MONETARISMO
Il termine fa riferimento alle teorie di M. Friedman e dei suoi allievi, e all'influenza che queste hanno avuto nel modificare la concezione prevalente sul ruolo della moneta nel sistema economico. Per comprendere il significato di quella che è stata definita la "rivoluzione monetaria" di Friedman è necessario rifarsi alle opinioni prevalenti prima, e in particolare all'influenza che una certa interpretazione delle teorie di J.M. Keynes aveva avuto sulla teoria monetaria.
Com'è noto, una delle caratteristiche principali della teoria keynesiana è rappresentata dal fatto che in essa la moneta è vista, oltre che come mezzo di scambio, anche come attività patrimoniale. In questa prospettiva, la moneta compete nelle scelte di portafoglio con i titoli a reddito fisso. Le determinanti della domanda di moneta diventano così due: al reddito, che determina la domanda di moneta per motivo transattivo e precauzionale, si aggiunge "il" saggio dell'interesse, o più correttamente il tasso di rendimento dei titoli a reddito fisso, che determina la cosiddetta domanda di moneta per motivo speculativo. L'equilibrio nel settore monetario - uguaglianza fra la quantità di moneta in circolazione (offerta) e la quantità desiderata dalla collettività (domanda) - viene assicurato in teoria keynesiana dalle variazioni del saggio dell'interesse, che è considerato fenomeno monetario, per qualsiasi livello dei prezzi. Il livello dei prezzi diventa così variabile esogena o, più precisamente, la sua esogenità viene giustificata dalla natura monetaria del saggio dell'interesse, le cui variazioni, assicurando equilibrio nel settore monetario, impediscono al livello dei prezzi di variare. Un eccesso di offerta di moneta si traduce in una riduzione del saggio dell'interesse, il che fa aumentare la quantità di moneta desiderata dalla collettività per motivo speculativo, fino a rendere nuovamente uguali domanda e offerta di moneta, senza che i prezzi abbiano ad aumentare. Una politica monetaria espansiva, quindi, ha come unico effetto di ridurre "il" saggio dell'interesse, stimolando gl'investimenti, e, quindi, il reddito e l'occupazione.
Esistono tuttavia dei limiti alla capacità delle variazioni della quantità di moneta d'influire sul livello di attività economica. La politica monetaria infatti influisce sulla spesa globale, per le considerazioni surriferite, solo a condizione che riesca a far variare "il" saggio dell'interesse e che le variazioni di questo influiscano sul flusso degl'investimenti. L'efficacia della politica monetaria è cioè indiretta, per il tramite del saggio dell'interesse e del flusso degl'investimenti, ma le variazioni della quantità di moneta non hanno alcun effetto diretto sulla spesa globale.
Tali considerazioni, e il fatto di attribuire natura esogena al livello dei prezzi conducono i keynesiani a interpretare la politica monetaria come politica del tasso d'interesse: il suo unico scopo era quello di tenere il saggio d'interesse a un livello molto basso per facilitare gl'investimenti, ma si riteneva che ben poco potesse fare per stimolare l'attività economica ("money does not matter", la moneta non ha importanza). Non solo, ma se "il" saggio dell'interesse aveva raggiunto il livello minimo (cosiddetta "trappola della liquidità"), un aumento dell'offerta di moneta restava senza effetto sul saggio e, quindi, sulla spesa globale. L'aumento della quantità di moneta sarebbe stato in questo caso interamente tesoreggiato dalla collettività. Inoltre, anche ammesso che la politica monetaria riesca a ridurre "il" saggio dell'interesse, non è detto - aggiungevano i keynesiani - che ciò sia sufficiente a produrre quell'aumento degl'investimenti che è necessario al mantenimento del livello di reddito esistente.
