Monete e banche
Per gli aspetti di vita economica veneziana che seguiremo in queste pagine il Seicento è un secolo lungo che possiamo far principiare nel 1587, con l’apertura della prima banca pubblica veneziana. L’avvento della banca pubblica, sulle ceneri dei banchi privati che nella forma tipica del banco di scritta e con varia fortuna avevano operato nei tre secoli precedenti, costituisce uno dei tratti caratteristici del periodo. Si realizza col Banco della Piazza di Rialto, che svolge la sua attività dal 1587 al 1637; e più tardi col Banco Giro, in funzione dal 1619, con una struttura differente, che prolunga la sua attività fino alla caduta della Repubblica.
Lungo questo arco di tempo, del quale si può fissare la fine intorno al 1714-1715, con la sospensione della convertibilità della partita di banco — la sospensione cioè della convertibilità in moneta contante delle somme depositate nel Banco Giro —, le vicende della circolazione monetaria trovano le loro motivazioni di fondo nel calendario della produzione dei metalli preziosi americani e della loro distribuzione in Europa. Il quadro generale presenta una contrazione degli arrivi dall’ultimo decennio del Cinquecento, rapida per l’oro, che a metà del Seicento finisce col toccare livelli irrisori, molto più contenuta per l’argento, almeno fino al 1630, quando si ha una forte accelerazione della caduta. Dopo che nei decenni centrali del secolo il flusso sembra esaurirsi, nella seconda parte gli arrivi di metalli preziosi riprendono, ad un ritmo che le ricerche più recenti (1) mostrano molto sostenuto, a partire dal 1699 con l’aggiunta di carichi d’oro brasiliano, che modificano la proporzione con l’argento. Venezia non importa direttamente dalla Spagna, alla quale può offrire in cambio vetrami, conterie, biacca, carta, spesso trasportati con naviglio olandese o inglese, ma si rifornisce a Genova o a Livorno.
Le informazioni disponibili non permettono di precisare in termini quantitativi la quota assorbita da Venezia, né l’uso che ne fece — industriale, coniazioni, riesportazione. Un flusso certamente massiccio d’oro in forma di zecchini correva verso il mondo turco, spargendosi anche oltre, fino all’India e all’Arabia (2). Le testimonianze scritte sono fortemente lacunose e si hanno casi in cui si conservano monete delle quali manca ogni riscontro archivistico. L’impressione che dalla documentazione si ricava è quella di una circolazione dai difficili equilibri, molto aperta all’esterno. È un’epoca nella quale, più che in passato, i metalli monetari non viaggiano soltanto al servizio del commercio ma sono al centro di trasferimenti speculativi, senza contare la pratica, molto diffusa, della cernita dei pezzi migliori per l’accumulazione di riserve anche di modesta entità ma nel loro insieme di un certo rilievo nella composizione del circolante.
Per far fronte alle fasi di emergenza, eccezionalmente per prevenirle, la produzione legislativa fu intensa, per quanto in senato il partito di quelli che, o per fiducia nell’azione delle forze economiche o per semplice timore del nuovo, volevano lasciare le cose come stavano fosse abbastanza numeroso; e infatti alcune decisioni non riuscivano a raggiungere la maggioranza. Bisogna peraltro considerare che la politica monetaria doveva superare non pochi ostacoli di ordine tecnico che mettevano a dura prova la buona volontà dei consessi che la governavano: le informazioni su certi dati di base erano soltanto sommarie e per la loro utilizzazione si confidava soprattutto nell’esperienza, con modesti apporti di sapere teorico. Gli eventi venivano interpretati volentieri alla luce degli schemi mercantilistici correnti, per i quali le deficienze della circolazione si riconducevano essenzialmente alla scarsità di moneta (3), per cui non sempre è dato di intendere le realtà diagnosticate in questo modo; e accadeva che di certe patologie della circolazione, per esempio la pletora di monete calanti o estere di cattiva qualità, si dissertasse a lungo sui sintomi senza spingersi più a fondo nella ricerca delle cause (4). Ma gli interventi legislativi non erano del tutto inefficaci: nel 1603, tracciando il bilancio delle disposizioni emanate l’anno prima, per sanare, come vedremo più avanti, una situazione di monete arrivate ad un «colmo di disordine», le autorità monetarie potevano constatare che erano stati ritirati dalla circolazione pezzi d’oro e d’argento scarsi di peso per 800 mila ducati ed emesso oro per 700 mila ducati e argento per 300 mila e più (5).
Caratterizzano la storia monetaria del periodo i ripetuti tentativi di dar corpo, rendendola effettiva, alla moneta di conto da sei lire e quattro soldi, il ducato ideale o immaginario, secondo le locuzioni in uso. In oro la sua coniazione venne deliberata nel 1608, ma con poco successo, perché si esaurì in un’emissione per 50 mila ducati (6). In argento invece fu realizzato due volte, nel 1588 e nel 1665, con peso e con titolo inferiori, una riduzione di contenuto fino che è l’espressione di un processo di svalutazione che si prolungò fino al 1733, quando al ducato del tipo del 1665 venne assegnato il corso ufficiale di otto lire.
Su questi eventi ebbero il loro peso la guerra di Candia e quella di Morea, con i problemi finanziari che comportarono: erano profonde le piaghe, leggiamo in una relazione del 1712, che avevano «lasciato impresse nel pubblico erario, per haver redotta la pubblica economia ad uno stato molto infelice e calamitoso» (7). E certi episodi vanno letti anche con attenzione al clima congiunturale europeo, con la svolta del 1619-1622 e il capovolgimento di tendenza da una fase di espansione economica che aveva preso le mosse alla fine del Quattrocento ad una di ristagno che si prolungherà fino a Settecento avanzato (8). La guerra dei Trent’anni, con la perdita del mercato tedesco, aggrava una fase depressiva che a Venezia si apre nel primo decennio del secolo (9).
Sono emergenze nelle quali non si dovrà cercare una pronta, e talvolta troppo facile, spiegazione dei fatti di storia della moneta e della banca ma delle quali bisognerà in ogni caso tener conto, come fanno del resto le stesse autorità monetarie, che nel 1632 attribuiscono le difficoltà del momento agli effetti della peste sulle attività commerciali e alle spese della difesa in considerazione delle minacciose concentrazioni di eserciti ai confini d’Italia (10).
Né questi fatti si dovranno iscrivere in un contesto di crisi che con la perdita dell’egemonia commerciale marittima non avrebbe risparmiato nessun settore dell’economia. Certamente Venezia non era quella dei secoli precedenti, e soprattutto era cambiata la sua posizione nel quadro internazionale, ma la vita urbana manteneva una grande vitalità, e non solo in quei segni esteriori di ricchezza e d’abbondanza di tutto che colpivano i viaggiatori. Senza discutere sul contenuto e sull’applicabilità delle varie formule di declino o altro e sui loro indicatori più eloquenti, sembra invece che rappresenti meglio la realtà una stabilità sostanziale o quanto meno un lento processo di indebolimento del quadro economico generale, con la contrazione variamente accentuata di certe attività che per essere tra le tradizionali sono quelle che danno maggiormente il senso di una caduta. Al quale contribuisce anche la tenacia con cui si volle tenere in vita una struttura divenuta ormai arcaica.
Comunque, se di caduta si tratta non fu a picco. Il tenore di vita non appare certamente scaduto, e può essere significativo che nel 1660 una popolazione di 120.000-130.000 abitanti fosse servita da 222 maestri sarti, assistiti da 327 lavoranti e garzoni, e da 226 maestri barbieri, con 232 lavoranti e garzoni (11). Se le conclusioni che il Beltrami trae dai dati raccolti sulla composizione economica e professionale e sulla distribuzione delle fortune non sono troppo ottimistiche, un buon terzo della popolazione «si divideva fra coloro che erano in agiate condizioni o che disponevano di notevoli e grandissime fortune» (12). Tuttavia tenendo ben presente, ai margini della concentrazione della ricchezza, la coesistenza di vaste fasce di indigenza — come nella denuncia di una relazione del 1608 — in una «piazza tanto battuta et danneggiata dalla necessità di così numeroso popolo, tanto ozioso per non trovar quasi più modo di vivere» (13).
La città costituiva un mercato di notevoli dimensioni, con larghe disponibilità monetarie anche per il massiccio flusso di rendite. I capitali che ormai non trovavano impiego nel commercio marittimo venivano investiti nell’acquisto di terre o nel debito pubblico. Dalla metà del Cinquecento ingenti somme erano destinate a lavori di bonifica ma a partire dal secondo decennio del Seicento questa grande opera di valorizzazione del patrimonio fondiario in Terraferma s’arrestò, seguendo la tendenza all’abbandono di certe forme d’investimento produttivo per passare a posizioni di rendita (14). È il momento nel quale i capitali veneziani cominciano ad essere dirottati verso i cambi in fiera. Nel 1608 siamo ancora agli inizi e nel 1623, quando il patto di ricorsa è già largamente diffuso, sono soprattutto i mercanti fiorentini a praticarlo sulla piazza, mentre «è la manco parte quella di mercanti sudditi», ma verso il 1630 sono molti i Veneziani che vi sono interessati, «mercanti, nobili, cittadini et commissarii» (cioè esecutori testamentari). Nel 1611, secondo stima dei cinque savi alla mercanzia, il denaro investito nei cambi aveva già raggiunto il valore di tre milioni d’oro per fiera (15). Dalle autorità governative il loro movimento — a parte le riserve morali su operazioni delle quali era manifesto il carattere eminentemente speculativo, senza nessun contributo al bene comune — veniva assunto come indice di floridezza della piazza, come nel 1625, quando si stimò che fosse sceso ad un quinto del livello abituale per effetto degli investimenti nel debito pubblico e per le diminuite disponibilità patrimoniali. Altri capitali — ma in quantità minore perché l’operazione assicurava modesti margini di guadagno, inoltre non era priva di rischio — confluivano nei cambi di arbitrio, cioè negli arbitraggi, con l’acquisto di denaro su una piazza e la vendita su un’altra (16).
