Monete e comunicazione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le immagini monetali rappresentano a Roma un potente strumento comunicativo: la frequenza delle nuove emissioni, l’ampia circolazione e il controllo esercitato dal potere politico sulla scelta dei conî ne fanno un medium idoneo a diffondere l’immagine che l’autorità emittente vuole dare di sé. In età repubblicana i denari d’argento rappresentano, per i magistrati monetieri, un monumento alle memorie familiari, inserite nel quadro più ampio della storia di Stato; con l’avvento dell’Impero, la celebrazione delle glorie collettive lascerà il posto all’esaltazione delle conquiste e delle virtù personali del princeps.
In tutti i sistemi economici evoluti, la moneta è caratterizzata da segni identificativi che ne garantiscano il valore. Questi segni sono di norma immagini, spesso accompagnate da legende esplicative; la loro presenza fa della moneta uno strumento comunicativo di grande rilievo, mediante la quale l’autorità emittente mira a promuovere una certa immagine di sé. Ciò è vero soprattutto quando, come accade a Roma, le emissioni di nuove monete sono frequenti: durante la repubblica, infatti, il collegio dei triumviri monetales, responsabile dell’attività della zecca e della scelta dei nuovi tipi monetali, viene rinnovato ogni anno; in caso di particolari esigenze di liquidità anche altri magistrati (pretori, edili, questori) possono emettere moneta e lo stesso diritto viene concesso ai generali che detengano l’imperium militare onde pagare il salario alle truppe. Nel corso dell’età imperiale, poi, quando il principe assumerà su di sé il diritto esclusivo di emettere monete in metallo prezioso (oro e argento), ogni salita al trono o ogni grande avvenimento dell’impero sarà l’occasione per nuove emissioni. Tenendo conto che le monete di norma continuano a circolare a lungo dopo essere state emesse, il repertorio di immagini monetali contemporaneamente in circolazione è dunque elevato e costantemente aggiornato.
Qual è la reale efficacia comunicativa delle immagini monetali? Studi quantitativi sui rinvenimenti nelle città romane hanno dimostrato che, almeno per i nominali di minore valore intrinseco come l’asse in bronzo e le sue frazioni, le monete dovevano costituire l’ossatura degli scambi quotidiani e di conseguenza le immagini impresse su di esse godere di grande visibilità. Ma fino a che punto tali immagini erano decodificabili da tutti? Le effigi monetali, a causa della limitatezza del campo figurato, sono di fatto per loro natura estremamente sintetiche: non prevedendo alcuna possibilità di sviluppo narrativo, sono costruite per sommatoria di segni, ovvero mediante l’aggiunta all’immagine principale (detta tipo) di segni accessori che, come nell’enunciato linguistico, hanno funzione di attributo, ovvero ne qualificano il significato e ne garantiscono la coerenza concettuale. Il risultato è assimilabile alle imprese dei signori rinascimentali, veri e propri discorsi per immagini per lo più di natura politica, la cui decodificazione richiede una competenza culturale comune tra emittente e utente.
Prendiamo ad esempio un denario coniato da Galba nel corso del suo breve regno (69 d.C.). Al rovescio campeggia una figura femminile ispirata a tipi statuari ellenistici, ovvero il segno base utilizzato nella monetazione imperiale per personificare concetti astratti. La leggenda ci aiuta ad identificarla con LIBERTAS PVBLICA, ma anche per un pubblico non letterato essa doveva essere immediatamente associabile ad una condizione auspicabile che l’autorità emittente si vantava di aver realizzato o prometteva di realizzare. I suoi attributi ne specificano la natura: lo scettro che regge sul braccio sinistro rimanda alla sfera politica mentre più enigmatico appare l’oggetto conico che essa protende, con grande evidenza, con la mano destra. La competenza iconica di un utente medio gli avrebbe consentito di riconoscervi un pileus, ovvero il berretto di pelle indossato dagli schiavi liberati. Un lettore più avveduto vi avrà forse riconosciuto il simbolo della libertà politica, che aveva fatto il suo ingresso nel sistema segnico delle monete circa cento anni prima, quando Marco Giunio Bruto, il cesaricida, aveva fatto coniare un denario recante al rovescio un pileo tra due pugnali e la scritta EID. MAR (“alle Idi di marzo”). Del significato di questa immagine siamo sicuri grazie alla testimonianza dello storico Cassio Dione (Storia romana, 47.25.3): “Bruto incise sulle monete […] un pileo tra due pugnali, indicando con questi e con l’iscrizione che lui e Cassio avevano liberato la patria”. Attraverso le sue monete, Galba mira dunque a presentarsi come garante delle antiche istituzioni repubblicane dopo la morte del tiranno Nerone.
