MONTEFORTINO di Arcevia
Località delle Marche, a circa 40 km dalla costa adriatica, prossima al fiume Misa che congiunge Arcevia con Senigallia qui costituendo un porto-canale.
In questa località fu scoperto nel 1894-96 un sepolcreto con 47 tombe galliche, che può servire da punto di partenza per una caratterizzazione della presenza dei Galli nelle Marche.
La cronologia del sepolcreto di M. non è stata più precisamente definita; la si contiene generalmente tra le due date estreme della invasione dei Galli Senoni e della fondazione della colonia romana di Senigallia; la maggior parte dei materiali vengono attribuiti alla metà del IV-inizî del III sec. a. C.
Le tombe, a inumazione, contenevano in maggioranza deposizioni di individui maschili, caratterizzati da armature (corazza, elmo in bronzo, spade e lance in ferro). Caratteristica la scarsezza di fibule (solo 8 esemplari) tutte di tipo La Tène; tipica la presenza di torques in oro e in argento e di armille in vetro. Per il resto la suppellettile presenta oggetti di produzione àpula (corone di foglie e fiori in lamina d'oro; braccialetti serpentiformi; vasellame in bronzo) o etrusca (candelabro in bronzo, specchi). I vasi dipinti a figure rosse appaiono di produzione àpula scadente; in un caso attica.
Accanto a questo sepolcreto, vanno annoverati quelli di S. Paolina di Filottrano con 22 tombe (scavi 1911-1913), di S. Filippo di Osimo, con 12 tombe (scavi 1914-15), di Trivio di Serrasanquirico con 30 tombe (scavi 1957 e 1962) ed altri di minore entità, tra cui quelli di Vallicelli di Camerino, di Ponte S. Vito di Serrasanquirico, di S. Stefano e di S. Pietro di Moscio di Arcevia, di Montirolo di S. Vito sul Cesano, di S. Vitale di Cagli, di Piobbico ecc. Sono state scoperte, anche eccezionalmente sepolture isolate di carattere principesco, come quella di Moscano di Fabriano, venuta fortuitamente in luce, purtroppo già manomessa, nel 1957 e di quella già nota di Sanginesio, la cui celticità tuttavia non sembrava adeguatamente documentata.
I Galli nelle Marche. - Le fonti a nostra conoscenza intorno ai Galli nelle Marche sono di duplice natura: letterarie ed archeologiche. Dalle prime apprendiamo che delle varie tribù celtiche che invasero l'Italia, quella dei Galli Senoni, arrivata per ultima o meglio spintasi il più lontano dalle terre d'origine (come parrebbe debba interpretarsi il recentissimi advenarum di Livio), occupò il territorio situato tra i fiumi Utens (Montone) ed Aesis (Esino), tra Rimini ed Ancona (Liv., v, 35, 3). La data dell'insediamento non è precisata, ma si vorrebbe precedente piuttosto che successiva al sacco di Roma del 387 a. C., nel quale secondo la tradizione scritta appunto questa tribù avrebbe avuto parte predominante sotto la guida di Brenno (Diod. Sic., xiv, 113-117; Strabo, v, 212). Quanto all'attribuzione da parte dello Pseudo Scillace, di questo tratto del territorio adriatico agli Umbri anziché ai Galli, può spiegarsi con il fatto che il Periplo sia più antico di quanto comunemente si ritiene e che rispecchi, quindi, una situazione anteriore al IV sec. a. C.
Le fonti scritte ci dicono, inoltre, che i Senoni, collegati con i Sanniti e gli Etruschi, presero nel 395 a. C. le armi contro i Romani, i quali dopo aver subito una sconfitta nel territorio dei Camerti (per alcuni presso Chiusi, ma più fondatamente, per altri, presso Camerino) pochi giorni dopo si presero una netta rivincita nella sanguinosa battaglia di Sentinum, presso Sassoferrato (Polyb., II, 19, vii), nella quale avrebbero trovato la morte, secondo Duride di Samo, ben 100.000 Galli (Diod., xxi, 6). Nel 285 a. C. ebbe luogo, con la battaglia di Arezzo, la definitiva eliminazione dei Galli Senoni da parte dei Romani, che li scacciarono dalle loro sedi, ne confiscarono l'intero territorio, che prese il nome di ager gallicus; poco dopo fondarono (283 a. C.) sul mare la colonia di cittadini romani di Sena Gallica (Senigallia).
I dati archeologici, a loro volta, possono attingersi dagli abitati e dalle necropoli. Per i primi le informazioni in nostro possesso sono piuttosto vaghe non essendo stato fatto oggetto sin qui di scavi regolari alcun insediamento, nemmeno quello individuato recentemente sulle pendici di Montorso di Genga, sulla cui appartenenza ai Galli non pare debbano peraltro sussistere dubbî sia per la tipologia dei materiali raccolti sia per la sua stessa posizione topografica. Esso, infatti, viene a trovarsi nel cuore di quella zona compresa tra Fabriano ed Arcevia, che fu la più intensamente abitata dalle popolazioni celtiche e che era collegata con l'Adriatico mediante il fiume Misa alle cui foci, nel luogo dell'attuale Senigallia, era stato eretto un approdo naturale. Tracce di un altro insediamento gallico sono apparse, a quanto sembra, anche nelle vicinanze di Osimo, nel cui nome si suole appunto riconoscere un etimo celtico.
