MONARCHIANISMO
Nome dato per molto tempo a correnti eterodosse del pensiero cristiano antico, molto diverse tra loro, benché si potesse attribuire loro l'intento comune di salvaguardare l'unità di Dio, a scapito della distinzione delle persone. Ora, tuttavia, si ravvisa generalmente la necessità di distinguere l'adozionismo antico (v. adozionismo) dal monarchianismo e comincia a farsi strada il concetto dell'opportunità di distinguere ulteriormente il monarchianismo vero e proprio dal modalismo.
Dell'eresia monarchiana - cioè di quella corrente di pensiero teologico la quale accentuava l'unità di Dio e del suo governo sul mondo (μοναρχία) - le prime tracce si hanno in Asia Minore, con Noeto, che predicò a Smirne tra il 180 e il 200 d. C. Respingendo la dottrina del Logos, caldeggiata dagli apologisti greci, egli partiva dall'affermazione che Dio è unico; quindi, argomentava, se Cristo è Dio, egli è uno col Padre; se ha sofferto, essendo Dio, chi ha sofferto è il Padre (patripassianismo). L'eresia di Noeto fu introdotta in Roma dal suo discepolo Epigono, al quale si unì presto Cleomene. Il solo Tertulliano ci parla di Prassea, il quale avrebbe persuaso un papa (secondo alcuni, Vittore; secondo altri, Zefirino) a condannare il montanismo già accolto con simpatia e a considerare invece con favore il patripassianismo (ita duo negotia diabuli Praxeas Romae procuravit.... Paracletum fugavit et Patrem crucifixit).
Probabilmente, più che di una vera e propria adesione al sistema, si tratta di una reazione contro la teologia del Logos, specie nella forma subordinaziana che essa riceve nei Philosophumena (a differenza dal libro Contro l'eresia di Noeto) d' Ippolito. Al quale dobbiamo tre formule ch'egli attribuisce, le prime due a Zefirino, la terza a Callisto. Quelle del primo possono intendersi in senso monarchiano, come anche in senso ortodosso; quanto alla terza, alcuni l'hanno ritenuta ortodossa; altri eterodossa, ma, stante l'ostilità d'Ippolito verso Callisto, non autentica. Secondo altri ancora, si tratterebbe d'un "sistema di attenuato monarchianismo... una forma di compatripassianismo: pure essendovi nel Cristo due distinti elementi, l'uno visibile e umano (il Figlio) e l'altro invisibile e divino (il Padre), la personalità di Dio non si può sdoppiare e in conseguenza il Padre ha in un certo senso patito insieme con il Figlio" (A. Donini). Questo atteggiamento corrisponde a quello che Tertulliano attribuisce a Prassea, quando gli fa dire "che il Figlio è carne, cioè uomo, cioè Gesù; e il Padre, invece, lo Spirito, cioè Dio, cioè Cristo" e che dunque Filius sic quidem patitur, Pater vero compatitur (da notare, che in queste conclusioni di natura cristologica, il monarchianismo, partendo da un punto di vista opposto, finisce quasi per coincidere con l'adozionismo). Talché alcuni hanno proposto d'identificare Prassea con Callisto (ma, si osserva, Tertulliano, che pure ne combatte i provvedimenti disciplinari, non lo accusa di eterodossia; sennonché, il vescovo avversato nel De pudicitia tertullianeo è poi veramente Callisto?), come altri con Epigono, con Cleomene o con il papa Vittore; mentre taluno ritiene ancora che sia un personaggio fittizio. Questa ipotesi, come quelle identificazioni, urtano contro il fatto che Tertulliano ascrive a Prassea lo svolgimento d'un lavorio di propaganda anche in Africa: forse dopo essere stato colpito a Roma da qualche provvedimento? Secondo Ippolito, Zefirino prima e poi Callisto, allorché gli succedette con grande scorno dello stesso Ippolito, avrebbero subito l'influenza di Sabellio, venuto a Roma, probabilmente dall'Africa, verso il 217 e con la condanna del quale - per opera di Callisto, che Ippolito accusa di mala fede - termina la storia del monarchianismo romano.
Ma il nome di Sabellio ritorna nelle polemiche del sec. IV, allorché gli viene attribuita una dottrina che sfugge ormai all'accusa di patripassianismo. S. Epifanio, e gli scrittori del sec. IV che combattono soprattutto Eustazio d'Antiochia con Marcello d'Ancira e Fotino di Sirmio hanno infatti di mira una dottrina secondo la quale la monade divina si sarebbe rivelata nell'Antico Testamento come legislatore (Padre) e nel Nuovo come redentore (Figlio) e santificatore delle anime (Spirito); ma queste tre manifestazioni non costituirebbero tre persone distinte, bensì soltanto aspetti, nomi, modi di essere (modalismo). Questa dottrina rinnega sì la Trinità in nome della "monarchia", ma rappresenta senza dubbio un progresso e implica un maggiore grado di raffinatezza teologica rispetto al monarchianismo antico, presentato dalle fonti unanimemente come la fede degl'indotti, e merita quindi di esserne distinta. Essa fu combattuta, già verso la metà del sec. III, dal vescovo Dionigi d'Alessandria in varie lettere, che, per certe espressioni poco soddisfacenti, provocarono una dichiarazione da parte del papa S. Dionigi.
Bibl.: G. Bardy, in Dictionn. de théol. cathol., X, ii (con bibl.).