Il denario di Galba rappresenta uno di quei casi fortunati in cui diversi ordini di testimonianze contribuiscono a chiarire il significato dell’immagine; in linea di principio, comunque, dobbiamo supporre che gli utenti delle monete riconoscessero nel tondello coniato lo stesso codice simbolico che anche altri media (scultura, pittura, retorica verbale e comunicazione gestuale) contribuivano a diffondere.
Dopo una fase primitiva in cui i romani si avvalsero per i loro scambi di lingotti di metallo, intorno alla metà del III secolo a.C. lo stato emette la sua prima moneta portatile, l’asse in bronzo fuso del peso di una libbra (273 g.), contrassegnata con simboli standardizzati: sul lato che per convenzione viene definito diritto (d’ora in avanti D/) compare la testa di una delle divinità cittadine (per lo più Giano, ma anche Minerva, Ercole e Mercurio) mentre il rovescio (d’ora in poi R/) presenta stabilmente una prua di nave. Il legame dell’immagine con la funzione economica e commerciale della moneta è evidente, come evidente è la volontà, da parte di una città che si è appena conquistata un posto tra le potenze economiche del Mediterraneo, di esaltare il prestigio acquisito attraverso le vittorie su Pirro e su Cartagine.
Verso la fine del III secolo a.C., la zecca di Roma emette la sua prima moneta d’argento coniata, ovvero fabbricata mediante lavorazione a martello di un tondello di metallo malleabile posto tra due matrici: nasce così il denario, destinato a diventare la moneta cardine del sistema economico romano fino alla fine dell’impero. La scelta dei soggetti è riservata, previa approvazione del senato, ai triumviri (o tresviri) monetales, di solito scelti tra i giovani di estrazione senatoria all’inizio della carriera. I primi denarii, ancora anonimi, presentano una gamma ridotta di soggetti: la testa elmata della dea Roma al D/; al R/, i Dioscuri, i gemelli divini protettori del popolo in armi. Storia e leggenda, culti civici e glorie militari si fondono in una celebrazione solenne ma ancora impersonale della res publica.
Ben presto però i magistrati monetieri cominciano a contrassegnare le monete prima con le proprie iniziali e successivamente con il proprio nome per esteso. Contemporaneamente, i tipi dei denarii cessano di citare astrattamente la storia collettiva per celebrare le imprese degli antenati del magistrato in carica o le sue tradizioni familiari. Da questo momento le monete affiancano al loro ruolo di strumento economico quello di monumentum, ovvero di segno che vuole connotare colui che le emette come degno di memoria, per le proprie virtù o per le tradizioni familiari di cui è erede.
L’intento di autorappresentazione produce una grande varietà di soggetti: dalla rievocazione, di sapore annalistico, di eventi militari o di provvedimenti legislativi alla riscoperta di antiche leggende collegate alla storia di famiglia. La celebrazione degli antenati può avvenire, ad esempio, attraverso la riproduzione di un monumento legato alla loro memoria, documento per noi prezioso di edifici ormai scomparsi: nel 135 a.C. un denario coniato da Caio Minucio Augurino rappresenta la Colonna Minucia, eretta nel 439 a.C. fuori porta Trigemina in onore di L. Minucius per aver risolto, come prefetto dell’annona, una crisi alimentare.
Documento prezioso per gli storici dell’arte sono anche le effigi degli antenati sul D/ dei denarii, che integrano le poche testimonianze in nostro possesso sulla ritrattistica della media età repubblicana: essi rivelano un realismo fisionomico anche crudo, che indulge nella notazione dei segni della vecchiaia o della malattia, tanto da far pensare ad una loro derivazione dalle maschere funerarie di cera tratte dal volto dei defunti per essere esposte negli archivi di famiglia.
