monolinguismo
Per monolinguismo si intende l’uso di un solo codice o varietà linguistica, e più specificamente nell’uso letterario di un unico registro stilistico o modulo espressivo omogeneo e selezionato da parte di un autore.
Va ascritta a un capitale saggio di Contini (1955) la definizione di due linee che attraversano l’intera tradizione letteraria italiana: il monolinguismo, che si individua nella poesia di ➔ Francesco Petrarca e che arriva almeno fino a ➔ Giacomo Leopardi, e, ad esso contrapposto, il plurilinguismo, che da ➔ Dante arriva fino a ➔ Carlo Emilio Gadda (➔ mistilinguismo). Contini parte dal dato di fatto che la nostra tradizione letteraria è più compartecipe della cultura petrarchesca, anche se la sensibilità moderna è più affine al temperamento linguistico dantesco.
Il plurilinguismo dantesco per Contini (1970: 171) non è solo uso concomitante di latino e volgare, ma soprattutto «poliglottia degli stili e […] dei generi letterarî» (prosa: epistolografia, trattatistica, narrativa e didascalica; poesia: lirica, tragica e comica).
Dante (stando all’usus che si evince dai codici più antichi della Commedia) partecipa in pieno dei tratti fonomorfologici e morfosintattici del fiorentino di fine Duecento-inizio Trecento, con un’apertura a forme non fiorentine attinte direttamente o per via letteraria: è il caso di settentrionalismi, come co «capo» (Inf. XX, 76; Inf. XXI, 64; Purg. III, 128), forme umbre (o toscane meridionali) ma letterarie come vonno «vogliono» (Par. XXVIII, 107), sicilianismi in specie fonomorfologici, dai rari casi di rima siciliana – che peraltro non sono sempre di facile attribuzione (➔ rima) – del tipo suso : sdegnoso : desideroso (Inf. X, 41-45) agli esiti monottongati di deven, core (che alterna con cuore, meno frequente; ➔ monottongo) o fenomeni di ascendenza letteraria come il condizionale in -ia («Trasumanar significar per verba / non si porìa»: Par. I, 70-71).
Più appariscente la compresenza di una «pluralità di strati lessicali» (che è anche ovviamente «pluralità di toni»; Contini 1970: 171): dai ➔ latinismi che connotano i canti ‘dottrinali’ e spesso i personaggi (così in Par. VI, il canto di Giustiniano: cirro negletto, tu labi, triunfaro, si cuba, baiulo, colubro : rubro : delubro, atra, margarita; cive, in Purg. XXXII, 101; Par. VIII, 116; Par. XXIV, 43) ai rari ➔ grecismi per lo più di derivazione patristica: perizoma (Inf. XXXI, 63), latria (Par. XXI, 111), tetragono (Par. XVII, 24) o ricostruiti erroneamente come il plurale entomata per entoma («poi siete quasi entomata in difetto»: Purg. X, 128); dai ➔ francesismi (peraltro diffusi) del tipo divisare (Purg. XXIX, 82), gaggi (Par. VI, 118), ostello (Purg. XVI, 76; Par. VIII, 129; Par. XV, 132; Par. XVII, 70; Par. XXI, 129), ai provenzalismi ricorrenti, del tipo dolzore (Par. XXX, 42), pareglio : speglio (Par. XXVI; 106-108), ploia (Par. XIV, 27; Par. XXIV, 91), fino al discorso in provenzale del «miglior fabbro del parlar materno», Arnaut Daniel: «Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan» (Purg. XXVI, 141-147).
Colpisce la connotazione sociolinguistica, in direzione del fiorentinismo più arcaico come quello di Cacciaguida (Par. XV; basterebbe citare, con Contini 1970: 172, piote) o popolare: allotta (Inf. V, 13; Inf. XXXI, 112; Inf. XXXIV, 7; Purg. III, 86; Purg. XX, 103; Purg. XXVII, 85), burlare («gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”», Inf. VII, 30) introcque (Inf. XX, 130, per il cui tasso di popolarità si veda in De vulgari eloquentia I, xiii, 1-2), manicare, paroffia, rubecchio, sirocchia, segnorso, o di una più generica toscanità ‘dialettale’ caratterizzante i personaggi, come issa «adesso» (Purg. XXIV, 55) per il lucchese Bonagiunta, vero blasone linguistico che si appaia al sardo donno «signore» (Inf. XXXIII, 28) e al bolognese sipa «sì» (Inf. XVIII, 58-61).
