MONARCHIA
L'esame delle forme che il governo di uno stato può assumere e dell'eccellenza di una forma rispetto a un'altra dovette presto interessare il pensiero umano, giunto a un certo grado di sviluppo, appena poté affrontare il prqblema politico. Di fronte al fatto di un singolo che imponeva l'autorità sua su un popolo, o di una democrazia di liberi, l'uomo non poté non chiedersi se meglio fosse essere governato da uno solo o da una collettività mtta, che decidesse le cose comuni e la volontà generale facesse legge. Problema centrale della politica, che implica quelli sull'origine del potere e sulla legittimità del comando, rispetto ai quali, con essi, assurge a dignità speculativa, mentre in sé solo è argomento di classificazione. In quanto tale, mentre non attinge l'essenza del governo e quindi dello stato, si può svolgere unicamente a patto di assumere solo un organo di governo e in sua funzione svolgere la classificazione stessa.
Una definizione della monarchia ci è stata data per primo da Aristotele, ma la sua nozione non è mancata presso gli orientali e gli Ebrei, per quanto essi mirassero non tanto a chiarire un concetto, ma ad apprezzare moralisticamente la prassi monarchica. Nel I Samuele [Re], VIII, 10-20, è narrato che, essendo gli anziani d'Israele andati da lui perché scegliesse nel popolo un re, Samuele osservò come al re essi avrebbero dovuto pagare le decime dei prodotti, mentre egli dei loro figli avrebbe fatto soldati e delle loro figlie cuoche, essi stessi avrebbe spossessati dei campi migliori per darli ai suoi ufficiali, avrebbe requisito i servi e i loro animali per farli lavorare per sé, ma che, nonostante tali gravi inconvenienti, gli anziani insistettero nella domanda, poiché tutti i popoli avevano un re che li comandava in guerra e "giudicava" in pace le loro controversie. Dove risulta che gli antichi Ebrei non ignoravano i mali derivanti dalla monarchia assoluta, ma non distinguevano tra questa e quella temperata: benché, a dire il vero, il loro concetto della monarchia sia aderente al concetto teocratico di origine sacerdotale.
Invero questa distinzione presuppone un complesso sviluppo istituzionale che il popolo d'Israele non percorse come lo percorsero i Greci, che dai primi albori del periodo storico, cioè alla fine del sec. IX, al secolo IV a. C. conobbero i più diversi regimi, dalla monarchia patriarcale alla democrazia, dall'aristocrazia alla tirannia, sui quali la speculazione politica poté svolgere indagini e costruire i suoi schemi. Alle lotte civili del tempo sono corrispettive le manifestazioni di convincimenti politici degli scrittori ellenici prima di Aristotele. Evidentemente la monarchia patriarcale già era in declino, senza fascino ormai, quando Esiodo ammoniva di stare lungi dai re, venditori di giustizia e divoratori di doni. In Archiloco appare per la prima volta la parola non greca di tirannide a designare la degenerazione dell'istituto monarchico. Giudizî che hanno un valore essenzialmente prammatico, come ancora quello di uno dei saggi della Grecia, forse Pittaco, il quale dice essere la tirannia un bel paese, nel quale entrati, non era facile uscirne.
Valore germinalmente scientifico ha una discussione, che riferisce Erodoto, attribuendola a tre signori persiani, sui pregi e difetti della monarchia, dell'aristocrazia, della democrazia: importante testimonianza che la tricotomia che Aristotele sistemerà era già acquisita da tempo al patrimonio culturale greco. Naturalmente i Persiani concludono la disputa favorevolmente alla monarchia. Notevoli altresì le osservazioni dei sofisti contro il principio di autorità, che infine scuotevano la monarchia tradizionale e aprivano la via alle affermazioni democratiche.