L’autocelebrazione del magistrato in carica è condotta, in ogni caso, in maniera indiretta, con un richiamo costante alla storia di Roma e senza riferimenti troppo espliciti al presente. Le cose cambiano negli anni finali della repubblica, quando le guerre civili fanno emergere un individualismo ormai senza freni: sulle monete compaiono per la prima volta allusioni ad eventi contemporanei e addirittura ritratti di personaggi viventi. Il primo a far incidere sulle monete un proprio ritratto di intenso realismo fu Cesare, un onore concessogli dal senato al ritorno dalla campagna di Spagna nel 44 a.C. e che gli attirò gli strali di Cicerone; ma Pompeo non fu da meno: un denario coniato da un suo sostenitore mostra al D/ un ritratto nelle cui fattezze si riconosce con facilità Pompeo affiancato dalla leggenda NEPTVNI (filius), “figlio di Nettuno”. Proiettata nell’agone politico, l’immagine monetale sostiene le rivendicazioni dei pompeiani attraverso il prestigio conseguito tramite le vittorie navali e lo speciale favore del dio dei mari. Al termine delle guerre civili, l’autocelebrazione attraverso una pretesa genealogia divina costituirà una legittimazione del potere assoluto che Ottaviano, poi divenuto Augusto, troverà già bella e pronta.
Dopo la vittoria ad Azio, Ottaviano riceve dal senato un’autorità illimitata sulle province e sull’esercito che comprende, tra l’altro, il diritto di battere moneta. Mentre le monete di bronzo continueranno ad essere emesse ex senato consulto (per decreto del senato), le emissioni in argento e oro diventeranno ora stabilmente prerogativa del princeps. Anche se, almeno nei primi anni di governo, le nuove emissioni continuano a recare il nome dei triumviri monetali, scompaiono dai rovesci i riferimenti alle gentes a cui essi appartengono a favore di una martellante campagna di informazione sui meriti del principe, il cui ritratto compare ora costantemente al D/ con tratti conformi ai modelli ufficiali noti dalla statuaria.
Sulle monete di Augusto l’esaltazione della persona del principe è inserita in una concezione provvidenzialistica della storia di Roma, di cui egli, come individuo d’eccezione, è chiamato a compiere i destini. È questo il senso, ad esempio, dei denarii che mostrano al R/ il capricorno che sostiene una cornucopia: il tema natale del principe, il cui titolo di AVGVSTVS compare nella legenda, si fonde al tema della prosperità di tutto l’universo dominato da Roma (la cornucopia).
Con i successori di Augusto e per tutti i primi tre secoli dell’impero i tipi monetali si moltiplicano a dismisura, non solo sulle monete in argento e oro, ma anche su quelle di bronzo che, benché emesse ancora formalmente per decreto del senato, riflettono le fluttuazioni dei rapporti tra quest’ultimo e il principe. Il ritratto dell’imperatore compare costantemente sul rovescio accompagnato dalla titolatura relativa all’anno di emissione: il titolo di pater patriae (P.P.) e di pontefice massimo (P.M.), l’indicazione della potestà tribunicia (TR. P.) o del consolato (COS.) seguite dalla cifra progressiva relativa alla iterazione della carica. Inizialmente limitato al solo princeps e ai successori designati, dagli Antonini in poi lo ius imaginis, ovvero il diritto di essere ritratti su monumenti ufficiali, viene esteso anche alle Auguste, la cui effigie compare sia al D/ sotto forma di busto o di testa sia al R/, spesso nelle vesti di personificazioni di concetti astratti come la Iustitia o la Concordia.
Nel 27 a.C. il senato aveva gratificato Augusto con la dedica del clipeus virtutis, uno scudo d’oro inciso che commemorava le nobili qualità del princeps; la pratica di celebrare indirettamente l’imperatore attraverso i princìpi etici astratti da lui professati nella sua azione di governo si estenderà ai rovesci delle monete già in età giulio-claudia. I successori di Augusto rappresenteranno le virtù come figure matronali, sedute o stanti, caratterizzate da attributi distintivi e dalla legenda che qualifica la virtù come Augusta, ovvero come dote personale del sovrano. Tra le più ricorrenti, quelle che rappresentano in termini generici il buon governo: Pax con il ramo d’olivo o il caduceo; Abundantia, la divinità benaugurante che riversa fiori e frutti dal corno di Amaltea; oppure Providentia, che regge una bacchetta puntata su un globo, simbolo del pensiero lungimirante del principe che mette al sicuro lo stato da rivolgimenti futuri.