È, quindi, sui materiali restituiti dalle necropoli che si basa quasi esclusivamente la documentazione archeologica.
Le tombe, tutte ad inumazione, non presentano nulla di eccezionale dal punto di vista architettonico, consistendo in semplici fosse terragne, tutt'al più in qualche caso, speae nelle più ricche, con le pareti rivestite da ciottoli a secco. L'orientamento prevalente sembra essere E-O, con cranio ad E. Nei corredi rinvenuti, tra i materiali di produzione locale e di importazione o di imitazione greca ed etrusca si distinguono quelli di tipica fattura celtica, come le armi e qualche oggetto di ornamento e di uso domestico.
Tra le prime si notano le lance in ferro a larga foglia, talora lunghissime (sino a cm 70) e le spade spesso deposte nella tomba spezzate o ripiegate per rito, anch'esse in ferro con spalle oblique e lama con risalto mediano, il cui fodero terminante con puntale a semicerchio è generalmente a doppia lamina di ferro, solo eccezionalmente con la faccia superiore in bronzo decorata da motivi vegetali stilizzati.
Tra gli oggetti ornamentali vanno ricordate le fibule (invero assai rare) con l'appendice della staffa ripiegata all'indietro ma non saldata all'arco; le armille in tondino di vetro; i grani di collana ed i bottoni emisferici di pasta vitrea variegata; i gettoni in vetro bianco; i braccialetti di bronzo e di argento ripiegati a meandri curvilinei o con le estremità spiraliformi; nonché alcuni pezzi singoli, come l'anello d'argento a quattro spirali e quello aureo che reca sul castone incisi gli stessi motivi decorativi che ritroviamo su monete celtiche (grifo a sinistra, simboli del sole, mezzaluna ed una stella), ed i torques. Tra questi eccelle l'esemplare d'oro restituito da una tomba femminile di S. Paolina di Filottrano, costituito da una verga massiccia terminante in due specie di scudetti, con ornati curvilinei e litomorfi alle estremità del cerchio aperto.
Sempre di produzione celtica sono anche le cesoie di ferro, i coltellacci pure in ferro con dorso arcuato e lama ricurva e, se non altro per quel che concerne la decorazione, i bariletti cilindrici in legno con fasciature in lamina bronzea ornata da motivi geometrici e vegetali astratti, con protomi plastiche di anitielle o di muletti attorno all'imboccatura, nella parte superiore.
Esiste, poi, una categoria di oggetti che, presi in prestito da altre civiltà, furono così largamente adottati da queste popolazioni da divenirne caratteristici, come l'elmo di origine etrusca, a calotta emisferica, di bronzo o di ferro, sormontata da apice, con breve paranuca e paraguance mobili, sia triangolari, con tre grandi borchie a rilievo, che semilunate a doppia falce; alcuni esemplari in bronzo, con paraguance con borchie decorate da trecce e palmette incise, presentano sulla sommità un'appendice in ferro di varia forma per l'inserimento delle penne del cimiero.
Anche gli spiedi in ferro che, in fasci di sei sette ed anche otto pezzi infilati in una maniglia mobile a semicerchio e tenuti insieme da fasce trasversali, compaiono spesso in sepolture galliche in costante associazione con i coltellacci, rappresentano una trasposizione celtica di un oggetto usato in bronzo nei secoli precedenti dalle popolazioni locali.
Tra i vasi di produzione locale in terracotta grezza, quasi tutti eseguiti al tornio, si notano, tra l'altro, olle, pentoloni, anfore vinarie, brocche a bocca trilobata, rotonda o a corto becco d'anitra; piattelli a vernice nera su piede, talora umbelicati, con labbro in fuori, o parzialmente ornati da decorazione fitomorfa con labbro addirittura rovesciato; da ciotole a vernice nera a corpo lenticolare e stretta imboccatura circolare; da piattelli e ciotole su piede in argilla cenerognola; da vasi imitanti forme metalliche, come lo stàmnos.
La parte predominante del corredo nelle tombe più ricche è costituita, però, dagli oggetti di importazione, comprendenti bronzi, vasi a figure rosse ed ori.
Tra i primi sono frequenti tutti i principali prodotti della toreutica etrusca, dallo stàmnos, alla situla, al caccabus, al calice, al kỳathos, al caldaio, al colatoio, alla teglia, alla patera, alla brocca, al contenitore di sabbia, allo strigile, al tripode interamente in bronzo o limitatamente ai piedi, al candelabro, allo specchio.