La banca pubblica e la Zecca veneziana godono di grande prestigio in questo periodo. Il Banco Giro diventa modello per le istituzioni bancarie di vari paesi, godendo di «un’aureola di perfezione» forse non del tutto giustificata, almeno secondo il Ferrara, che l’attribuisce alla segretezza con la quale venivano trattati i suoi affari (17). La Zecca la sua fama la deve allo zecchino, il ducato d’oro che dal 1285 conserva praticamente intatti il suo peso e la sua purezza imparagonabile. Era la moneta del grande commercio internazionale, dei pagamenti in oro e il conio veneziano le assicurava una sopravvalutazione rispetto all’intrinseco (18). Per questo le sue emissioni superavano largamente il quadro locale e potevano condizionare la circolazione interna soprattutto in quanto il pagamento delle paste era molte volte compiuto parzialmente in moneta di banco o in moneta d’argento, così come non era infrequente il caso in cui alla presentazione di paste d’argento si richiedesse in pagamento una quota in zecchini. Per esempio dal 1687 al 1718 la Zecca comprò l’oro pagandolo metà in zecchini metà in ducati d’argento; più tardi, fino al 1722, gli acquisti di paste d’oro vennero subordinati alla consegna di una certa quantità di paste d’argento, con pagamento in zecchini, ducati, partita di banco in varia proporzione (19). Si aggiunga che gli ordini di coniazione davano molto peso alla quota di signoraggio realizzabile. La lettura dei dati sulle emissioni nasconde dunque delle insidie delle quali si dovrà tener conto alla luce di queste considerazioni.
Per le caratteristiche accennate lo zecchino assumeva il carattere di una vera e propria merce, che nelle esportazioni da Venezia faceva concorrenza ai panni di lana e alle altre produzioni locali per cui, come si vedrà, dal 1670 al 1676 a beneficio loro ne fu sospesa la coniazione, in verità con risultati che tradirono le aspettative dei gruppi che avevano chiesto il provvedimento (20). La moneta, infatti, come leggiamo in una deliberazione del senato del 1602, era emessa dalla Zecca «per comodo così del spender come del navigar et per servizio del negozio» (21).
La banca pubblica che cominciò a funzionare nel 1587 col nome di Banco della Piazza di Rialto aveva sostanzialmente la stessa struttura dei soppressi e concordemente condannati banchi privati (22), cioè era una banca che custodiva il denaro depositato e operava trasferimenti da un conto all’altro mediante semplici annotazioni contabili alle quali si dava il nome di scritta. Era dunque un banco di deposito, che permetteva di costituire delle riserve e di fare dei pagamenti senza bisogno di contare materialmente grosse quantità di specie monetarie di varia qualità. Il nuovo, che non era da poco, era rappresentato dalla gestione statale, che costituiva la garanzia forse migliore contro le crisi di liquidità e i fallimenti che avevano segnato le vicende di tanti banchi privati del passato, ultimo quello Pisani e Tiepolo che nel 1584 era fallito per un milione e 400 mila ducati.
La scelta della gestione statale era stata vivacemente contrastata, opponendosi che lo Stato doveva limitarsi alle sue funzioni di «governar popoli et di maneggiar la guerra», senza invadere l’area riservata ai privati. Perciò una prima istituzione, nel 1584, era stata revocata dopo qualche mese perché non aveva dato buona prova, e anche dopo la definitiva apertura pervennero alle autorità statali, che le respinsero, alcune proposte di avviamento di altri banchi privati variamente motivate.
Gli argomenti a favore o contro la gestione pubblica sono esposti con mirabile chiarezza da Tommaso Contarini per la trattazione in senato (23). Ma ciò che non fu mai oggetto di discussione era la necessità di un banco, in una città come Venezia, pubblico o privato che fosse. Nel periodo in cui non ne operava alcuno, gli anni che precedettero la definitiva apertura di quello pubblico, i mercanti della piazza fecero sapere che, purché ne fosse entrato in funzione uno, avrebbero accettato che ne avesse assunto l’esercizio un privato anche se non fosse stato in grado di presentare una lista di garanti, che era come dire che i vantaggi che un banco presentava compensavano persino il rischio di un suo fallimento (24). Lo stesso senato dovette riconoscere che la mancanza di un banco aveva provocato nella piazza «disturbi, disordini e confusioni» (25).
Il sistema adottato non fu la gestione diretta da parte dello Stato ma l’affidamento ad un banchiere scelto tra i diversi aspiranti e retribuito. Può sorprendere che un ufficio così importante e prestigioso non fosse formalmente riservato ad un nobile, come di fatto fu. Alla prima votazione in senato quattro dei cinque candidati erano nobili ma qualche voto ebbe anche Costantino del Cortivo, che pure alcuni mesi prima s’era visto respingere la proposta di aprire un banco privato, in quanto non appariva della qualità desiderata dai mercanti della piazza (26). Apparentemente alla scelta non doveva essere estranea una qualche preparazione tecnica se nel 1590 uno degli aspiranti, Leonardo Loredan, allegò di essere già da molti anni esperto nella tenuta dei conti in partita doppia, appresa da un ragionato ducale; esperto in partita doppia si qualificò anche Piero Morosini, e Girolamo e Paolo Dandolo si dichiararono pratici di mercatura, un’arte sempre esercitata dalla loro famiglia (27).
Nella lista dei governatori del Banco che si può tracciare — con qualche lacuna (1606-1607, 1610-1613) — dal 1587 al 1622 figurano solo nobili; i cognomi che ricorrono sono quelli dei Contarini (1593, 1597, 1614), Loredan (1609, 1615), Morosini (1601, 1619), mentre tutti gli altri sono nominati una volta sola (28). Sembra che la carica non fosse particolarmente appetita, specie dopo che a partire dal 1597 era divenuta triennale invece che annuale come era stata inizialmente. Man mano che si procede nel tempo la sua importanza diminuisce, in relazione alla posizione sempre più marginale che il Banco della Piazza riveste nel quadro economico della città. E molte volte l’ufficio viene considerato gravoso per il servizio assiduo che richiedeva, il notevole impegno, il rischio di frodi delle quali bisognava rispondere, più le spese straordinarie. Inoltre bisognava trovare garanzia per 25.000 ducati. Di regola quelli che la prestano sono tutti o quasi tutti nobili, spesso con larga partecipazione della famiglia. Fa eccezione Dionisio Contarini, per il quale nel 1593 risponde per 41.000 ducati un gruppo di mercanti dei più qualificati della piazza, tra i quali troviamo gli Strozzi, i Baglioni, Guglielmo Helman, Bartolomeo Bontempelli, Girolamo Cucina, lo stampatore Lucantonio Giunta (29).
Con Dionisio Contarini ci fu un tentativo di dar corso a una gestione più rispondente alle necessità della piazza, suggerita presumibilmente dai mercanti che avevano sollecitato e sostenuto la sua candidatura e che gli avevano peraltro prestato garanzia in misura largamente superiore alla somma prescritta, forse per evitare apprensioni. Forzando quelle che il legislatore riteneva le buone regole, s’introdusse la pratica di compiere i pagamenti assegnando ai creditori un proprio debitore, «et quello ne assegna un altro et così di mano in mano», pur con la possibile conseguenza che chi avesse avuto bisogno di riscuotere doveva passare «con infiniti riseghi per 15 e 20 mani», e il pagamento gli veniva fatto con la moneta e al prezzo che voleva il debitore. Con questo «giro» si cercava di sopperire alla scarsità di moneta metallica, sostituendola con partita di banco, e molti se ne valevano con grande profitto per finanziare operazioni di cambio in fiera.
È singolare che non molti anni prima, nel 1584, questa pratica fosse stata lodata da Tommaso Contarini nel suo discorso a favore del banco pubblico, lodata come familiare alle due grandi città commerciali che potevano essere paragonate a Venezia, le sole, Lione ed Anversa: qui, senza bisogno di notaio o di una pubblica autorità, si regolavano i conti assegnando al creditore un altro debitore e questi a sua volta un altro, e così via finché non se ne trovasse uno che sborsava il denaro. A Venezia questo non sarebbe stato possibile — lamentava il Contarini — per il grande concorso di mercanti dei più diversi paesi, con tanta varietà di lingue e di costumi che non c’era da aspettarsi che per questi aggiustamenti di conti fosse sufficiente «la fede privata» (30).