La "controrivoluzione monetaria di Friedman si sviluppa a due livelli: teorico ed empirico. Sul piano teorico, anche sulla scorta di studi precedenti, viene sottolineato che la quantità di moneta e le sue variazioni influiscono sulla spesa globale direttamente, indipendentemente da quanto accade al saggio d'interesse. Anche ammesso quindi che esista un livello minimo del saggio, questo non significa che le variazioni della quantità di moneta in circolazione resterebbero in quel caso senza effetto sulla spesa. L'elemento più significativo del m. è rappresentato dalla riformulazione della teoria quantitativa come teoria della domanda di moneta. In tale forma la moneta è vista, così come nella teoria keynesiana, come attività patrimoniale; a differenza di quanto accade in teoria keynesiana, però, la moneta compete non solo con i titoli a reddito fisso, ma con tutta una gamma di attività patrimoniali. Le determinanti della domanda di moneta comprendono, così, oltre il reddito e "il" tasso d'interesse, anche tutta una serie di tassi di rendimento, la ricchezza e il tasso d'inflazione. La funzione di domanda di moneta, così riformulata da Friedman, viene ritenuta stabile, sicché le variazioni dell'offerta si traducono in variazioni della spesa globale nello stesso senso.
S'innesta qui il punto centrale dell'analisi di Friedman: la stabilità o meno della domanda di moneta non può essere sostenuta a priori, sulla base di considerazioni logico-formali, ma dev'essere "verificata" statisticamente. Questo spiega come una gran parte degli studi monetari recenti sia stata dedicata proprio all'indagine statistica. Basti ricordare per tutti la monumentale Monetary statistics of the United States di Friedman, in collaborazione con A. Schwartz.
È difficile trarre da questa mole di lavori indicazioni univoche, data la diversità di metodi e di risultati, ma, per quanto ci riguarda in questa sede, sembra possibile sintetizzare così i risultati:
a) la domanda di moneta è una funzione relativamente stabile del reddito e della ricchezza;
b) l'influenza del saggio d'interesse sulla domanda di moneta è assai ridotta, e mai, in nessun caso, si è osservata l'elasticità infinita postulata dalla cosiddetta liquidity trap;
c) in conseguenza di ciò, le variazioni dell'offerta di moneta si traducono in variazioni del reddito monetario, della spesa globale;
d) secondo i dati di Friedman, la "grande depressione" ebbe luogo non malgrado che la politica fosse stata espansiva, ma per via del fatto che essa era stata fortemente restrittiva. Lungi dal costituire un esempio dell'impotenza della politica monetaria, essa ne prova tragicamente l'importanza.
Sulla scorta di tali considerazioni, Friedman e i suoi allievi sostengono che la moneta ha importanza (money matters).
Le implicazioni di questa mole di studi per la politica economica sono numerose e importantissime.
Se la domanda di moneta è stabile funzione del reddito e della ricchezza, il controllo della domanda globale può essere operato solo controllando la quantità di moneta in circolazione. La politica di deficit spending, di disavanzo del bilancio dello stato, non ha - a quantità di moneta costante - alcun effetto sul volume complessivo della domanda globale; ne segue che un aumento del deficit del bilancio non influisce sul livello della spesa, del reddito monetario, ma si limita a mutarne la composizione, trasferendo fondi e risorse reali dal settore privato a quello pubblico. In altri termini, un aumento della spesa pubblica, anche se non finanziato da un aumento dell'imposizione, sottrae - a quantità di moneta costante - risparmio all'investimento, pone in essere una pressione al rialzo sui tassi d'interesse, e il suo effetto sulla domanda globale viene interamente neutralizzato da una contrazione della spesa per consumi e per investimenti.
Mentre la politica di bilancio influisce sulla composizione del reddito monetario, il suo livello dipende dalla politica monetaria, dalla quantità di moneta in circolazione, le cui variazioni - lungi dall'influire sui tassi d'interesse nel senso indicato dai keynesiani - influiscono direttamente sul livello di attività economica, sulla spesa aggregata.