Il plurilinguismo si realizza anche come polimorfia morfologica del tipo diceva / dicea, vorrei / vorria, fero / feron / fenno, tacqui / tacetti, alternanza di forme toscane e latinismi, del tipo imagine / imago, lasciare / lassare, madre / matre, padre / patre, re / rege o concomitanza lessicale di toscano, latino, provenzale (con funzionalizzazione contestuale o metrica) del tipo specchio / speculo / speglio / miraglio.
Ancora Contini (1970: 172) parla di «sperimentalità incessante», verificabile in formazioni deverbali come cunta «indugio» (Purg. XXXI, 4), denominali come alleluliare (Purg. XXX, 15), verbi parasintetici e derivazioni prefissali del tipo appulcrare, indiarsi, ingigliare, ringavagnare, transumanare, voci formate con possessivi: immiare, inluiare, intuare, con numerali: intrearsi, incinquarsi, immillarsi, con avverbi: indovarsi, insusarsi, formazioni suffissali (neologismi danteschi) come pennelleggiare, torreggiare (➔ hapax).
Il plurilinguismo e lo sperimentalismo danteschi sono incomprensibili senza «il perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia» (Contini 1970: 320), l’interesse teoretico di Dante per il volgare, dalla Vita nova al Convivio al De vulgari eloquentia, alle riflessioni linguistiche sparse ovunque nella Commedia. Il De vulgari eloquentia definisce la poetica dantesca nell’ambito di una concezione generale della lingua, con l’intenzione di voler essere «un’enciclopedia degli stili (la Commedia lo sarà in atto), ed anzi dei livelli linguistici» (Mengaldo 1979: 4), dal volgare illustre italiano fino all’idioletto famigliare (I, xix, 3). Nei capitoli xi-xiv del I libro Dante insegue la decentiorem loquelam del volgare illustre, la forma più distinta e atta ai più alti obiettivi retorici e poetici, nell’investigazione delle quattordici varietà dialettali della Penisola, tutte di volta in volta escluse dall’identificazione con il vulgare latium illustre, sulla base di citazioni anche letterarie, che rappresentano la prima istituzione di una categoria di letteratura dialettale, nell’uso caricaturale e parodistico dei singoli vernacoli; una rassegna di letterature regionali, in cui elemento dominante è il gusto della deformazione parodistica degli idiomi più locali, una vera e propria linea di letteratura dialettale riflessa criticamente e storiograficamente ordinata, in cui è chiaramente fissata ab origine la tendenza al rusticale e al plurilingue.
La lingua dei Rerum vulgarium fragmenta è altrettanto sostanzialmente fiorentina ma – sviluppatasi per vicende biografiche e culturali fuori Firenze e limitata stilisticamente a un solo genere – di una fiorentinità «trascendentale» (Contini 1970: 175), lingua soltanto letteraria, e poetica in specie.
Petrarca è letterato sostanzialmente latino, che agli scritti latini intende affidare la costruzione e la perpetuazione della propria fama. Il nuovo rapporto con gli scrittori antichi, sulla base di una restituzione della lingua alla sua forma classica più limpida, è sostanziato di un’attività umanistica singolarmente precoce e precorritrice. Il latino è anche la lingua abituale della comunicazione e della riflessione in prosa (lingua internazionale della cultura al di sopra delle frammentazioni linguistiche nazionali e locali), anche sopra il proprio lavoro e il proprio esercizio poetico volgare: le didascalie e i margini dei suoi manoscritti abbondano di notazioni cronologiche, di commenti e autogiudizi del tipo «Dic aliter hic», «Hic placet», «Explicit. Sed nondum correcta est», «Proximior perfectioni». Per contro, al volgare è negata ogni finalità comunicativa o pratica, al punto che in prosa volgare ci è stata conservata solo la breve epistola a Leonardo Beccanugi.
La poesia petrarchesca si caratterizza per una scelta linguistica rigorosamente univoca sul piano lessicale, continuamente decantata dei tratti vernacoli o anche solo realistici o bassi, che esclude ogni sperimentalismo o l’idea stessa di momenti e fasi, con un incessante lavoro di correzione, lima, riduzione, riscrittura degli stessi testi.