Il senato vietò in modo tassativo la continuazione dei «giri» di questa specie, che di fatto comportavano il corso forzoso della partita di banco: deplorevole, sottolinea il Lattes, «avvegnaché rispetto alla perversa monetazione di quei tempi altamente benefico». La politica bancaria restò rigidamente subordinata al principio che funzione dell’istituto fosse quella di «esser cassier di tutti i danari dela piazza, per custodirli simplicemente», con esclusione del credito e dell’espansione di moneta bancaria oltre la consistenza delle riserve metalliche. Nessun margine era dunque concesso alla circolazione fiduciaria reclamata dalla piazza, che rappresentava la strada nuova da percorrere. Le autorità governative continuarono a considerarla un fatto patologico. Quelle che nel 1597 furono chiamate ad esprimere il loro parere ribadirono che il servizio che un banco offriva ai mercanti era la «comodità del giro della scrittura», non quello del credito (31).
Ma situazioni analoghe segnano un po’ in tutt’Europa le crisi che s’accompagnarono all’affermarsi della banca moderna. Non molti anni dopo che la pratica del giro era stata condannata a Venezia, è a Middelburgo, nell’Olanda in fase d’espansione, che le autorità cittadine lamentano come da qualche tempo per saldare i debiti si usino, invece di denaro, cambiali, obbligazioni, assegnazioni, e che queste assegnazioni passino talvolta nelle mani di sette, otto persone e anche più (32).
Esaurito il suo ufficio di governatore del banco pubblico, Dionisio Contarini chiese l’autorizzazione ad aprirne uno privato, che avrebbe accelerato la spedizione degli affari e facilitato i rapporti con le piazze estere. Offriva garanzie per 200 mila ducati e s’impegnava a presentare alla Zecca una certa quantità d’oro e d’argento. La sua partita avrebbe circolato a carattere fiduciario, dunque con facoltà di non accettarla in pagamento. In senato la proposta non passò, nonostante i molti voti favorevoli (33). Da questo momento — siamo nel 1597 — non si parla più di banchi privati, in concorrenza o in aggiunta a quello pubblico, che continua ad operare in condizioni di monopolio.
Il Banco era al servizio delle operazioni commerciali. In particolare, dal 1593 vi fu obbligato il pagamento delle lettere di cambio, assegnando un termine di tre giorni per il protesto, ciò per chiudere la strada alle moltiplicazioni delle girate alle quali si è accennato (34) e con una deliberazione del 1605, ribadita due anni dopo, il senato ordinò di compiere in partita di banco tutti i pagamenti commerciali d’importo superiore ai cento ducati. La disposizione non mirava tanto a sostenere il valore della partita allargandone l’area d’impiego, quanto ad evitare che venisse assorbita dalle operazioni speculative di cambio, il «traffico delle valute» più volte condannato (35). Già nel 1602 si era vietato di «scriver in banco per altrettanti e per resto», dove il Banco veniva chiamato a fungere da stanza di compensazione dei reciproci debiti e crediti in fiera, ma non era difficile evadere l’obbligo che veniva imposto di motivare la causa di ogni operazione del genere. Ora, nel 1605, si vietavano le girate a titolo di «restituzione di imprestito», che in realtà servivano a speculare sulle variazioni dell’aggio della partita rispetto al contante (36).
Bisogna dire che non è facile intuire dalle generiche indicazioni dei dettati normativi la tecnica di tali speculazioni, compiute mediante l’incetta di valute, che aveva per effetto l’aumento dell’aggio e la convenienza a tosare le monete d’oro. Altre speculazioni dello stesso ordine e probabilmente collegate a queste erano possibili con l’impiego di moneta bassa, che era anch’essa ricevuta dal Banco.
Qualche dato quantitativo: nel 1603 dal 24 maggio all’8 agosto furono registrati nello speciale giornale tenuto dal Banco cambi per 2.979.090 ducati (37). Era vero, come leggiamo in una scrittura dei mercanti dello stesso anno, che «in tutta Italia e forse in Europa non si trova altra piazza più comoda a mercanti per haver danaro di cambio e per pagar debiti de cambij che vengono da qual si sia parte del mondo e dove concorri più i debiti e i crediti di tutti li mercanti di questa città» (38).
Certamente concorrevano nell’apertura di depositi anche soggetti diversi dai mercanti, magari per la semplice custodia del denaro, ma la loro quota doveva essere marginale. Lo Stato non si serviva del Banco se non eccezionalmente per operazioni di tesoreria, e le poche volte che fu costretto ad attingervi non tardò molto a restituire la somma prelevata. Per queste necessità preferiva ricorrere ad aperture di «giri» che davano ai fornitori o ad altri che ne avessero titolo la possibilità di utilizzare immediatamente il loro credito trasferendolo ad altri con pieno potere liberatorio. Materialmente si istituiva un libro nel quale si registravano i crediti iniziali e le successive girate. Uno ne aprì nel gennaio 1597 la Zecca per soddisfare i presentatori di paste monetabili, in mancanza di zecchini (39). S’intende che non appena possibile il debito veniva saldato e il «giro» chiuso.
Era un espediente al quale si era fatto molte volte ricorso in passato e che nel 1607 venne rinnovato per la fornitura di grosse partite di cereali. Questo Banco del Giro delle Biave fu chiuso nel 1614, quando il debito s’era ormai ridotto ad un quarto di quello iniziale perché nei limiti delle disponibilità finanziarie lo Stato ne curava l’ammortamento. La rimanenza fu accollata al Banco della Piazza, con la garanzia della somma corrispondente in moneta metallica riposta in uno scrigno della Zecca (40).
La funzione che il banco pubblico non riuscì ad assolvere fu proprio quella di regolatore monetario per la quale era stato istituito. La svolse con successo inizialmente ma ben presto fu costretto a deporre le armi. Nelle condizioni della circolazione monetaria non ci si poteva aspettare e tanto meno pretendere che compisse le sue operazioni in buona specie monetarie e solo del tipo ammesso nelle casse pubbliche. È vero che il movimento di cassa aveva per base il valore a marco, vale a dire la valutazione dei singoli pezzi secondo il peso effettivo controllato, ma di fatto non si poteva fare a meno di accettare e di dispensare le monete della qualità che circolava a Venezia, così non tardò molto che al Banco venisse attribuita, forse meno a ragione che a torto, la colpa di inquinare la circolazione con la moneta che utilizzava nei pagamenti. Ad esempio era frequente il caso che liquidasse delle somme servendosi di monete condizionate in sacchetti; se erano di peso scarso ne pareggiava il valore con una giunta, ma non aveva alcuno strumento per controllare in che modo venissero spese.
Tali iniziative comunque rappresentavano un’iniezione di moneta cattiva, con le conseguenze immaginabili. Nel 1608 il senato vietò che si spacciassero monete scarse con la giunta e dispose che le giacenze nelle casse del Banco fossero trasferite alla Zecca per essere ristampate. Intanto, però, tollerava che per altri due mesi le casse pubbliche accettassero in pagamento anche moneta scarsa di peso (41). Come avrebbe potuto fare altrimenti senza sospendere il flusso delle entrate tributarie?
Il cattivo stato della circolazione monetaria ricorre così spesso nella documentazione che si ha l’impressione che il secolo non abbia conosciuto periodi favorevoli. Un quadro fosco è tracciato all’inizio dalle Historie di Nicolò Contarini (42), col «negotio delle monete ridotte in tante angustie, onde non v’era chi sapesse né quanta quantità né quale qualità d’oro e d’argento spendeva o riceveva, perché li danari buoni erano overo portati fuori dallo Stato overo mutilati». Le monete veneziane d’oro e d’argento emigravano per esser vantaggiosamente rifuse dalle zecche estere, e in cambio Venezia e tutto il territorio nazionale erano invasi da moneta straniera adulterata e della peggiore qualità. Il futuro doge, ora storiografo della Repubblica, ne ricerca le cause in una partita di biglione pontificio acquistato apparentemente a buone condizioni dalla Zecca e trasformato in una quantità enorme di monete piccole, quattrini d’argento di bassa lega, largamente superiore al fabbisogno. Ma se riserva molta attenzione a come venne affrontato il problema, alle proposte, alle discussioni, alle decisioni, non gli sfuggono però i motivi di fondo delle difficoltà veneziane. Della congiuntura monetaria europea con lo strumento delle fiere dei cambi erano diventati arbitri i Fiorentini e i Genovesi, soprattutto questi ultimi, «più copiosi de danari che ogn’altra natione», «patroni di gran parte dell’oro di Christianità». Erano loro che realizzavano grossi guadagni con «questa maniera di giro con semplice denaro e far che industriosamente che l’oro over argento vaglia più dell’oro e dell’argento», loro che presiedevano ai movimenti monetari.
Questa spiegazione semplifica un po’ le cose ed è offerta da uno che disapprovava queste speculazioni come sterili e inutili al bene comune, ritenendo che i capitali dovessero essere investiti in «commercio di mercantie» ma ha di vero il rilievo che in questo grande contesto Venezia non aveva una posizione determinante, perciò doveva uniformarsi a ciò che si decideva altrove. Si aggiunga che erano soprattutto fiorentini e genovesi i mercanti che nella stessa Venezia si dedicavano alle operazioni speculative sulle monete e sui cambi, cosicché al momento dell’acquisto di metalli monetari sulla piazza di Genova, poiché il pagamento veniva preteso in fiera, era normale che manovrassero per spingere in alto il cambio.