In Platone non è una sicura classificazione delle forme di governo in generale e della monarchia in specie. All'aristocratico pensatore balenava l'ideale di una società dove gli eletti, sapienti e guerrieri, governassero; quindi da lui l'istituto monarchico era veduto più che altro negli aspetti degenerativi. Non esclude anche nel dialogo Della repubblica un regno dove il potere sia ripartito con i consiglieri; certamente a lui congeniale è l'aristocrazia. Il regime dei sapienti, osserva, forse è esistito nell'età dell'oro; dopo i guerrieri si sarebbero a quelli sostituiti e avrebbero generato la timocrazia (età dell'argento). Sviluppatasi nei guerrieri l'avidità della ricchezza, sarebbe stata l'oligarchia (età del rame), e quindi, essendosi i poveri imposti ai ricchi, la democrazia avrebbe governato (età del ferro). La degenerazione della democrazia avrebbe aperto la via alla tirannia, peggiore di tutti i governi, poiché il tiranno è ostile a coloro che comunque eccellano, per virtù, ingegno, ricchezze. Nelle Leggi diversi sono gli apprezzamenti di Platone. Due sono le forme di governo essenziali, la monarchia, ove l'autorità scende dall'alto al basso, e la democrazia, ove di contro viene trasmessa dal basso all'alto; consigliabile come più giovevole socialmente il contemperamento dei due sistemi, un ordinamento di governo che potremmo dire una monarchia temperata di aristocrazia, in cui la custodia delle leggi spetti a un consiglio di sapienti. È questo uno dei primi esempî di "stato misto", teoria sulle forme di governo che attraverso il Medioevo perverrà al Rinascimento, il cui significato non è tanto di darci una forma peculiare di governo accanto alle altre, quanto piuttosto di creare un equilibrio di poteri e di funzioni che possa assicurare i cittadini contro le degenerazioni degl'istituti politici. In questo senso annuncia le moderne costruzioni giuridiche costituzionali.
In Aristotele confluiscono tutti gli elementi del pensiero politico precedente che si maturano in un vivo intuito della realtà storica. È troppo nota la sua tricotomia di monarchia, aristocrazia, democrazia, con le corrispettive degenerazioni di tirannia, oligarchia, demagogia. In ogni costituzione si attua un certo grado del giusto, come pure è aperta la via all'ingiusto, ma solo in quella legittima il giusto si avvia alla perfezione. Deontologicamente la sovranità si deve attribuire alla collettività, poiché un complesso è migliore dei singoli e del singolo, e le parti di virtù di ciascuno compongono la virtù totale dello stato, con questa integrandosi. Ove Aristotele tende alla democrazia contro l'aristocrazia platonica e l'ideale tradizionale della monarchia patriarcale. La monarchia non gli è congeniale, se esaminando l'ottima forma di governo, non assoluta ma storica e relativa, inclina a una costituzione mista di aristocrazia e di democrazia.
Alla monarchia in sé Aristotele dedica acute osservazioni. Tra le forme rette la monarchia è fondata sul merito. Il re è il protettore dei cittadini. Tuttavia, mentre il regno ha gli stessi vantaggi dell'aristocrazia, la sua degenerazione, la tirannia, ha gli svantaggi di questa e della democrazia. La tirannide è simile all'oligarchia, perché si fonda sulla forza, soffoca la moltitudine, cerca ricchezze; come le demagogia odia i cittadini che in qualche modo si distinguano. La monarchia rovina trasformandosi in tirannide, si conserva a lungo quanto più è limitata nei suoi interventi.
La teoria dello "stato misto", che il pensiero greco classico elabora, riceverà in Polibio la sua migliore espressione con riferimento alla costituzione romana. Secondo Polibio la monarchia è la prima forma storica di governo, da cui per corruzione nascono le altre in ciclo necessario. A Roma ciò non è avvenuto, essendosi tutte e tre le note forme di governo contemperate saggiamente. Nello stato misto romano i consoli rappresentano il principio monarchico, il senato l'aristocratico, i comizî il democratico. Dottrina, questa, che, accolta anche da Cicerone, incontrerà l'acuta critica di Tacito, per il quale l'ipotesi dello stato misto è fantastica, poiché, se pure lo stato misto si realizza, non è durevole.
Nel suo ciclo storico il pensiero greco in tale modo ha posto tutti gli elementi del problema. Nella sua classificazione delle forme di governo ha chiarito pienamente il significato della monarchia e ne ha discusso il valore nei confronti dell'aristocrazia e della democrazia, come pure ha nella dottrina dello "stato misto" posto l'esigenza di una sua limitazione a garanzia delle libertà dei cittadini.
