parlamento di Bordeaux e nel 1716 viene eletto membro dell’accademia di questa città. L’accademia di Bordeaux diventa un luogo stimolante di incontri scientifici; qui Montesquieu si confronta con la storia antica, e in particolare con quella romana, e con i dibattiti scientifici relativi alla medicina, alla fisica o alla storia naturale. Mostra così già in questi anni un’inclinazione per alcuni temi a cui resterà costantemente legato, ovvero le questioni relative alla storia, alla politica e al loro rispettivo statuto, e quelle connesse ad argomenti scientifici e naturalistici. Queste ultime sono affrontate con gli strumenti elaborati da Cartesio e da pensatori della tradizione cartesiana quali Malebranche, Fontenelle, Rohault o Claude Perrault.
Nell’aprile del 1716 Montesquieu legge all’accademia una Dissertazione sulla politica dei romani nella religione. L’opera, influenzata dal pensiero di Machiavelli, affronta il tema squisitamente politico dell’utilità sociale della religione e quello della tolleranza religiosa, di cui i Romani avrebbero fornito un esempio ineguagliabile. Pochi anni dopo, nel 1719, Montesquieu lancia un appello su due giornali eruditi, Le Nouveau Mercure e il Journal des sçavants, perché gli vengano inviate informazioni utili alla composizione di una Storia della terra antica e moderna a cui sta lavorando ma che non vedrà mai la luce. Legge poi nel novembre del 1721, sempre all’accademia di Bordeaux, un Saggio di osservazioni di storia naturale, che verrà pubblicato postumo nel 1796, dove rende conto di esperimenti scientifici operati negli ultimi anni, talvolta anche con il ricorso al microscopio, su vegetali ed animali. In questo saggio si ritrova anche un elogio entusiastico di Descartes e Montesquieu dichiara di essere un “cartesiano rigido” e di seguire un modello rigoroso di meccanicismo secondo il quale la pianta meglio organizzata non sarebbe che “l’effetto semplice e facile del movimento generale della materia”.
Ma il 1721 non è solo l’anno delle esperienze naturali e scientifiche; è anche l’anno che consacra definitivamente la fama di Montesquieu con la pubblicazione delle Lettere persiane. Questo romanzo epistolare mostra Parigi e l’Europa con gli occhi straniati di due viaggiatori persiani, Usbek e Rica, partiti da Ispahan e giunti in Francia passando per l’Italia. Il loro sguardo distaccato permette a Montesquieu di descrivere senza pregiudizi i costumi, le abitudini e le leggi della società parigina di Luigi XIV e della Reggenza, di cui denuncia le convenzioni sociali, le rivalità confessionali e l’arbitrarietà delle istituzioni. Ma insieme alla presa di posizione contro il dispotismo Montesquieu espone anche la propria concezione cartesiana in ambito scientifico e avanza un’ipotesi deista nell’affrontare temi religiosi. Inoltre in alcune lettere relative al popolo dei Trogloditi (lettere 11-14) Montesquieu contesta l’ipotesi di Hobbes basata su una originaria malvagità dell’uomo e, nel rivendicare una naturale socievolezza, introduce quella polemica antihobbesiana che sarà una costante del suo pensiero. Inoltre in un nucleo di 11 lettere (lettere 112-122) analizza i nessi tra religione e demografia considerando storicamente l’influenza sulla società delle diverse credenze religiose e delle loro rispettive interdizioni (si pensi all’ammissibilità o meno del divorzio o al celibato del clero), mentre in altre due lettere (lettere 60 e 85) prende posizione a favore della tolleranza religiosa.
Il primo maggio del 1725 Montesquieu legge all’accademia di Bordeaux alcuni frammenti di un Trattato dei doveri, purtroppo andato perso ma di cui è possibile ricostruire il contenuto. Sull’esempio del De officiis di Cicerone, Montesquieu intende comporre un libro sui doveri nei quali rifiuta il fatalismo di Spinoza, ribadisce l’esistenza e la bontà di Dio e affronta la natura dei doveri entro i quali considera i rapporti con il prossimo e il ruolo della giustizia. La critica a Hobbes e a Spinoza si accompagna a un elogio del pensiero e della dottrina degli stoici; qui Montesquieu esprime un giudizio elogiativo che verrà poi ripreso ne Lo spirito delle leggi, là dove si afferma che “se per un momento potessi cessar di pensare che sono cristiano, non potrei fare a meno di mettere la distruzione della setta di Zenone nel numero delle disgrazie del genere umano” (XXIV, 10).