Quale è descritta da Nicolò Contarini, l’inflazione di quattrini del 1601-1602 mostra la fragilità degli equilibri della circolazione. Contribuì ad aggravarla l’ondata di falsi stampati dalle zecche dei principati circonvicini (43) e da officine clandestine interne, incoraggiati da un guadagno del 40%. Molte botteghe di generi di prima necessità sospesero le vendite e sorsero serie preoccupazioni per il pane. Contrastanti, e qualcuno «strepitoso», i pareri degli esperti e delle autorità politiche, tra questi l’elezione di un generale o di un dittatore «con auttorità assoluta». Tra i provvedimenti eccezionali la fortificazione della Zecca con marmi e porte di ferro e la guardia di una fusta armata d’artiglieria. Il clima era quello di una città assediata, la perdita per l’erario valutabile sui 600.000 ducati (44). Ritirati dalla circolazione tutti i quattrini, veri o falsi che fossero, vennero emessi in loro sostituzione soldini, gazzette, grossetti, bezzi per 356.514 ducati (45).
Dopo una pausa non troppo lunga, serie difficoltà si presentarono nel 1605, con la città «nel sommo disordine per causa delle valute», un’invasione di monete d’oro, ongari, dei paesi germanici e una massa di moneta scarsa di peso valutata più di tre milioni di ducati tra città e Dominio, con un aggio del 6-7% tra moneta cattiva e moneta buona (46); e nuovamente nel 1607-1608 si dovette affrontare il problema di una circolazione sempre crescente di monete scarse, con grande prevalenza di quelle d’argento, attribuibile all’eccessivo apprezzamento dell’oro nella proporzione legale (1:13), considerando che i tecnici della Zecca suggerivano di portare la proporzione a 1:12 0 1:113/4, come a Genova (47). Una valutazione della situazione dovrà tener conto che il 16o7 è l’anno della bancarotta della Spagna di Filippo III, con la contrazione delle disponibilità di metallo bianco in Europa, ma lungo tutto il Seicento, più o meno ovunque, l’oro monetato aumenta di valore in termini sia di moneta corrente sia di moneta d’argento.
Nel 1612 furono ancora una volta prese misure per far cessare il «pernicioso disordine» della circolazione di un gran numero di monete scarse, di ogni tipo (48). Due anni dopo, nel 1614, la grande penuria di moneta così a Venezia come in tutto il territorio della Repubblica venne attribuita dalle autorità monetarie all’aumento di valore dell’oro, «la Cecca abbandonata et derelitta, li operarii distrutti et consummati per il longo corso di tempo che non si lavora cosa alcuna». C’era una generale situazione di squilibrio della quale la città risentiva pesantemente, ma l’elemento di maggior rilievo nel panorama monetario di questo periodo è il flusso massiccio di reali, i prestigiosi reales de a ocho d’argento spagnoli, richiesti come moneta e merce privilegiata nel commercio del Levante e in tutti i paesi dell’area turca, dove venivano impiegati, insieme coi talleri dell’Impero, nel pagamento delle imposte. Gli arrivi d’argento spagnolo non sono un evento solamente veneziano. Un altro forte flusso era diretto a Tunisi, a Malta e certamente anche in Levante, alimentato dai porti siciliani dove proveniva da Livorno, da Genova e da Marsiglia (49). A Venezia arrivavano da Genova.
Dei reali e, in misura minore, dei talleri i mercanti veneziani si servivano nel commercio orientale, dove, per il passivo della bilancia, gli scambi non potevano esaurirsi nel baratto ma esigevano saldi in moneta. L’impiego della moneta comportava un vantaggio del 12% ma soprattutto permetteva di operare nelle stesse condizioni dei concorrenti degli altri paesi, che per far uso di contante riuscivano a concludere i loro affari «con molta facilittà et prestezza». Questa necessità era ben nota agli organi governativi che alla fine dell’anno 1600 ne avevano temporaneamente autorizzato l’esportazione, col proposito dichiarato di richiamarli a Venezia, dove da qualche tempo non ne arrivavano più (50). Nel gennaio 1610, per rianimare i traffici col Levante, si legalizzò il movimento, autorizzando l’esportazione delle monete d’argento col vincolo di consegnarne una quota alla Zecca. Tale vincolo, che inizialmente era di un quinto, dopo qualche mese venne tolto, perché si accertò che scoraggiava il flusso in entrata, ma alla fine del 1614 fu nuovamente imposto, nella misura di un quarto. Il bilancio del movimento che venne tracciato dai provveditori in Zecca nel 1618 apparve decisamente favorevole. Secondo i calcoli di Frank C. Spooner le esportazioni ufficiali di monete d’argento da Venezia nei due decenni del Seicento costituivano poco meno del 6% annuo degli arrivi di metallo bianco a Siviglia, una quota senza dubbio non trascurabile. Nel periodo 1610-1614 furono esportate ufficialmente monete per poco meno di 500 quintali d’argento fino, per la maggior parte (84,05%) in reali spagnoli, una certa quantità (15,66%) in talleri imperiali e una rimanenza irrilevante (0,29%) in ducati veneziani (51).
Il Levante era meta anche di una quantità imprecisabile di zecchini, che concorrevano con la moneta d’argento nel sostenere la bilancia deficitaria. Difficilmente si sarebbe potuto tenere alto il livello delle importazioni senza questi cospicui trasferimenti di moneta d’oro e d’argento (52). Con questa finalità si progettò anche di coniare delle monete veneziane sul modello del reale, del tallero e persino della piastra.
Dal 1615 alla fine del 1617 la circolazione fu tonificata con l’emissione di alcune centinaia di migliaia di scudi, di ducati e di monete d’argento di titolo minore; venne parzialmente risolto, dopo annose discussioni e con la coniazione di una grossa quantità di bezzi, il problema dell’impiego dell’ingente massa di metallo proveniente dal ritiro dalla circolazione dei quattrini, ancora in magazzino, dove rischiava il deperimento.
La Zecca coniava monete d’oro e d’argento di varia finezza e di rame. Nella prima metà del Seicento le monete d’oro erano lo zecchino, coi suoi spezzati, e la doppia, con lo scudo, che era la sua metà. La doppia veneziana, che non era d’oro puro come lo zecchino ma del titolo di 917/1.000, osservava le regole di quelle qualificate «delle buone stampe», come la spagnola, la genovese, la fiorentina. Di monete d’argento veniva offerta una varietà maggiore perché erano quelle che davano corpo e fisionomia alla circolazione interna, soddisfacendo le distinte necessità dei pagamenti correnti: le crisi della circolazione sono quasi sempre crisi dell’argento, dato che essa non è sufficientemente elastica perché ne prendano il posto l’oro o il biglione. D’argento ad alto titolo erano lo scudo della Croce e il ducato con santa Giustina, quello del 1588, anch’essi con le loro frazioni. Di titolo più basso — in certi tipi il fino può superare la metà della lega, ma essere anche molto inferiore — è la moneta d’argento «grossa»; nel gruppo figurano il grossetto, il bezzo, il soldino, la gazzetta e l’area che occupano è praticamente quella degli spezzati dello scudo e del ducato; altri tipi, come la lirazza, hanno una durata relativamente breve, ma la circolazione tende a conservare a lungo anche vecchie specie che non si prestano alla tesaurizzazione.
Bezzi, sesini, bagattini, soldoni, semplici, mezzi, doppi, rappresentavano la moneta minuta, utilizzata dalla grande massa della popolazione, che se ne serviva per l’acquisto dei viveri e in genere per la spesa quotidiana. Di rame puro o schiarito da una quantità minima d’argento, il metallo vile del quale queste monete erano fatte permetteva di coniarle di una certa grandezza che, osserva il Papadopoli, le rendeva «più adatte alle mani rozze delle persone al cui uso erano principalmente destinate» (53), ma non si deve peraltro credere che queste mani non maneggiassero altra moneta, per quanto questa fosse molte volte definita «moneta dei poveri»; infatti nel caso di ritiri dalla circolazione di monete proibite, nei banchetti che venivano istituiti «per le povere genti» era previsto, talvolta a condizioni di favore, anche il cambio di specie d’oro o d’argento, come ongari o scudi o altre di un certo valore unitario. Nel 1607, nel cambio «universale» delle monete d’argento calanti, nazionali ed estere, ai poveri venne «data moneta di bassa lega e a ciascun povero cambiato sino alla somma di doi reali» (54).
Fissare la quantità della moneta piccola costituiva uno dei problemi di politica monetaria di più difficile soluzione, perché risultava alternativamente troppa o troppo poca. Non si era ancora affermato il principio che nella seconda metà del secolo sarà lucidamente enunciato da Geminiano Montanari, secondo il quale quando se ne regolasse la quantità non era necessario che si facesse correre a pieno valore intrinseco, perciò le autorità interessate discutevano a lungo sull’opportunità di coniarla di un dato peso o con una piccola aggiunta d’argento. Così, nel 1616 e 1617 la proposta di emetterne ad un corso superiore al valore intrinseco, cioè quale moneta segno, trovò molti oppositori anche qualificati, come i provveditori sopra ori e monete (55).