Colpisce la sicurezza del proprio strumento linguistico, che, contrariamente a Dante, rifiuta ogni teorizzazione e ogni giustificazione delle proprie scelte. Un abbozzo di storia poetica, con una calibrata dichiarazione dei propri antecedenti volgari, in lingua di sì e d’oc, si trova invece in Triumphus Cupidinis IV, 28-57, in cui i capostipiti della schiera che «volgarmente ragiona» sono, da un lato, Dante, Cino da Pistoia e Guittone, con Guinizzelli e Cavalcanti, Onesto da Bologna, e «i ciciliani, / che fur già primi, e quivi eran da sezzo», Sennuccio del Bene e Francesco degli Albizi, dall’altro, «fra tutti il primo Arnaldo Daniello», con Peire Vidal e Peire Rogier, Arnaut de Maruelh, Raimbaut d’Aurenga e Raimbaut de Vaqueiras, Peire d’Alvernhe e Giraut de Bornelh, Folquet de Marselha, Jaufre Rudel, Guilhem de Cabestaing, Aimeric de Peguilhan, Bernart de Ventadorn, Uc de Saint Circ e Gaucelm Faidit. Queste coordinate culturali sono verificabili anche sul piano linguistico.
Effettivamente Petrarca si pone sulla linea dei Siciliani, già toscanizzati e per di più congiunti ai guittoniani nell’archetipo che li aveva diffusi nella penisola (➔ Scuola poetica siciliana), ma, di pari passo con la depurazione dai tratti più fiorentini, testimoniata dalle correzioni del tipo condotto in condutto, tien in ten, pensier in penser, elimina la rima siciliana (con l’eccezione di voi : altrui), stabilizza le rime per l’occhio di vocale aperta e chiusa ò : ó, è : é, depenna i gallicismi più vistosi, con «la spietata soppressione del suffissame transalpino, ad es., di -anza (resta la rimembranza ma sono espunte le tante allegranze e tardanze e vengianze)» (Contini 1970: 177), mentre acquistano stabile cittadinanza provenzalismi lessicali quali augello, dolzore, e morfologici come il condizionale in -ìa. L’equilibrata uniformità del Canzoniere, che passa attraverso una rigida selezione di «zelo antiespressionistico» che rimuove elementi riconoscibilmente stranieri solo in quanto troppo espressivi, non esclude un’accentuata polimorfia linguistica.
Anche le correzioni nel passaggio dal codice Vaticano Latino 3196 (il codice degli abbozzi) al 3195 testimoniano un processo non sistematico e non unidirezionale, come dimostra l’alternanza tra forme concorrenti fiorentine, di ascendenza siciliana, provenzale o latina del tipo fiero / fero (con una marcata, ma non assoluta predilezione per l’uso del monottongo), Dio / Deo, degno / digno, fuoco / foco, mondo / mundo, oro / auro, sempre però nella direzione di un costante rifiuto di forme troppo connotate, specialmente dell’uso, che Petrarca latinizza sia graficamente (colomna da colonna, damni da danni, scripto da scritto) sia foneticamente, come dimostra la correzione della preposizione toscana corrente di in de: da di mia morte a de mia morte (ma anche all’inverso di Stige da de Stige), o sacra da sagra, ma soprattutto le forme non rafforzate, del tipo agiunte, alegreza, che sono un cultismo desueto di tradizione poetica, tutte corrette dalla forma rafforzata (anche se non è escluso il percorso inverso: addolcire da adolcire).
Il lessico del Petrarca è intenzionalmente ristretto (le concordanze del Canzoniere registrano solo 3275 lemmi, ma, per es., di dolce si registrano 250 occorrenze, in combinazioni e serie ossimoriche che neutralizzano la pregnanza semantica e privilegiano quella allusiva): «se la lingua del Petrarca è la nostra, ciò accade perché egli si è chiuso in un giro di inevitabili oggetti eterni sottratti alla mutabilità della storia» (Contini 1970: 177). L’«evasività petrarchesca» impone l’indeterminatezza lessicale, il rifiuto di termini esotici (a eccezione dell’onomatopeico retentir del sonetto CCXIX; permangono quelli rari o fortemente espressivi in serie: m’unge et punge, lappole e stecchi, innarro : garro, nulla : trastulla, alba : inalba, tutte del sonetto CCXXIII e specialmente nelle rime responsive, dove la rima è obbligatoria: così, nel sonetto XXIV, Ethiopia : propia : inopia, sfavillo : tranquillo : stillo, o, nel XXXVIII, a rime caras, argoglio : doglio : scoglio), o delle coniazioni personali (forse solo disacerbare e inalbare). Sono invece più consueti i latinismi lessicali (per es., commisi, pondo, pave, agna, imago, che è della tradizione poetica), morfologici (del tipo arbor victoriosa) e sintattici (la costruzione di credere «fidarsi», l’ordine delle parole).