Nel 1728-29 Montesquieu intraprende un lungo viaggio che attraverso la Germania e l’Austria lo porta in Italia. Qui visita numerose città tra cui Venezia, Milano, Torino, Genova, Pisa, Firenze, Roma e Napoli e incontra personaggi di primo piano della cultura italiana quali Matteo Ripa – che fonderà pochi anni dopo a Napoli nel 1732 il Collegio dei Cinesi –, il filosofo e naturalista Antonio Conti o lo storico Ludovico Antonio Muratori, autore della monumentale opera Rerum Italicarum scriptores. Nel luglio del 1729 lascia Trento e l’Italia e dopo essere passato per Monaco, Hannover e Utrecht raggiunge Amsterdam e poi L’Aia. Da qui si imbarca a fine ottobre per l’Inghilterra dove soggiornerà per più di un anno fino ai primi mesi del 1731. L’incontro con la cultura e la società inglesi lasciano un segno profondo nella formazione politica di Montesquieu che in una pagina delle brevi Note sull’Inghilterra, che fanno parte della raccolta dei Viaggi – le annotazioni relative al Grand Tour europeo – afferma che “l’Inghilterra è al momento il paese più libero al mondo” a motivo dell’equilibrio dei poteri creatosi tra il re e il parlamento.
Di ritorno dall’Inghilterra Montesquieu si dedica a un’attività di studio e di elaborazione storico-politica. Pubblica infatti un breve trattato politico intitolato Riflessioni sulla monarchia universale in Europa (1734) nel quale analizza i tentativi di costruire uno Stato unico europeo dopo la caduta dell’Impero d’Occidente. Emergono qui alcuni temi che compariranno nelle opere successive quali la distinzione tra nazioni del nord e del sud, i cui diversi caratteri sarebbero l’effetto del clima, la differenza tra un governo basato sulle leggi e uno arbitrario, la condanna del dispotismo o il collegamento tra la natura di un governo e la sua estensione.
Nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734), l’opera più importante di questi anni, Montesquieu ricostruisce la storia romana evitando ogni visione provvidenzialistica alla Bossuet ed evidenziando il tema della causalità storica e quello dell’opposizione tra governo moderato e dispotismo. Montesquieu sposta ora sulla realtà storica e sociale quell’indagine delle cause che negli anni Venti aveva indirizzato in particolare al mondo fisico e all’ambito naturale. Si accosta quindi alla storia di Roma con l’attitudine dell’uomo di scienza che vuole comprendere i fenomeni politici e vuole analizzare le cause che ne hanno prodotto la “grandezza” e la “decadenza”.
Così nel capitolo 18 nega che sia la fortuna a dominare il mondo e afferma l’esistenza di “cause generali, sia morali sia fisiche” capaci di innalzare, mantenere o fare cadere ogni monarchia. Tutti i “fatti contingenti” sarebbero allora “subordinati a queste cause”, sì che una causa particolare, come una battaglia che fa crollare uno Stato, dipenderebbe dall’andamento generale che “reca con sé tutti i casi particolari”.
Dopo avere affermato la funzione insostituibile delle cause nell’indagine storica, Montesquieu viene poi a delineare uno “spirito generale” che agisce nella storia. Non si ritrova ancora in queste pagine quella definizione di “spirito generale” che comparirà solo nel libro XIX dell’opera maggiore, ma si enuncia comunque l’idea dell’esistenza di un carattere comune, presente in tutte le società, che risulta da diverse cause distinte e che contribuisce a determinare il funzionamento di uno Stato.
Dal 1734 Montesquieu si dedica interamente alla stesura de Lo spirito delle leggi, che esce a Ginevra nell’ottobre del 1748; l’opera, ristampata nel 1749 e nel 1750, sarà riedita postuma con alcune modifiche nel 1757.
In questi anni lavora anche a uno scritto rimasto incompiuto, il Saggio sulle cause che possono agire sugli spiriti e sui caratteri, dove si individua in ogni nazione l’influenza prodotta da cause fisiche – come il clima – e da cause morali – quali le leggi, la religione o i costumi. A lato dell’opera maggiore vanno ricordate anche le due importanti raccolte dei Pensieri e dello Spicilège, nelle quali si ritrovano appunti e considerazioni di varia natura che vedranno la luce solo alla metà del XX secolo (1950).