Componevano la circolazione non soltanto le monete coniate dalla Zecca di Venezia: in un territorio come quello della Repubblica l’esercizio della sovranità monetaria presentava difficoltà strutturali, ed è significativo che tra le stesse specie nazionali figurassero, accanto a quelle di tradizione veneta, anche altre modellate su coni di altri paesi con finalità varie, come per renderne difficile la penetrazione nello Stato o per contendere loro il favore del quale godevano in aree d’interesse commerciale veneziano. Alcune specie d’oro e d’argento erano ammesse ufficialmente, con preferenza per quelle di titolo elevato, mentre venivano periodicamente bandite quelle provenienti da zecche che non offrivano garanzie di onesta fattura, e le scarse di peso. Queste talvolta si chiamavano al cambio in Zecca al valore del metallo. Ma i bandi non erano troppo rigorosi perché, come leggiamo in una scrittura del 1607 del provveditore Piero Barbarigo, alla natura che era così larga di doni alla Repubblica, «dell’oro e dell’argento non era piaciuto donarle il proprio nascimento» (56).
Nessuna tolleranza, invece, per le monete di rame e quelle d’argento di basso titolo, delle quali in verità la capitale era di regola meno infetta della Terraferma e soprattutto delle sue fasce confinarie.
L’istituzione del Banco Giro, nel 1619, segna un momento determinante nella vita economica veneziana. Per quanto i meccanismi contabili non differissero molto dai suoi, come banca aveva un carattere completamente diverso dal Banco della Piazza di Rialto, del quale non era affatto un duplicato. Infatti, mentre nel Banco della Piazza, che era una banca di deposito, le operazioni avevano per base dei depositi reali, il Banco Giro prendeva il nome dall’operazione tipica che compiva e che abbiamo già visto realizzata dal 1607 al 1614 col Banco del Giro delle Biave, il «giro», un espediente finanziario che dava la possibilità di una pronta utilizzazione di un credito verso lo Stato, trasferendolo ad altri con pieno potere liberatorio, in questo modo dando vita ad una circolazione allo scoperto controllata e garantita dallo Stato. Rispetto alle esperienze analoghe del passato, di un volume di crediti autonomo senza alcuna relazione con un volume di depositi reali o con una riserva metallica, garante lo Stato, il dato nuovo è che col tempo perde il suo carattere transitorio e si trasforma in un banco pubblico, che finisce col soppiantare l’altro. Infatti venne posto in liquidazione soltanto dopo la caduta della Repubblica.
All’origine è una grossa fornitura di paste d’argento alla Zecca, col pagamento concordato in parte in oro e in parte mediante accreditamento in un nuovo giro, così da poter disporre prontamente della somma. Altri prestiti e forniture di beni e di servizi vennero anch’essi soddisfatti, in varia proporzione con forme di pagamento diverse, con l’iscrizione a credito in banco, e la pratica incontrò tanto successo che già l’anno successivo (1620) si dovette assumere un altro contabile (57), e nel 1626 «le scritture e il negozio» si erano così moltiplicati che gli addetti erano costretti a lavorare tutti i giorni e anche la notte. Già nel 1625 i provveditori in Zecca potevano constatare che esso aveva operato bene, riducendo l’impiego della moneta metallica perché i pagamenti piú importanti venivano fatti mediante girata, dunque in partita (58). In questa fase l’attivo del Banco era costituito dal suo credito verso lo Stato e da un fondo di cassa rappresentato dalle somme che gli venivano periodicamente assegnate per l’estinzione della partita; il passivo dai saldi creditori dei conti dei vari giratari. La gestione infatti conservava il suo carattere di debito pubblico, perciò pareva opportuno chiuderla quanto prima possibile.
Tra i due banchi pubblici all’inizio ci fu poca concorrenza e sulla piazza ancora nel 1622 le loro partite avevano la stessa quotazione (59). Nel 1618, prima dell’apertura del Banco Giro, i depositi del Banco della Piazza erano arrivati a 1.700.000 ducati ma non passò molto tempo che esso venne progressivamente tagliato fuori dalle operazioni commerciali, riducendosi al servizio di risparmiatori che lasciavano inutilizzato il poco denaro che gli affidavano in custodia. Nel 1630 i depositi erano scesi a 56.185 ducati e ancora minore era il loro ammontare nel 1637, quando se ne deliberò la chiusura. Per spiegare questa atrofia si è parlato di una moneta del Giro, cattiva in quanto priva di copertura metallica, che cacciava la buona, quella del Banco della Piazza che invece tale sicurezza possedeva (60), ma la spiegazione non può essere accolta perché anche il nuovo Banco disponeva di una dotazione di contante che assicurava la pronta convertibilità della partita, quindi non c’era motivo di preferenza. È vero invece che il Banco Giro, per i suoi legami con la finanza pubblica e con le operazioni di consegna di paste in Zecca, aveva una clientela di mercanti, titolari di conti originari o riflessi, perciò offriva maggiori possibilità di operare dei pagamenti mediante girata, con poco riguardo alla copertura metallica, che talvolta scendeva a livelli minimi (1623, 1624, 1630) (61). Comunque nel 162o i mercanti forniscono la loro spiegazione: poco denaro nel Banco della Piazza, di persone che non ne dispongono, poco denaro nel Giro, dove lo Stato non accendeva partita in quantità adeguata ai bisogni della piazza, il che provocava «strettezza» e inoltre un aggio dell’ 1 % tra le monete dei due Banchi (62).
La chiusura del Banco della Piazza contribuì a consolidare il Giro, che gradualmente venne assumendo con maggiore pienezza la funzione di banco pubblico, dopo che nel 1630, in una congiuntura sotto il segno della peste, si era progettato di estinguere il passivo con un’imposta da pagarsi in partita e con un prestito obbligatorio. Si cercava però di contenere la massa della partita, che è come dire il debito, entro un margine di sicurezza suggerito dall’esperienza, che tuttavia non sempre si riusciva ad osservare; e con vari provvedimenti s’allargò la sua area legale d’impiego ove non fosse possibile frenarne l’inflazione. Quando, nel 1666, i privati furono finalmente ammessi ad aprire depositi mediante versamenti in moneta metallica il Banco perse il suo originario carattere di «giro» pur conservandone il nome, perché diveniva un pubblico banco di deposito. Anch’esso, come il Banco della Piazza, aveva la funzione di regolatore monetario in quanto offriva un medio circolante uniforme e non corrotto: era dunque «une caisse générale et perpetuelle pour tous les marchands et négociants». Per tutti i mercanti e negozianti: per il periodo trattato non conosciamo il numero dei correntisti, che potrebbe non discostarsi molto da quello degli anni 1724-1732, quando oscillò tra i 1.045 e i 1.453. Ciò che del Banco colpiva maggiormente gli osservatori era che la pratica delle girate e il loro ordinario movimento gli permettevano di operare con un rapporto di liquidità molto basso che lasciava di fatto la disponibilità di un certo fondo al quale era possibile attingere a condizione di non superare certi limiti supposti di equilibrio. «Onde il principe» — scrive Geminiano Montanari — «può subentrare al depositario di quella somma e valersene a’ suoi usi». Ma non doveva abusarne, come per molto tempo non ne abusò; così la partita non perse la sua quotazione sulla piazza, per cui non se ne chiedeva la conversione in moneta sonante se non nel caso di specifici pagamenti: come con la moneta bassa, anche con la partita di banco per sostenerne il valore bastava limitarne la quantità. È per questa loro affinità che Montanari ne tratta nello stesso capitolo (63).
Almeno in questa fase, continuando a considerarlo uno strumento del debito pubblico, le autorità responsabili seguivano le fluttuazioni dei saldi dei quali era debitore, ritenendo positivi i periodi in cui apparivano ridotti, espressione di una tendenza al risanamento. Alla fine del 1619, pochi mesi dopo l’apertura, ammontavano a 436.754 ducati ma nel giro di qualche anno (1625) superano il milione (64). Nel 1630, quando erano arrivati a 2.662.131 ducati, sembrava che «per aggiustar il sconcertato negotio» del Banco non restasse altro da fare che saldarlo ed estinguerlo.
Fino al 1647 il fondo di cassa, rimpinguato con regolare periodicità da trasferimenti di contante da parte delle casse della Zecca, assicurò la convertibilità della partita. Ma quando questi cessarono, la convertibilità venne sospesa e fu possibile riaprire la cassa solo nel 1666, coi proventi di un prestito. Durante tale periodo, che fa perno sulla guerra di Candia, il giro della partita continuò a corso forzoso. Il passivo del Banco era salito a 1.258.412 ducati, ma dopo una fase di lievitazione nel 1659-1660, fu possibile stabilizzarlo intorno ai 900.000 ducati. Un nuovo periodo di sospensione della convertibilità si avrà dal 1714 al 1739.
Ormai, verso la metà del secolo, l’esperienza aveva insegnato che per i bisogni della piazza il giro era di circa 800.000 ducati, perciò era opportuno che il debito dello Stato verso il Banco non superasse tale cifra. Era a questo valore che ora si guardava, assumendolo come metro del buon andamento del Banco, perché costituiva «il necessario giro di piazza che non può stare indisposto» (65). Quello che non funzionava era la gestione contabile, per la cattiva organizzazione del servizio, la negligenza e la disonestà degli addetti. Dal 1635 si ha una lunga serie di deliberazioni sulla tenuta dei conti e sulla formazione e conservazione delle scritture, con l’esplicita finalità di chiudere la strada alle malversazioni, ma non si poté evitare che nel 1662 uno degli impiegati, Giacomo Bandini, si appropriasse della cospicua somma di 68.582 ducati che, irrecuperabile, andò ad aggiungersi al debito dello Stato verso il Banco. La contabilità era in tale stato di confusione che a rivederla fu paradossalmente chiamato lo stesso Bandivi, coperto da un salvacondotto.