Vitale (1996), ha ridimensionato la portata del monolinguismo petrarchesco, evidenziando entro la monotonalità lirica una pluralità di stili (illustre, umile, comico, giocoso), quello che Contini (1970: 189) ha chiamato «poliglottismo minimale e classicistico». Petrarca «foggia un sistema stilistico di varia formazione, coerente all’antica tradizione cortese e provenzaleggiante e congruente con la più recente tradizione dantesca e stilnovistico-ciniana», non trascurando «un caposcuola come Guittone, erede e superatore dei siciliani, inviso a Dante quanto invece stimato dal Petrarca che ne subisce a suo modo l’influenza» (Vitale 1996: 13-14): si vedano lasciti come enchiostro, enfiamma, devere e forme toscano-orientali come fo, terza persona plurale femminile, lassarà, sie.
I Rerum vulgarium fragmenta assorbono tratti genericamente d’area linguistica settentrionale (del tipo fateza, adolcisse, terza persona presente indicativo, mi stesso), tratti medi e correnti della parlata toscana (del tipo famigliuola, ancidere, vegghio, forme verbali del tipo vuogli, seconda persona presente indicativo, vederete).
Fra le ascendenze puntuali c’è indubbiamente anche la recente tradizione stilnovistica, ma i lessemi più tipici, quando non siano scomparsi o risemantizzati, hanno perso ogni connotazione tecnica: segnali stilnovistici come gentile e honesta si confondono nella pluralità accumulatoria della sequenza aggettivale attribuita a Laura «gentile / santa, saggia, leggiadra, honesta et bella» (CCXLVII, 2-3). Forte è la presenza del Dante della Commedia ma soprattutto lirico (Trovato 1979), sia a livello di singoli lessemi o sintagmi minimi (da adugge a zelo, da al cor ristretta a le lagrime e i sospiri; da algente a verde, da luogo e tempo a «a te honore et a me fia salute»), sia a livello di sequenze complesse (del tipo «quanto è spinoso calle, / et quanto alpestra et dura la salita») o sistemi di rime (del tipo rabbia : scabbia : gabbia o bataglia : aguaglia : saglia; agro : flagro : magro o nulla : trastulla : culla).
Già nel 1332, nella sua Summa artis rythimici vulgaris dictaminis, Antonio da Tempo (1977: 99) poteva affermare:
Lingua tusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et ideo magis communis et intellegibilis («la lingua toscana è più adatta alle lettere rispetto alle altre lingue perché più comune e comprensibile»)
con precoce assunzione dei modelli toscani in area settentrionale, marcata però da profondi fenomeni di ibridismo.
La lingua dei Fragmenta, proprio perché svincolata dall’uso, antirealistica e astratta, assume una valenza modellizzante e si impone come canone della scrittura, oltre che poetico-letterario, dalla metà del Quattrocento: quando nel 1476 la Raccolta Aragonese laurenziana va ancora nella direzione del recupero dello stilnovismo, a Bologna nel 1472 è stampato il canzoniere petrarchista di Giusto de’ Conti La bella mano e nello stesso anno esce a Padova un’edizione Valdizocco di Petrarca di cui potrebbe essere curatore Niccolò Lelio Cosmico, che intitola il suo canzoniere Cosmici poetae excellentissimi rerum vulgarium fragmenta. L’appropriazione di un modello unificante impone l’uniformazione linguistica a livello letterario sul suo piano più elevato, quello lirico.
Del resto le correzioni che ➔ Pietro Bembo, pur basandosi sul codice Vaticano latino 3195, introduce alla sua edizione per Aldo Manuzio de Le cose volgari di Messer Francesco Petrarcha del 1501 vanno nella direzione di una normalizzazione e regolarizzazione linguistico-grammaticale (per es., con una predilezione per le elisioni del tipo come huom → com’huom o i troncamenti del tipo dolore → dolor, la riduzione delle grafie latineggianti, l’inserimento sistematico di h etimologica, la riduzione dei nessi cho, cha, gho, gha, la correzione di elli in egli, di meo in mio).