Alla pubblicazione de Lo spirito delle leggi fanno seguito attacchi sia da parte gesuita nei “Mémoires de Trévoux” (aprile 1749) sia da parte giansenista nelle “Nouvelles ecclésiastiques” (ottobre 1749); a queste critiche Montesquieu risponde con la Difesa dello “Spirito delle leggi” (1750), dove respinge le imputazioni di spinozismo e di deismo. L’opera è comunque messa all’Indice nel 1751.
Lo spirito delle leggi ha numerose edizioni e traduzioni nel corso del XVIII secolo. L’opera, ampiamente discussa e commentata nel Settecento, è oggetto anche dell’attenzione di Voltaire, che nel Commento sullo Spirito delle leggi (1777) rende omaggio al pensatore di Bordeaux pur avanzando non poche riserve critiche. Pensatori come Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri riconoscono il loro debito nei confronti di Montesquieu, il cui pensiero influenza la stessa costituzione americana. Nel corso del XIX secolo l’esigenza di estendere il metodo sperimentale allo studio della società riporta Lo spirito delle leggi al centro dell’indagine di quella “scuola sociologica” che con Auguste Comte e con Emile Durkheim ritrova in Montesquieu un “precursore” delle scienze sociali.
Nella “Prefazione” a Lo spirito delle Leggi, Montesquieu ricorda di avere esaminato “l’infinita varietà di leggi e di costumi” convinto che gli uomini non siano guidati dalle loro “fantasie” e che sia quindi possibile ritrovare delle leggi particolari dipendenti da altre leggi più generali.
L’opera, in XXXI libri, si apre con una teoria generale delle leggi che sono definite “i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose” (I, 1); in questo stesso primo libro si afferma poi che “la legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra” (I, 3).
Montesquieu non si propone comunque di scrivere un semplice trattato di giurisprudenza; nella sua ricerca delle leggi che governano la società egli è piuttosto interessato a esporre un metodo di analisi e per questo non vuole trattare delle leggi in quanto tali ma dello “spirito delle leggi” ovvero delle relazioni possibili che le leggi hanno con un complesso di fattori quali il carattere fisico di un Paese, la religione, la ricchezza o i costumi dei suoi abitanti. Si tratta allora di delineare quelle cause fisiche e morali la cui unione produce quello “spirito generale” che è diverso in ogni nazione in quanto in ognuna di esse le differenti cause agiscono con maggiore o minore forza. Secondo Montesquieu, allora, “molte cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi dell’antichità, i costumi, le usanze; se ne forma uno spirito generale che ne è il risultato” (XIX, 4). In tal modo lo spirito generale proprio a ogni nazione condiziona e limita i legislatori i quali devono adattarsi a questo spirito stesso che non può essere mutato.
Entro questo modello concretamente storico e fattuale, Montesquieu elabora una tipologia politica che consiste nell’individuare i tipi di governo che hanno ciascuno una propria natura, ovvero la loro specifica struttura, e un proprio principio, ovvero quell’insieme di elementi psicologici e sociali legati alle passioni umane, che li muovono e fanno agire. Si distinguono così tre specie di governo, quello repubblicano, quello monarchico e quello dispotico. Il primo tipo di governo è quello nel quale “tutto il popolo, o soltanto una parte del popolo, detiene il potere sovrano”, nel primo caso si ritrova una democrazia e nel secondo una aristocrazia; il secondo tipo di governo è quello “in cui governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse e stabilite”, mentre nel governo dispotico “uno solo, senza legge e senza regola, trascina tutto con la sua volontà e i suoi capricci” (II, 1). La repubblica democratica ha avuto degli esempi in Atene o in Roma, quella aristocratica in Venezia. La natura del governo monarchico ha invece bisogno di “poteri intermedi, subordinati e dipendenti” che presuppongono dei canali “per i quali scorre il potere”. Il potere monarchico deve allora essere limitato da quello dei corpi di mezzo quali la nobiltà, il clero o i parlamenti. Il governo dispotico, infine, in quanto basato sulla forza e il potere di una sola persona, si allontana da ogni diritto.