Il Medioevo non ha sostanzialmente mutato la posizione del problema, se non per quanto concerne l'origine del potere monarchico da Dio. Il buon principe non solo si distingue dal tiranno perché mira aristotelicamente al bene del popolo e non al suo proprio, ma altresì in quanto si riconosce investito da Dio di una missione che è dovere. I limiti all'esercizio delle sue funzioni sono morali e religiosi, e costituiscono obbligazioni precise, certo non coercibili nel foro esterno, ma vincolanti in quello della coscienza. Il diritto divino e naturale, che il pensiero medievale elabora, acquista importanza anche nel senso che restringe la sfera di arbitrio del monarca e lo lega al rispetto di certi principî fondamentali d'ogni vita sociale. Se il sovrano si attiene a essi, egli è degno di Dio, da cui mutua il carattere sacro, anzi quasi-sacerdotale, altrimenti è tiranno, figlio del demonio. La posizione peculiare dell'imperatore romano germanico rivela la nuova concezione etico-giuridica dell'istituto.
L'obbligo quindi da parte dei cittadini di rispettare la monarchia è pieno, perché fondato nel foro interno. Sorge di contro il problema della posizione rispetto al tiranno, se sia lecita la resistenza al tiranno e infine l'uccisione di esso. Se l'antichità aveva esaltato la rivoluzione per la libertà e il tirannicidio, il cristianesimo non poteva non esprimere diverse vedute, ma, nonostante la condanna di S. Agostino, non tardarono a manifestarsi numerose concessioni in contrario. Grande importanza perciò acquistano i criterî per definire come e quando la monarchia degeneri in tirannia. Mentre il mondo classico sostanzialmente si attenne a un apprezzamento etico, per cui caratteristiche della tirannia sono l'ingiustizia, la crudeltà, la violenza nell'esercizio del potere, il Medioevo continua con S. Agostino la tendenza accennata, in quanto tiranno è sempre il principe malvagio resistente alla Chiesa. Attraverso numerose formulazioni conciliari la dottrina appare in Incmaro di Reims, Manegold di Lautenbach, infine è pienamente svolta da Giovanni di Salisbury. L'abbandono del criterio morale per uno formale appare in Marsilio da Padova, che distingue il governo monarchico da quello tirannico con riferimento alla volontà dei cittadini; primi accenni di quello sviluppo, che dall'ultimo Medioevo al primo Rinascimento affermerà un criterio strettamente giuridico con Bartolo da Sassoferrato e soprattutto con Coluccio Salutati. Se Bartolo scrive: "est tyrannus qui non iure principatur", per Coluccio è tirannico il governo acquistato "non iure" e "non iure" esercitato, con la conseguente distinzione di tirannia "ex defectu tituli" e tirannia "ex parte exercitii".
Abbiamo accennato al problema della tirannia come quello attraverso cui l'esigenza di legalizzare l'attività monarchica s'infiltra nel Medioevo, ma accanto a essa altre ne sottentrano non meno importanti. La dottrina dello "stato misto" anche con S. Tommaso significa non democratica partecipazione del popolo al governo, ma correttivo alla tirannia, temperanza nell'attività di governo, legalità in una parola. Lo stesso governo misto svolto nella Summa non è in antitesi con la distinzione svolta nelle parti De regimine principum, che di solito si attribuiscono a Tolomeo da Lucca, tra "monarchia politica", in cui i reggitori "legibus adstringuntur" e non possono "aliquam facere novitatem, praeter legem conscriptam", e "dominium regale" in cui la volontà del sovrano "pro lege habetur". Ove traluce l'esigenza di una monarchia sottoposta non solo al diritto divino e naturale, ma anche al positivo, lo "ius terrae" dei popoli germanici, il diritto romano comune per i latini. Il dualismo che troviamo nell'Occam tra "principatus dominativus", "qui est respectu servorum", e "principatus ministrativus", "qui est respectu liberorum", si riconduce alla distinzione di S. Tommaso, come pure le più profonde osservazioni di sir John Fortescue, che tra il "dominium regale" e quello "politicum" inserisce il "dominium regale et politicum". In tale modo una delle prime formulazioni teoriche del costituzionalismo inglese si ricollega alla trattazione tomistica della monarchia.
Se l'ultimo Medioevo e il primo Rinascimento sentono viva l'esigenza di una crescente legalizzazione dell'attività monarchica, il Rinascimento nei suoi maturi sviluppi potenzia l'istituto anche nelle forme assolutistiche, in quanto attraverso esso s'impone l'unità dello stato. Se talora l'aspetto della tutela giuridica sembra obnubilato, in realtà finisce con affermarsi. Comunque, per il Rinascimento il problema è altro. Il principe rappresenta l'unità dello stato, e l'eccellenza della monarchia nei confronti delle altre forme di governo è appunto nella maggiore sua aderenza all'unità che più perfettamente assicura. Il principio unitario, che già in Dante aveva avuto un'esplicazione etica universalistica eccellente, è ora esaltato rispetto agli stati particolari, fuori dell'ambito dell'impero, in quanto, essendo ciascuno un perfetto organismo, meglio questi adegua. Si spiega quindi come Patrizi esalti il regno, e con lui il Platina, Diomede Caraffa, il Panormita, Enea Silvio Piccolomini.