Ma non è operazione che proceda senza resistenze: ancora negli ultimi decenni del Quattrocento l’intromissione di forme dialettali è palese, per es., in uno scrittore come ➔ Matteo Maria Boiardo, non solo nell’Innamorato ma anche negli Amorum libri, che maggiormente si approssimano al toscano letterario: non a livello lessicale e sintattico (dove il fondo petrarchesco è appena rigato d’elementi dialettali) ma a quello più resistente fonomorfologico (per es., l’oscillazione tra scempiamenti e geminazioni, tra palatali e sibilanti).
La spinta decisiva all’assimilazione petrarchesca e conseguentemente a una più stabile omogeneità della lingua viene data dall’attività dei grammatici. Giovanni Francesco Fortunio dai Fragmenta – e dai Trionfi – arriva a dedurre una serie di Regole grammaticali, di cui si serve anche come criterio interpretativo e filologico e di cui con rigore analogistico cerca sempre la conferma nei suoi exempla, nell’unica preoccupazione di tutelare a oltranza non solo una norma petrarchesca ma una norma in assoluto. Ma sono soprattutto e definitivamente le Prose della volgar lingua di Bembo a dare la definizione poetico-retorica del Canzoniere e ad ancorare il canone della lingua letteraria nel rigoroso monolinguismo di Petrarca: «la stagione di un Petrarca non tradito, precisamente in concomitanza col Boccaccio (un Boccaccio ciceronizzato) è, cosa risaputa, il Cinquecento bembesco» (Contini 1970: 191).
Già l’aldina del 1501 (seguita di un anno da Le terze rime di Dante) presupponeva una cognizione delle regole del volgare. La genialità dell’intuizione di Bembo e Manuzio consiste nel carattere ‘divulgativo’ dell’operazione editoriale (sulla scia dei classici greci e latini corsivi) che con la diffusione del modello normativo (e ‘normalizzato’) dà un apporto risolutivo alla stabilità e uniformità della lingua. L’edizione delle Rime di Bembo nel 1530 (e anche quella delle Rime di Sannazaro, raccolte definitivamente con il titolo di Sonetti e canzoni nello stesso anno) sanziona l’assunzione del modello del Canzoniere nel codice linguistico e letterario italiano. E soprattutto è l’elemento decisivo per il passaggio della lingua poetica italiana a lingua nazionale.
Questo vale, al di là delle innovazioni formali secentesche, per tutta la poesia lirica, anche settecentesca, almeno fino a Leopardi: è di Quondam (1991: 21) l’immagine della tradizione letteraria italiana come un’autostrada transitabile dal ‘casello’ Petrarca al ‘casello’ Leopardi. Quella che Contini (1970: 192) ha chiamato «l’inattualità temporale dell’esperimento petrarchesco» si configura in anticipo straordinario «come soprattutto accadde, prodigioso quanto isolatissimo rinascimento, quando lo si vide riapparire, intatto dai secoli, virginalmente fresco, ancora nutritivo, nelle mani di Giacomo Leopardi».
Alighieri, Dante (1979), De vulgari eloquentia, in Id., Opere minori, a cura di P.V. Mengaldo et al., Milano - Napoli, Ricciardi, vol. 2º.
Da Tempo, Antonio (1977), Summa artis rithimici vulgaris dictaminis, edizione critica a cura di R. Andrews, Bologna, Commissione per i testi di lingua.
Petrarca, Francesco (1933-1942), Le Familiari, a cura di V. Rossi, Firenze, Sansoni, 4 voll.
Petrarca, Francesco (1964), Canzoniere, testo critico e introduzione di G. Contini; annotazioni di D. Ponchiroli, Torino, Einaudi.
Petrarca, Francesco (1976), Le Senili, a cura di G. Martellotti, trad. it. di G. Fracassetti, Torino, Einaudi.
Petrarca, Francesco (1988), Triumphi, a cura di M. Ariani, Milano, Mursia.
Contini, Gianfranco (1955), Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Contini 1970, pp. 169-192.
Contini, Gianfranco (1970), Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi.
Mengaldo, Pier Vincenzo (1979), Introduzione, in Alighieri, 1979, vol. 2º, pp. 3-17.
Quondam, Amedeo (1991), Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini.
Trovato, Paolo (1979), Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi nei “Rerum vulgarium fragmenta”, Firenze, Olschki.
Vitale, Maurizio (1996), La lingua del Canzoniere (“Rerum vulgarium fragmenta”) di Francesco Petrarca, Padova, Antenore.