A ogni tipo di governo corrisponde un principio che lo fa agire; la virtù è il principio della repubblica democratica, mentre le repubbliche aristocratiche si fondano sulla moderazione; il principio del governo monarchico è invece l’onore e la paura è alla base del dispotismo. Ogni forma di governo ha poi una determinata legislazione politica, caratterizzata da specifiche leggi civili, penali, suntuarie o militari. Inoltre le forme di governo sono condizionate da elementi geografici o climatici: la repubblica può instaurarsi solo in Paesi di piccole dimensioni, la monarchia in Paesi di medie dimensioni come in Europa, mentre il dispotismo regna nei vasti imperi dell’Asia. Montesquieu mette in relazione nel libro XIV le leggi con “la natura del clima”; nei libri XV, XVI e XVII ricollega al clima le leggi della schiavitù civile, quelle della schiavitù domestica e quelle della schiavitù politica, per rapportare poi nel libro XVIII le leggi “con la natura del terreno”. In questa maniera elementi climatici, geografici e naturali contribuiscono a formare, al pari di quelli storici, l’insieme delle leggi che governano la società umana.
Ogni regime tende comunque a decadere o a corrompersi – in concomitanza con la corruzione del suo principio – e inclina verso il dispotismo che risulta il pericolo maggiore per ogni forma di governo. Parallelamente a questa teoria della decadenza Montesquieu elabora la propria concezione della libertà politica. Se la libertà “non consiste affatto nel fare ciò che si vuole”, ma è piuttosto “il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono” (XI, 3), essa non si incarna nella democrazia ma in quelle monarchie dove regna la moderazione politica. Il capitolo sesto del libro XI sulla costituzione inglese propone lo statuto giuridico della libertà del cittadino che si formalizza nella teoria della distinzione dei poteri; definisce inoltre i tre poteri dello Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. In accordo con l’esempio offerto dall’Inghilterra Montesquieu propone che questi tre poteri siano separati e attribuiti a tre organi differenti, seppure tra di loro legati. Questa limitazione costituzionale dei poteri risulta garante della libertà dei cittadini che sarebbe invece messa in pericolo dall’accumulo o dalla confusione dei poteri.
Montesquieu considera in due libri, il XXIV e il XXV, le relazioni tra le diverse religioni e lo Stato; così, pur criticando come assurdo e insostenibile l’ateismo - emblematicamente rappresentato da Bayle che afferma la possibilità di una società di atei (XXIV, 2 e XXIV 6) – egli mantiene nei confronti della religione un approccio storico e politico. Quest’ultima trova così spazio all’interno di un insieme di cause fisiche e morali ed è considerata come un fenomeno sociale che condiziona le forme di governo. Ma l’analisi del suo ruolo sociale lascia spazio anche a una esplicita difesa della tolleranza. Così si immagina che un recente auto-da-fè a Lisbona, dove viene bruciata viva una ragazza ebrea di diciotto anni, abbia prodotto un breve scritto nel quale il suo autore, anch’egli ebreo, denuncia l’assurdità e la crudeltà delle persecuzioni religiose (XXV, 13). Inoltre in un capitolo tanto breve quanto incisivo si condanna il tribunale dell’Inquisizione come “insopportabile in tutti i governi” (XXVI, 11). Le novità religiose sono comunque viste come un elemento destabilizzante per la politica; per questo Montesquieu enuncia questo principio fondamentale delle leggi politiche in ambito religioso, ovvero che “quando si è padroni di accogliere in uno Stato una nuova religione, o di non accoglierla, non bisogna stabilirvela; quando vi è stabilita, bisogna tollerarla” (XXV, 10).
Il grande tema che Montesquieu affronta ne Lo spirito delle leggi è allora quello dello statuto delle leggi stesse e dei loro rapporti nel tentativo non solo di presentare forme e tipi di costituzione ma anche di garantire una libertà politica basata sull’equilibrio e sulla divisione dei poteri. Si tratta di un equilibrio instabile che corre costantemente il pericolo di una ricaduta nel dispotismo, ma che va comunque perseguito per garantire la libertà dei cittadini.
Nello schierarsi a favore di una libertà politica opposta a ogni dispotismo Montesquieu pone comunque al centro della propria indagine le relazioni tra storia, politica e scienza della società e opera una ricerca di quelle diverse cause morali e fisiche, storiche e naturali, che determinano il costituirsi della società stessa.