Il Banco operò in modo soddisfacente fino al 1715. Nei due o tre anni precedenti non c’era praticamente stata nessuna richiesta di conversione della partita. Nel 1714 il totale dei depositi era di 1.836.229 ducati e il fondo di cassa di 598.788; il rapporto di copertura metallica era dunque del 32,6% da valutare molto positivamente. Il fatto era che il fondo di cassa era costituito da verghe d’oro, e se questo rappresentava una garanzia sicura non permetteva però la materiale operazione di conversione in contante. Così si spiega come in alcune chiusure trimestrali degli anni 1713-1715 l’importo del fondo di cassa sia identico a quello della chiusura precedente, ciò che mostra che nessuno aveva convertito in moneta metallica la sua partita. Il fondo comincia a contrarsi nella primavera del 1715, per i prelevamenti da parte dello Stato per le necessità imposte dalla guerra, fino ad estinguersi nel 1716, ma la partita era già di fatto divenuta inconvertibile.
Quale mezzo di pagamento la partita del Banco Giro si allineava alla moneta di zecca o buona moneta, coi suoi valori ufficiali che erano la regola nelle operazioni di Zecca e nell’esazione delle imposte. Per i disordini monetari legati alla guerra di Gradisca, con la circolazione di una massa di monete gravemente tosate e ritagliate nel bordo, che vennero richiamate in Zecca con una forte perdita da parte dei presentatori, s’era determinato un aggio tra buona moneta e moneta corrente, quella usata nei pagamenti privati, che nel periodo 1621-1625 era stato consacrato ufficialmente nella misura del 20%. Il ducato di banco, dunque, godeva di un aggio fisso del 20% sul ducato corrente, ma il corso di mercato non restava, come è naturale, ancorato a questa valutazione; spesso se ne scostava esprimendo il prezzo effettivo al quale la moneta di banco poteva essere convertita. Sono queste variazioni del corso di piazza, attorno a quota 120, intendendosi 120 ducati correnti per 100 ducati di banco, che segnano le vicende della moneta di banco, dunque del Banco stesso, con le fasi d’inflazione, per lo più dovute ad eccessi d’emissione, e quelle di deflazione, per un’espansione della domanda, che fino al 1666 non poteva essere soddisfatta perché ai privati era negata l’apertura di depositi reali.
Dopo che per un periodo iniziale aveva oscillato intorno al valore ufficiale, la partita di banco scende a 118 nell’aprile del 1629 e a i i o nel 1630, per poi risalire fino a raggiungere 122 nel 1635, quota alla quale si mantiene negli anni successivi, arrivando a 124-125 nel 1643 e 1645. Ma nel 1648, sospesa la convertibilità, cade a 107 e alla fine del 1650 a 96. Dopo la riapertura della cassa, torna al livello della quotazione ufficiale, ma nel 1701 una crisi di sfiducia la riporta a 101; ha una leggera ripresa dal 1705 al 1715, quando oscilla tra 114 e 118, per poi volgere decisamente al ribasso con la nuova sospensione della convertibilità (66).
Il clima monetario del secolo è reso in alcuni dei suoi aspetti da una relazione del 2 dicembre 1620 dei cinque savi alla mercanzia (67), che raccoglieva l’opinione dei mercanti sulle ragioni della recente «strettezza» della piazza. Vi sono messe in luce certe caratteristiche del movimento e le precarietà degli equilibri, fortemente condizionati da fattori esterni. Le monete fini d’argento erano scomparse dalla circolazione perché emigrate in Germania, dove erano sopravvalutate, ciò che mostrava come la città potesse trovarsi in balìa di operatori capaci di un robusto drenaggio di valuta pregiata. L’eventualità di un ritardato arrivo in Spagna della flotta dell’argento americano, continua la relazione, aveva fatto sorgere il timore che i mercanti genovesi avrebbero ritirato in contanti i loro avanzi così da disporne alla prossima fiera di Piacenza, dove era prevista una «strettezza»; questo avrebbe privato di contanti la piazza di Venezia. Qui c’era anche scarsa disponibilità di moneta di banco; in più, la strettezza della piazza rendeva difficile il pagamento delle forniture di lana, di seta e di altre merci, aggravando la situazione, che ora però, alla data del documento, appariva notevolmente migliorata.
Infatti la caduta del cambio, provocata dalla strettezza, aveva fatto cessare la convenienza d’inviare contanti in Germania, e la notizia dell’arrivo della flotta spagnola prima dell’apertura della fiera non solo aveva tolto ogni ragione di strettezza in quella sede, ma al contrario c’era stata «larghezza», in quanto le temute difficoltà vi avevano fatto affluire molto denaro da altre piazze. Così, una parte ne era stata attirata dalla strettezza di Venezia, 50.000 doppie, 40 casse di reali, 100 mila ducati in scudi fiorentini e altre valute: fortunatamente il cambio era rimasto basso, ciò che facilitava l’acquisto di reali e di merci di Levante e di Ponente. Infine la sopravvenuta larghezza della piazza aveva instaurato un clima di fiducia e rimesso in moto i pagamenti.
Vicende come questa si ripresentano molte volte nel secolo ma la documentazione nota non permette di seguire con continuità le dinamiche di una circolazione monetaria che, sempre, richiamava l’attenzione delle autorità che vi erano preposte soltanto nei momenti difficili. I mali più ricorrenti erano un corso di mercato più alto della valutazione ufficiale e una massa inquinante di monete di peso inferiore al margine di tolleranza, alla quale di solito s’accompagnava un’invasione di specie estere, generalmente cattive o per la qualità sospetta o per lo stato di conservazione.
Ecco nel 1635 una circolazione satura di reali spagnoli scarsi di peso mentre le monete nazionali d’argento hanno un corso di mercato molto superiore a quello legale; l’oro manca quasi del tutto, secondo un meccanismo noto. «Lasciar il disordine come s’attrova saria un autenticarlo contro il bene universale», ma una proposta di ridurre di 10 soldi il valore del reale e le altre monete d’argento in proporzione non passa in senato. Solo due mesi dopo l’accoglie una nuova regolazione a carattere provvisorio, che però rimase in vigore per molti anni. Intanto s’era proceduto al richiamo in Zecca della moneta corrotta e all’emissione di moneta d’argento per 20 mila ducati (68). L’oro non tarda a tornare.
Il senato era tradizionalmente restio a decretare una nuova valutazione legale. A parte il conservatorismo e il timore di conseguenze negative per una rottura della stabilità monetaria, che sembrava in contrasto con le regole correnti del buon governo, l’operazione era complessa perché comportava una nuova regolazione dei rapporti tra le singole monete del sistema. A Venezia s’assumeva per base lo zecchino e in relazione ad esso si ordinavano le altre monete secondo il peso e la proporzione oro/argento. Poiché il nuovo allineamento era in termini di moneta piccola, della sua svalutazione venivano chiamate a sopportare i costi le fasce popolari, mentre ne traevano giovamento alcuni settori della produzione e del commercio.
Nel periodo considerato il prezzo dello zecchino conobbe un’ascesa della quale sarà sufficiente indicare alcune fasi, dalle 9 lire del 1587 alle 15 del 1635, alle i 7 del 1687, alle 22 del 1716, un incremento del quale si potrà cogliere l’ampiezza misurandolo non col metro delle inflazioni e svalutazioni moderne ma con quello delle economie «metalliche» del passato. Nel corso di mercato il movimento verso l’alto era praticamente continuo, mentre la valutazione ufficiale accumulava notevoli ritardi, per cui in certi momenti lo scarto era di non poco conto. Questa rigidità non fu buona norma soprattutto nella parte centrale del secolo, turbata da una forte instabilità del mercato. Anche per questo la circolazione traversò fasi di tensione talvolta di notevole intensità, con la scomparsa dell’oro o dell’argento se non di tutte le buone monete nazionali.
Argento quasi sempre scarso, con punte di assenza totale nel 1648-1649, nel 1658-1659; quando nel 1665 si principiò la coniazione del nuovo ducato d’argento, i presentatori di paste pretesero in zecchini una quota del pagamento, per compensare il danno che ricevevano dal prezzo poco remunerativo convenuto per la fornitura. Secondo una scrittura del 1664, dai libri di Zecca risultava che dal 1620 al 1644 erano stati coniati ducatoni e scudi d’argento per 26 milioni circa e più tardi le emissioni erano state praticamente interrotte. Il relatore (69) stimava che in circolazione ne fosse ormai rimasto un milione soltanto, perché tutti gli altri dovevano essere stati demonetizzati, per la svantaggiosa proporzione legale con l’oro applicata a Venezia. Spariti scudi e ducatoni dalla circolazione interna per la quale erano fatti, era inevitabile che ne prendessero il posto, come sempre in queste circostanze, monete d’argento nazionali ed estere a basso titolo o di rame scarse di peso, contro le quali non potevano molto i bandi che gli archivi conservano moltiplicati in serie. In gran numero anche la moneta piccola, spesso negoziata in sacchetti, nonostante i ripetuti divieti.