In Machiavelli ritorna il problema della classificazione. Se nei Discorsi appaiono motivi aristotelici, polibiani, ciceroniani, e lo "stato misto" è ancora l'ideale civile (come lo era stato per Savonarola e lo sarà per Guicciardini e Giannotti, non solo sull'esempio romano, ma su quello contemporaneo di Venezia), nel Principe ritiene gli stati essere o principati (monarchie) o repubbliche, e propende per i primi. Ma il problema è secondario di fronte a quelli più ricchi della sua politica, che oltre la classificazione attinge la realtà effettuale, anzi la categoria della vita sociale.
Realista come Machiavelli, il Bodin accoglie la tripartizione aristotelica, ma nega la possibilità di una forma mista e conclude con l'esaltare la monarchia. Infine Montesquieu distingue, correggendo Aristotele, la monarchia dalla repubblica e dal dispotismo. Ciascuno ha un suo particolare principio: la prima l'onore, la seconda la virtù, il terzo la paura. Tripartizione artificiosa, che ebbe ai suoi tempi favorevole accoglienza, come l'altra teorica della divisione dei poteri, che, riprendendo motivi della dottrina dello "stato misto" in una inadeguata interpretazione del regime inglese, rappresenta un'esigenza di più affinata ulteriore legalità nella vita pubblica. Comunque, l'ideale di una monarchia, astretta al diritto, costituzionale, era sorta, attraverso i più varî apporti, che dalle origini greche abbiamo fin quì svolti. Nell'abbandono dei criterî moralistici e religiosi, un crescente influsso di elementi giuridici seguiva l'imporsi di motivi di giustizia nella prassi monarchica.
È questa l'importanza di ogni trattazione sulla monarchia, più che quella astrattamente classificatoria, di necessità inadeguata a cogliere la realtà. Invero anche le dottrine sullo "stato misto", sulla monarchia costituzionale, sono indagini de optimo statu, ma per lo meno adombrano ideali vivi e operosi, mentre le classificazioni appaiono schemi e tipi che mortificano la vita. In tale senso la critica del Vico alle ideologie è decisiva e rappresenta il trapasso dalle costruzioni politiche e giuridiche alla considerazione veramente scientifica degli stati, che oltre le forme astratte rivelano un' ineffabile natura. È questa la critica del pensiero moderno. Come discutere l'eccellenza della monarchia sulla repubblica, quando col nome generico di monarchia si comprendono entità diverse e un presidente di repubblica ha talora più autorità che un re costituzionale? D'altra parte, se abbandoniamo il problema della classificazione, il concreto esame delle istituzioni rivela tendenze generali che la scienza può approfondire e alla filosofia offrono spunti critici notevoli. Ma il giudizio in tal caso è più che altro storico.
Bibl.: Una vasta documentazione dei problemi accennati è in tutte le storie del pensiero politico, cui rimandiamo. Accenniamo solo ad alcune trattazioni speciali: F. Filomusi Guelfi, La dottrina dello stato nell'antichità greca, Napoli 1873; E. Ciaceri, Il trattato di Cicerone "De republica" e le teorie di Polibio sulla costituzione romana, estr. dai Rendiconti della R. Acc. dei Lincei, Roma 1918; G. Bo, Il pensiero di S. Tommaso d'Aquino sull'origine della sovranità, estr. da La scuola cattolica, Milano 1930; A. Passerin d'Entrèves, San Tommaso d'Aquino e la costituzione inglese, estr. dagli Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, Torino 1927; E. Emerton, Humanism and Tyranny, Cambridge 1925; F. Ercole, Il "Tractatus de Tyranno" di C. Salutati, in Da Bortolo all'Althusio, Firenze 1932, pp. 214-390; F. v. Bezold, Republik und Monarchie in der italienischen Literatur des XV. Jahrh., in Historische Zeitschrift, LXXXI (1894); F. Battaglia, La dottrina dello stato misto nei politici fiorentini del Rinascimento, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, VII (1927); M. E. Carcassonne, Montesquieu et le problème de la constitution française au XVIIIe siècle, Parigi 1927. Per al parte sistematica: G. D. Romagnosi, La scienza delle costituzioni, Firenze 1850; C. Balbo, Della monarchia rappresentativa in Italia, Firenze 1857; G. Cornewall Lewis, Qual è la miglior forma di governo, tr. it., in Biblioteca di scienze politiche, s. 1ª, II, Torino 1886; E. Brunialti, Le forme di governo, pref. al cit. vol. della Bibl. di sc. pol.; E. Beratzik, Republik und Monarchie, Friburgo in B. 1892; S. Scolari, Il regno e la sociocrazia in Italia, Venezia 1892; F. Racioppi, Forme di stato e forme di governo, Roma 1898; E. Crosa, Sulla teoria delle forme di stato, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, XI (1931).