Già nel primo secolo dell’impero la gamma delle virtù si arricchisce di figure che innalzano su un piano atemporale e astratto ben più prosaiche istituzioni e atti amministrativi: l’ANNONA AVGVSTA, ad esempio, rassicura la popolazione di Roma sulla regolarità dei rifornimenti alimentari e rappresenta, al tempo stesso, il nume tutelare dell’ufficio ad essi preposto e direttamente dipendente dall’imperatore. I suoi attributi alludono tanto alla consistenza e alla natura degli approvvigionamenti (la cornucopia, le spighe, il moggio per il grano, il timone) quanto alla regolarità delle operazioni di distribuzione del frumento agli aventi diritto (come la tessera attestante l’iscrizione nelle liste della plebs frumentaria).
Le virtù del principe si manifestano anche nelle elargizioni che egli, con atto di munificenza, offre al popolo e che le monete non mancano di registrare mediante soluzioni compositive analoghe a quelle che compaiono negli stessi anni sui rilievi imperiali: le monete di Traiano celebrano ad esempio l’imperatore che tende la mano destra verso due fanciulli sproporzionatamente piccoli al suo cospetto; la legenda ALIM(enta) ITAL(iae) pubblicizza l’istituzione di un fondo in denaro destinato a sovvenzionare ragazzi e ragazze bisognosi. Lo stesso Traiano si preoccupa di rendere noto mediante il mezzo monetale il completamento delle numerose infrastrutture di cui dota l’Italia, dall’ampliamento della Via Appia fino a Brindisi alla realizzazione del grande bacino portuale di Ostia.
Anche i successi militari hanno il loro spazio sulle monete; tuttavia la guerra con i suoi aspetti più crudeli è sottaciuta, a vantaggio di rappresentazioni sintetiche e simboliche del trionfo: le vittorie daciche di Traiano, ad esempio, vengono immortalate mediante tipi che mostrano la dea Vittoria mentre incide sullo scudo la memoria dell’evento o incorona il principe vittorioso. I vinti vengono rappresentati, in forma più impersonale, attraverso le personificazioni di popoli e regioni che rendono omaggio al vincitore, osannato come restitutor orbis, restauratore della pace e della prosperità nel mondo soggetto a Roma.
L’instabilità politica che diventa endemica dal III secolo in poi è forse alla base di un mutamento di atmosfera nella scelta dei soggetti monetali: i tipi e le legende sempre più di frequente rivelano l’intento di legittimare l’autorità del principe in carica presentandolo come un predestinato all’interno di un disegno divino che conduca l’universo alla pace e alla prosperità. Si moltiplicano ad esempio le effigi delle divinità cosmiche, come Sole e Luna, garanti del ciclico rinnovarsi del tempo e quindi della durata dell’impero. Parimenti le legende enunciano sempre più di frequente la AETERNITAS IMPERII; di fronte alle innegabili difficoltà nel mantenimento dei confini, anche una parziale vittoria o una momentanea ripresa economica viene salutata come una FELIX TEMPORVM REPARATIO, il ritorno ai bei tempi andati.
Verso la fine dell’impero la varietà dei tipi si riduce fortemente, mentre il disegno perde di realismo e si fa sempre più lineare. Ciò è da imputare ad una mutata concezione dell’autorità imperiale, che ha ormai stabilmente assunto una connotazione divina e pertanto non necessita più di legittimazioni né di un sostegno propagandistico. Dopo l’editto di Milano del 313, con il progressivo assurgere del cristianesimo a religione di stato, il cristogramma e la croce vengono assunti stabilmente tra i simboli del potere regale: di fronte al dilagare dei barbari ai confini, le zecche imperiali emettono monete su cui l’imperatore, armato di croce anziché di lancia, schiaccia un nemico prostrato o viene incoronato dalla Vittoria. Si tratta di successi effimeri: con Romolo Augustolo, non solo l’impero romano cesserà di esistere, ma anche la moneta scomparirà dalla storia dell’Europa occidentale almeno fino alla rinascita carolingia.