L’oro mancò con minore frequenza, in particolare nel periodo 1631-1637, quando persino le autorità governative furono costrette a rifornirsi di zecchini sulla piazza rassegnandosi a pagare un aggio. Gli zecchini s’erano rarefatti anche nel 1625, ma questa volta perché la Zecca ne aveva sospeso la coniazione, preferendo stampare doppie, sulle quali si potevano lucrare maggiori margini di signoraggio. A fornire una spiegazione del contrarsi della domanda di zecchini potrebbe essere la guerra turco-persiana del 1623-1638, che non fu favorevole al commercio col Levante, nel quale la moneta trovava largo impiego. Nel 1649 essi erano le sole specie utilizzate nelle operazioni commerciali della piazza, ma di regola la disertavano, perché la loro valutazione legale veniva deliberatamente contenuta, mentre nel grande commercio erano sopravvalutati.
Le lodi per lo zecchino, ritenuto moneta sui generis, con un valore di mercato giustamente superiore a quello del suo intrinseco, ricorrono con frequenza negli scritti degli esperti e delle autorità monetarie. Per virtù di ben ragionate manovre sui prezzi d’acquisto la Zecca ebbe un buon flusso di paste d’oro, prevalentemente in forma di doppie spagnole. Le consegne ripresero nel 1638 e già qualche anno dopo erano abbondanti, nel 1659 copiosissime e, dopo una breve contrazione, di nuovo molto abbondanti dal 1665, quando l’emissione della prestigiosa moneta tocca i tredici quintali annui. Fu lo Stato a disporre di una grandissima parte degli zecchini, soprattutto nel periodo della guerra di Candia, combattuta in un’area nella quale costituivano la moneta internazionale per eccellenza, praticamente d’obbligo nei pagamenti.
Al ristabilirsi della pace la materia monetaria si pose, insieme col risanamento del debito pubblico, in primo piano nei programmi governativi e al centro dell’interesse degli esperti. L’opportunità di una riforma radicale trovava largo consenso e furono in molti ad esprimere pareri e a proporre soluzioni, con scritti di base teorica non di rado modesta ma condotti su esperienze alle quali si richiamano volentieri. In uno degli interventi sono condensate le difficoltà dell’impresa: se a un re di Francia o d’Inghilterra era dato di usare liberamente il suo arbitrio, possibilità molto più limitate si offrivano in uno Stato «per estentione mediocre, per costitutione pien di riguardi, privo di paste proprie, hora onusto di forestiere valute, ingombro di consuetudini irregolate, cinto di Stati non ben disposti, che deve mantener il commercio, che deve contrattare con altri, che [deve] conservarsi il profitto che esige dai stampi» (70).
Un primo risultato fu l’emissione di una moneta d’argento che col valore legale di sei lire e quattro soldi rendeva ancora una volta effettivo il ducato ideale. Più leggero di quello realizzato in precedenza — che era distinto col nome di ducatone dal nuovo che diveniva dunque un ducatello — aveva una lega peggiore (826,4/1.000), studiata per scoraggiare la sua demonetizzazione in quanto il suo impiego industriale avrebbe richiesto spese di raffinatura. Sul mercato l’argento continuava ad essere scarso, perciò per invogliare i fornitori occorse liquidare in zecchini una parte del dovuto. Già nel primo anno, il 1665, ne furono coniati, coi mezzi e i quarti, per il valore di 1.295.896; altre forti emissioni seguirono nel 1667 e nel 1671, con pause negli anni intermedi.
Il bilancio che si tracciò qualche anno dopo parve però non molto soddisfacente. Come era inevitabile, neppure questa moneta riusciva a resistere alla pressione della speculazione, del resto nello stesso modo di quelle che col nome di ducato l’avevano preceduta: era vano supporre che sarebbe rimasta nella circolazione interna, col valore originario, senza emigrare o essere tesaurizzata o disfatta, secondo le occasioni del mercato. L’emissione di scudi e di ducatoni era stata sospesa per le difficoltà d’approvvigionamento delle paste ma restavano comunque le incognite di una moneta d’argento aggiunta alle due già esistenti, tanto più che per le caratteristiche della lavorazione lo scudo richiedeva una spesa minore e quale moneta di titolo elevato faceva «più onore» alla Zecca.
Le tre monete d’argento si mantennero fedeli al loro corso legale fino al 1673, per quanto le condizioni della circolazione, che pure avevano tratto beneficio dalla pace del 1669, cominciassero a risentire della sospensione dello stampo dello zecchino decretata nel giugno 1670. A richiederla era stata l’industria locale della lana, sostenendo che i mercanti turchi ed armeni scambiavano in zecchini le loro merci, trascurando quelle di produzione veneziana, con pesanti conseguenze sull’occupazione. Cessata l’emissione, gli zecchini divennero rari e l’aumento di prezzo che subirono sulla piazza ne fece rifluire notevoli quantità anche dal regno di Napoli; invasero l’area dell’oro gli ongari dei paesi germanici, che, nonostante la cattiva lega della quale molti di essi erano fatti, sostituirono pericolosamente la moneta veneziana nel commercio col Levante. Le alterazioni si contagiarono a tutto il sistema, che stentò a ritrovare il suo equilibrio anche quando nel 1676 la coniazione dello zecchino riprese, essendosi accertato che dalla sua sospensione le esportazioni di panni di lana non avevano tratto alcun giovamento. Il solo effetto era stato quello di spalancare le porte del Levante agli ongari, quando per favorire l’esportazione dei panni occorreva piuttosto migliorarne la qualità che, come obiettavano gli oppositori, era troppo inferiore al prodotto inglese o olandese per poterne sostenere la concorrenza.
Altre difficoltà le poneva la proporzione oro/argento, che a Venezia era rimasta ferma al 1665, mentre nei centri che contavano s’era mossa in favore dell’oro, in correlazione con una certa stanchezza negli arrivi del prezioso metallo dall’America. Ora sembrava eccessivo il favore concesso all’argento, perché non disertasse la circolazione interna. Tuttavia, con proclami rinnovati più volte fino al termine del Seicento, venne ribadito il valore legale del ducato a sei lire e quattro soldi, in particolare nella «regolazione universale» del 1687, che riportava lo zecchino a diciassette lire, in verità — come si dovette riconoscere qualche anno più tardi — «con non poco sconcerto del commercio» (71).
Il risanamento della circolazione trovò ostacoli insuperabili nel nuovo stato di guerra. Dei poco meno di due milioni di zecchini stampati nei primi due anni e mezzo — ildato è del dicembre 1686 (72) — quasi la metà erano stati inviati in Dalmazia e alla zona d’operazioni. E come si mise in luce due anni dopo, milioni d’oro erano stati «inghiottiti» dalle truppe tedesche, dalla Fiandra per l’acquisto di esplosivi, dall’Inghilterra per cannoni e proiettili, dal Ferrarese per cereali, dall’Olanda per noleggio di navi: il denaro s’era talmente rarefatto sulla piazza che i beni comunali messi in vendita nel Padovano, nel Vicentino, nel Dogado stentavano a trovare compratori (73).
I valori legali fissati nel 1687 rimasero in vigore fino al 1700, ma nel decennio successivo non fu possibile sottrarre la capitale ai disordini monetari provocati dal passaggio delle truppe belligeranti in Terraferma. Il corso di piazza dello zecchino salì rapidamente a 21 lire nel 1702, a 21 nel 1709 e a 21,10 nel 1711. Per la difficoltà di procurarsi delle paste ad un costo che permettesse la coniazione, l’emissione del ducato d’argento cessò del tutto a partire dal 1705, dopo una forte riduzione dal 1697. La parità legale adesso gli era sfavorevole, così che era conveniente esportarlo. Scomparsa dalla circolazione la moneta d’argento, ne presero il posto gli spezzati di zecchino coniati soprattutto nel 1702-1704 e, ciò che fu peggio, una massa di traeri e di altre monete bavaresi e imperiali di bassa lega e scarse di peso.
Le autorità monetarie danno l’impressione di sentirsi impotenti. Adesso molto più che in passato i problemi della circolazione vengono trattati, con eleganza più formale che non sostanziale, da numerosi uffici, come in contraddittorio, spesso «in conferenza», cioè elaborando un testo comune, frutto di lunghe discussioni. Il senato, che ha il compito di decidere, oscilla tra l’opportunità di tener conto delle situazioni nuove che si andavano determinando e il desiderio di lasciar tutto immutato. Finalmente nel 1714 Si deliberò di aumentare il prezzo d’acquisto delle paste d’argento, che ora la Zecca pagava in zecchini per attirare le consegne, e questo permise l’emissione di 366 mila scudi d’argento e la ripresa di quella del ducato. Se ne stamparono più di 344 mila.