Oriente.
La conoscenza delle concezioni e della pratica della monarchia nell'antico Oriente è importante, oltre che in sé, per il fatto che sulle antiche monarchie orientali ebbero a modellarsi, nella civiltà greca, gli stati ellenistici e, attraverso questi, sia pure con adattamenti e introduzioni di elementi nuovi a essi peculiari, da un lato lo stesso impero romano specie nelle fasi più tarde della sua evoluzione, dall'altro gl'imperi bizantino e sassanidico, da cui parzialmente raccolse la stessa eredità nella pratica, se non nella teoria, il califfato islamico. È quindi questa una linea di sviluppo che, partendo dagli antichi imperi d'Egitto e dell'Asia anteriore, giunge, attraverso la civiltà greco-romana, allo stesso mondo medievale e moderno, nel quale si dissolm o sopravvive come puro relitto formalistico, sopraffatta da altri elementi e concezioni statali, religiosi e sociali.
Egitto. - L'antico Egitto ci presenta già elaborato in uno dei più classici esempî il fenomeno della monarchia per diritto divino, inteso non già quale favore largito dalla divinità a creature da essa elette al governo degli uomini, bensì nel senso d'una pura e semplice assimilazione del monarca alla divinità stessa.
Il faraone è un'emanazione in terra dell'essere supremo, come è provato tra l'altro dalla sua titolatura; tre su cinque dei titoli costituenti "il grande nome" rappresentano infatti; il sovrano come incarnazioni di divinità, del dio-falcone, della dea-avvoltoio Nehbije, della dea-serpente We'sôje, di Ḥōr e Seth; il quinto lo dichiara figlio carnale di Rîe, il dio-sole di Eliopoli. Attraverso tutte le concezioni teologiche che si rispecchiano nella complicata onomastica regia, resta fisso il punto che la persona del sovrano è considerata o come la divinità stessa creatrice incarnata, o come suo materiale figliolo. Il re, investito, con la consacrazione eliopolitana, di tutti gli attributi magico-religiosi inerenti alla sua qualità divina, riceve quindi proprio culto ed esercita nello stato un potere che, teoricamente, non conosce limiti di sorta.
Assiria e Babilonia. - La monarchia assiro-babilonese non presenta, almeno inizialmente, una così assoluta identificazione del sovrano con la divinità, ma a essa giunge attraverso il concetto, a lei caratteristico, del re-sacerdote, ministro e agente del dio, e infine a lui assimilato.
Il re, nella sua qualità di vicario della divinità, si chiama patesi. L'assimilazione appare già compiuta nei re accadici (metà del terzo millennio a. C.) della Babilonia settentrionale, e di lì passa ai re sumeri della meridionale, senza peraltro mai obliterare del tutto l'originario carattere del re sacerdote. La monarchia accadica e sumera non è, in linea di principio, meno assoluta di quella egiziana. Il re è proprietario del paese, se anche il principio è temperato da uno sviluppato sistema feudale. Ma gli inizî d'una più evoluta coscienza giuridica e morale, quale si manifestano nella legislazione babilonese, creano un sistema di definiti rapporti tra il sovrano e i sudditi che mostra attenuato il regime del puro arbitrio sovrano dominante in Egitto.