Talora alcuni di essi sono resi più preziosi da una ricca ornamentazione incisa o plastica, come la situla troncoconica di Moscano con piedi leonini ed appliques con arpie a rilievo e ornati a treccia e palmette presso l'orlo ed il fondo; la teglia di Filottrano con doppi manici raffiguranti gruppi di guerrieri duellanti; o il candelabro sostenuto da figura femminile seminuda, con lungo il fusto un gatto che insegue un volatile, per citare alcuni dei pezzi più belli.
Quanto ai vasi a figure rosse, essi si riducono a pochi esemplari ricorrenti negli stessi tipi (cratere a campana ed a calice, lekànai, oinochòai e skỳphoi), di produzione attica e dell'Italia meridionale, generalmente di esecuzione piuttosto scadente.
Ma sono gli oggetti d'oro a caratterizzare in modo particolare con la loro abbondanza le tombe galliche, differenziandole dalle coeve della regione ove l'oro era stato anche in passato un metallo pressocché sconosciuto. A parte i pochi esemplari celtici sopra ricordati, gli altri sono tutti di fattura etrusca o àpula (Taranto?). Non sembra infatti poter attribuire all'arte gallica (come da qualcuno è stato sostenuto) le corone costituite da cespi sboccianti di fiorellini, boccioli, spirali, fogliette, in sottilissima lamina di oro. Probabilmente non è di fattura celtica nemmeno il torques a fune ritorta snodato in due pezzi terminanti da un lato in testa di serpe ripiegata a gancio e dall'altro in una specie di capitello che sorregge un gruppo di teste ferine, dalla tomba 8 di Montefortino.
Gli ori consistono essenzialmente in elementi di collana come grani sferici, pendagli piriformi, a ghianda ed a cuore, bulle bivalvi lenticolari, tutti in lamina d'oro decorata a sbalzo, con ornati fitoformi, o figurate; in braccialetti spiraliformi in lamina nastriforme con le estremità modellate a testa di serpe; in orecchini sia del tipo a cerchiello, come quelli da Montefortino a forma di cavallo alato, che a pendente con rosetta e piramidetta; in anern a verga, a nastro e tubolari con castone liscio o inciso e con pietra inserita, liscia o lavorata; in laminette di applicazione lavorate a sbalzo a forma di ape, di cicala, di fiore di loto ecc.
Al commercio mediterraneo appartengono, poi, insieme con alcune perle, i graziosi balsamari di vetro variegato e le minuscole brocchette di vetro piumato.
Con i dati a nostra disposizione è difficile riconoscere su quali basi era fondata l'economia dei Galli Senoni: se sul bottino e sul tributo o sul commercio e le prestazioni mercenarie. Parrebbe però certo, a giudicare dalla natura montagnosa del territorio dove generalmente si incontrano tracce della loro presenza, nonché dall'assoluta assenza di strumenti agricoli tra le suppellettili funebri, che l'agricoltura non abbia costituito presso di loro un'attività preminente. Dovette, comunque, essere quella dei Galli Senoni un'economia piuttosto fiorente, se permise loro di assimilare quel raffinato modo di vivere delle più evolute popolazioni italiche con cui erano venuti, direttamente o indirettamente, a contatto, al punto che se non fosse per la comparsa nelle necropoli di oggetti celtici, invero piuttosto rari nel complesso, né presenti in ogni tomba, riuscirebbe difficile se non impossibile distinguere le loro sepolture dalle coeve italico-etrusche.
Altro problema che i dati a nostra conoscenza lasciano senza risposta è quello cronologico. Infatti, tanto gli oggetti di fattura celtica ascrivibili, in base agli ornati eseguiti nello stile evoluto di Valdagesheim, alla fine della fase di La Tène B, quanto i vasi a figure rosse d'importazione databili all'ultimo venticinquennio del IV sec. inizî III sec. a. C., inducono a collocare le varie necropoli entro uno stesso ristretto spazio di tempo di poco precedente il termine della presenza celtica nelle Marche, almeno come entità autonoma.
Poiché, d'altra parte, le loro manifestazioni culturali non trovano diretto riscontro in quelle di alcun'altra tribù celtica dell'Italia centro-settentrionale, è necessario postulare un periodo di formazione più o meno lungo nello stesso territorio marchigiano, del quale tuttavia, almeno finora ci manca una qualsiasi documentazione archeologica.
Bibl.: E. Brizio, Il sepolcreto gallico di Montefortino presso Arcevia, in Mem. Acc. Lincei, IX, 1907; E. Baumgärtel, The gaulish necropolis of Filottrano in the Ancona Museum, in Journal Antr. Inst., Londra LXVII, 1937; G. Annibaldi, Fasti Arch., XI, 2842, Trivio di Serrasanquirico; id., in Arch. Anz., 1959, p. 187 (Moscano di Fabriano); V. Duhn, Kelten, in Ebert, Reallexikon d. Vorgesch., VI; Radtke, in Pauly-Wissowa, Suppl. IX, s. v. Kelten.