Per un giudizio sulle politiche monetarie che vennero condotte nel lungo arco di tempo del Seicento purtroppo non si dispone sempre degli elementi necessari, non fosse altro perché, come si sa, si aveva una valutazione dei dati di cui tener conto, e quindi da raccogliere, diversa da quella dei giorni nostri. In ogni caso va detto che la soluzione dei problemi monetari venne non di rado resa più complessa, se non oscurata, dall’esigenza di carattere finanziario di trarre profitto dalle emissioni. E in realtà il gettito che queste assicurarono fu una voce non trascurabile delle entrate statali. Certo non è buon segno che a Venezia in questo secolo il tempo sia scorso al ritmo dello zecchino, che era la moneta del grande commercio ma anche della speculazione e della guerra, e non a quello dell’argento della circolazione interna.
La regolazione del 1714 non servì a lungo. L’emissione del ducato d’argento cessò nuovamente e la convertibilità della moneta del Banco Giro venne sospesa: la conclusione del periodo trattato in queste pagine coincide con l’inizio della guerra con la Turchia.
1. In particolare Michel Morineau, Incroyables gazettes et fabuleux métaux. Les retours des trésors américains d’après les gazettes hollandaises (XVIe-XVIIIe siècles), Paris-Cambridge 1985.
2. Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 285 ss.
3. Del resto come ovunque, cf. B.E. Supple, Currency and Commerce in the Early Seventeenth Century, «Economie History Review», 10, 1957, pp. 244-245 (pp. 239-255).
4. Così come in Inghilterra, ibid., p. 245.
5. Enrico Magatti, Il mercato monetario veneziano alla fine del secolo XVI, «Nuovo Archivio Veneto», n. ser., 27, 1914, p. 285 (pp. 245-323).
6. Nlcolò Papadopoli Aldobrandini, Le monete di Venezia descritte e illustrate, III, Milano 1919. Ma restarono a lungo in circolazione, e correvano ancora al tempo in cui scriveva il Gallicciolli. Giovan Battista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, II, Venezia 1795, p. 7.
7. A.S.V., Senato, Rettori, filza 163, 1712, 10 marzo. Relazione 1711, 28 settembre dei deputati e aggiunti alla provision del denaro.
8. Ruggiero Romano, L’Europa tra due crisi, Torino 1980, pp. 76 ss.
9. Domenico Sella, Commerci e industrie a Venezia nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961, pp. 51 ss.
10. A.S.V., Senato, Zecca, 1632, 21 maggio.
11. Richard T. Rapp, Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986, pp. 116, 119.
12. Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, p. 227.
13. Cit. da E. Magatti, Il mercato monetario, p. 315.
14. Angelo Ventura, Considerazioni sull’agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, «Studi Storici», 9, 1968, pp. 710-713 (pp. 674-722).
15. Giulio Mandich, Le pacte de ricorsa et le marché italien des changes au XVIIe siècle, Paris 1953, pp. 96-97.
16. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, reg. 146, 1625, 20 novembre.
17. Francesco Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, «Nuova Antologia», 16, 1871, p. 179.
18. Per questo aspetto v. U. Tucci, Mercanti, navi, pp. 289 ss.
19. A.S.V., Provveditori in Zecca, reg. 18 bis, pp. 35-37, 41.
20. L’idea che lo zecchino emigrasse come moneta buona cacciata dalla cattiva, per cui alla fine del Cinquecento Venezia si trovò «con grande scarsezza di metalli preziosi», sostenuta dal Magatti è del tutto priva di fondamento (Il mercato monetario, p. 249).
21. A.S.V., Senato, Terra, 1602, 26 settembre.
22. È significativo che fosse sistemato negli stessi locali già occupati dal Banco Pisani-Tiepolo, ibid., 1613 m.v., 27 febbraio.
23. Elia Lattes, La libertà delle banche a Venezia dal secolo XIII al XVII, Milano 1869, doc. 42 (1584).
24. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, reg. 137, 1585, 11 luglio.
25. Ivi, Senato, Terra, 1587, 11 aprile; E. Lattes, La libertà delle banche, doc. 39.
26. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, reg. 137, 1586, 13 novembre.
27. Ivi, Senato, Terra, reg. 60, cc. 50-54.
28. Molte volte le fonti danno al banco pubblico il nome del gestore, facendo sorgere l’equivoco che si tratti di un banco privato.
29. A.S.V., Senato, Terra, 1593, 26 marzo.
30. E. Lattes, La libertà delle banche, doc. 42, pp. 121-122.
31. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, reg. 139, 1597, 24 gennaio.
32. R. Romano, L’Europa, p. 142.
33. E. Lattes, La libertà delle banche, doc. LII, che invece non s’accorge che la proposta fu respinta. V. anche A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, reg. 139, 1596 m.v., 28 gennaio, per analoga proposta di Marco da Monte.
34. E. Lattes, La libertà delle banche, doc. 48; A.S.V., Archivio notarile, not. Catti, filza 3387, c. 132, 1609, 3 aprile.
35. Seguo in questo l’interpretazione di G. Mandich, Le pacte de ricorsa, pp. 62-63.
36. I testi delle deliberazioni in E. Magatti, Il mercato monetario, pp. 270-271, 297-300.
37. José-Gentil Da Silva, Banque et crédit en Italie au XVIIe siècle, I, Les foires de change et la dépréciation monétaire, Paris 1969, p. 193.
38. E. Magatti, Il mercato monetario, p. 291.
39. A.S.V., Senato, Zecca, 1596 m.v., 4 gennaio.
40. Ivi, Senato, Terra, 1613 m.v., 23 gennaio; U. Tucci, Mercanti, navi, pp. 239-240, 243.
41. A.S.V., Senato, Zecca, 1608, 8 novembre. Le monete vennero in realtà ristampate solo nel 1625. Ibid., 1625, 26 agosto.
42. Le citazioni rinviano agli estratti dell’opera del Contarini pubblicati da Gaetano Cozzi in appendice al suo Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano all’inizio del Seicento, Venezia-Roma 1958.
43. Per la zecca di Mantova v. Marzio A. Romani, Considerazioni sul mercato monetario mantovano nei secoli XVI e XVII, «Atti e Memorie dell’Accademia Virgiliana di Mantova», 37, 1969, pp. 73-143.
44. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 359.
45. N. Papadopoli Aldobrandini, Le monete di Venezia, p. 16.
46. A.S.V., Senato, Terra, 1605, 20 maggio; E. Magatti, Il mercato monetario, pp. 300, 303.
47. N. Papadopoli Aldobrandini, Le monete di Venezia, p. 13.
48. A.S.V., Senato, Zecca, 1612, 21 maggio.
49. Carmelo Trasselli, Au XVIIe siècle: transports d’argent à destination et à partir de la Sicile, «Annales E.S.C. », 18, 1963, nr. 5, pp. 883-905.
50. A.S.V., Senato, Zecca, 1600, 20 settembre.
51. Frank C. Spooner, Venice and the Levant: an Aspect of
Monetay History (1610-1614), in AA.VV., Studi in onore
di Amintore Fanfani, V, Milano 1962, pp. 643-667.
52. D. Sella, Commerci e industrie, p. 63.
53. N. Papadopoli Aldobrandini, Le monete di Venezia, p. 16.
54. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, Risposte, 1607, 25 novembre.
55. Ivi, Provveditori in Zecca, filza 1258, reg. I; Senato, Zecca, 1617, 24 giugno.
56. In E. Magatti, Il mercato monetario, pp. 311-312.
57. A.S.V., Senato, Terra, 1620, 17 luglio; 1626, 12 dicembre.
58. Ivi, Provveditori in Zecca, filza 1258, reg. II, 1625, 23 agosto.
59. Ivi, Senato, Terra, 1622, 16 dicembre.
60. Giulio Mandich, Formule monetarie veneziane del periodo 1619-1650, in AA.VV., Studi in onore di Armando Sapori, Milano 1957, pp. 1151-1152 (pp. 1143-1183).
61. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1757 (= 8732), p. 320.
62. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, reg. 145, 1620, 2 dicembre.
63. La citazione francese riportata qui sopra è da Jacques Savary Des Bruslons, Dictionnaire universel de commerce, I, Paris 17506, p. 302; Geminiano Montanari, La zecca in Consulta di Stato, in Economisti del Cinque e Seicento, a cura di Augusto Graziani, Bari 1913, cap. VII (pp. 237-379).
64. Il quadro del debito dello Stato verso il Banco, dal 1619 al 1666, in Ugo Tucci, Convertibilità e copertura metallica della moneta del Banco Giro veneziano, «Studi Veneziani», 15, 1973, p. 370 (pp. 349-448).
65. A.S.V., Senato, Giro, filza 10, 1648, 20 marzo.
66. G. Mandich, Formule monetarie, pp. 1166-1171; U. Tucci, Convertibilità e copertura metallica, pp. 368, 448.
67. A.S.V., Cinque Savi alla Mercanzia, reg. 145, 1620, 2 dicembre.
68. Ivi, Senato, Zecca, 1634, 8 novembre; 1635, 8 e 10 marzo.
69. Certamente è Marco Contarini, che fu provveditore agli ori e argenti, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1218 (58718).
70. Ivi, ms. it. cl. VII. 1550 (59185), Del riordinamento della materia monetaria (1682), c. 64.
71. Scrittura dei provveditori ori e monete, 1702, 13 maggio, in N. Papadopoli Aldobrandini, Le monete di Venezia, p. 543.
72. A.S.V., Senato, Terra, 1686, 5 dicembre.
73. Ivi, Senato, Rettori, 1688, 16 dicembre.