Quanto alla relazione fra le politiche di moneta facile auspicate dai keynesiani e "il" tasso d'interesse, essa è contraddetta dall'evidenza. I tassi d'interesse infatti in periodi di politica monetaria espansiva tendono al rialzo e non al ribasso, come sostenuto dai keynesiani. La ragione è semplice: la politica monetaria espansiva influisce direttamente sulla spesa globale e - nella misura in cui questo determina una pressione inflazionistica - il tasso d'inflazione viene a essere incorporato nel saggio nominale dell'interesse, che risulta quindi maggiore di quanto non fosse prima dell'attuazione della politica di moneta facile. Cade così anche l'interpretazione della politica monetaria come politica del tasso d'interesse, che attribuiva - come si è visto - alle variazioni della quantità di moneta l'unico scopo di mantenere "il" saggio d'interesse a livelli bassi.
Infine, dato che la situazione "normale" non è solo quella di carenza della domanda globale, rientrano in gioco i prezzi. L'inflazione torna a essere considerata problema di politica economica. Quanto poi alle cause dell'inflazione, le considerazioni su esposte chiariscono il senso dell'affermazione di Friedman: "L'inflazione è sempre e ovunque un fenomeno monetario". Infatti, l'inflazione è un aumento del livello medio generale dei prezzi; il livello dei prezzi è il rapporto fra la spesa globale e il reddito prodotto; se la domanda di moneta è stabile, la spesa globale dipende dalla quantità di moneta in circolazione. Perché si possa avere inflazione, quindi, occorre che l'aumento della quantità di moneta in circolazione ecceda quello del reddito prodotto; l'inflazione è, dunque, fenomeno monetario, la sua causa è sempre costituita da un aumento della quantità di moneta rispetto al reddito.
La politica monetaria deve quindi essere diretta al controllo della quantità complessiva di moneta in circolazione, e questo rappresenta l'unico strumento valido di controllo della spesa aggregata, l'unico strumento utile di politica di stabilizzazione macroeconomica. La politica monetario di equilibrio consiste nel far sì che il tasso di sviluppo della quantità di moneta nel tempo eguagli il tasso di sviluppo del reddito reale, e tale condizione garantisce stabilità dei prezzi e dell'occupazione.
Vengono meno, in questa prospettiva, anche i presupposti della politica fiscale anticongiunturale. Un aumento dell'imposizione, infatti, non riduce il tasso d'inflazione se resta invariato il tasso di sviluppo della quantità di moneta, e una riduzione dell'imposizione non ha - a quantità di moneta costante - effetti di stimolo sulla domanda globale, perché viene compensata dai provvedimenti di finanziamento del maggior deficit di bilancio.
Infine, per quanto riguarda la politica monetaria anticiclica, Friedman sostiene che, dato che le variazioni della quantità di moneta producono i loro effetti sulla spesa con un ritardo che non è possibile misurare esattamente in anticipo, le variazioni della quantità di moneta dirette a scopi di stabilizzazione di breve periodo finiscono inevitabilmente per produrre i loro effetti solo dopo che le condizioni che le avevano ispirate sono venute meno, e finiscono quindi per aggravare l'instabilità del sistema. Meglio sarebbe, secondo Friedman, decidere di lasciar crescere la quantità di moneta a un tasso costante, la cui entità venga stabilita sulla base delle previsioni relative al tasso di sviluppo del reddito e sulla base dell'esigenza che quel tasso di sviluppo venga mantenuto.
Bibl.: M. Friedman, The quantity theory of money - a restatment, in Studies in the quantity theory of money, Chicago 1956; H.G. Johnson, Monetary theory and policy, American economic review, giugno 1962; M. Friedman, A. Schwartz, A monetary history of the United States 1867-1960, National bureau of economic research, 1963; M. Friedman, D. Meiselman, The relative stability of monetary velocity and the investment multiplier in the United States, 1897-1958, C.M.C. 1963, pp. 165-268; M. Friedman, A. Schwartz, Monetary statistics of the United States, National Bureau of economic research 1970; A. Martino, La moneta ha importanza, in Il Veltro, n. 1-3, 1974.