Ebrei. - Le concezioni religiose ebraiche erano da un pezzo assurte al rigoroso monoteismo, allorché le condizioni politiche e sociali di quel popolo deteminarono il sorgere dell'istituto monarchico; esso fu quindi completamente esente dal concetto del monarca come dio-incarnato, e da principio, secondo la ben nota ripugnanza dei nomadi al monarcato, fu anche lontano dall'assolutismo delle più antiche monarchie orientali. Il passaggio dal "giudice" ascoltato e obbedito per senno e valore in Israele, al re consacrato da Dio attraverso il suo profeta e conservante ancora in parte l'aspetto d'un capo tribale (Saul), e da questo al re assoluto (Davide, e più ancora Salomone) fu graduale, e non senza contrasti. Le sorti fortunose della monarchia ebraica, spezzatasi in due rami appena raggiunto il suo apogeo, e decaduta rapidamente sino al suo tragico sfacelo, mostrano fra l'altro la poca stabilità raggiunta dall'istituzione nonostante le poche grandi figure in essa affermatesi, e l'ereditarietà che, nel regno di Giuda, mantenne sino all'ultimo il trono alla casa di Davide.
Persia. - Nettamente "terrena", benché assurta a perfetto esemplare di monarchia assoluta, e di più durevoli influssi sugli stati e civiltà che le succedettero, fu la monarchia persiana. Il re Achemenide, il βασιλεύς per eccellenza dei Greci, si afferma nelle sue iscrizioni fedele suddito e devoto di Ahuramazda, e per sua grazia investito del regno. Simbolo mistico di questa investitura divina è l'aureola regale (khvarenō) che recinge il capo del sovrano, e sfugge agli usurpatori, celebrata dall'epos iranico. Il principio della ereditarietà nella casa regnante è rigorosamente osservato.
Il potere del gran re si esercita sul vastissimo impero attraverso i satrapi, e lo sviluppatissimo servizio della posta ufficiale. La buona amministrazione, la tolleranza nazionale e religiosa, le eminenti personalità di Ciro e Dario, il cui ricordo durò lontano, fecero della monarchia persiana, grazie anche ai più stretti rapporti col mondo greco, il tipo classico della monarchia assoluta orientale. Essa rivisse in terra iranica, al chiudersi del periodo ellenistico e arsacidico, con la dinastia dei Sassanidi, che per molti lati rinnovò, come concezioni e pratiche statali e amministrative (con in più una rigida ortodossia religiosa, sconosciuta agli Achemenidi), l'antico modello. E la reviviscenza sassanide della vetusta tradizione dell'assolutismo orientale agì appunto sullo sviluppo della monarchia islamica.
Islām. - La monarchia islamica sorse dapprima su tutt'altre basi e presupposti (l'individualismo anarchico dei semiti beduini piegato a unità politico-religiosa dalla predicazione di Maometto), ed ebbe inizialmente l'aspetto e la pretesa di una "monarchia universale" della comunità islamica, estendibile a tutta la terra; protettrice e propagatrice, ma non incarnatrice né interprete della religione, e ignara (nell'Islām sunnita od ortodosso) di qualsiasi legittimismo dinastico. Ma con graduale processo l'influsso della tradizione orientale volse nella pratica anche il califfato all'antico ideale del monarcato assoluto, nonostante la vivissima ripugnanza degli ambienti devoti, che tennero sempre a contrapporre il califfato ideale (imāmah) al potere regale tirannico e areligioso (mulk). Gli sforzi della dinastia degli Omayyadi per la creazione della monarchia assoluta furono praticamente realizzati dagli ‛Abbasidi, e, quando l'unità politica dell'impero islamico si spezzò, l'istituto monarchico così consolidato si trasfuse nei numerosi stati sorti dal suo seno e nei suoi territorî: ultimo in ordine di tempo, e maggiore per grandezza, l'impero dei Turchi Osmanli, giunto sulle antichissime basi autocratiche alle soglie dell'età moderna.
Per particolari sull'organizzazione aulica e amministrativa di queste varie monarchie, v. corte e le voci comprensive dedicate alle singole civiltà.
Grecia.
Monarchia greca e polis greca. - L'età micenea, che si riflette nella poesia eroica di Omero, è monarchica. Monarchica è la civiltà che tiene dietro alla conquista di Alessandro il Grande, del cui impero raccolsero l'eredità i regni ellenistici. Tra le due età ha il suo corso il periodo che nella storia greca è il più originale, l'età della polis. Entro i limiti di tempo segnati, prima e dopo, da una società a struttura monarchica, la civiltà greca è civiltà di polis, l'uomo greco è polites (πολίτης). La polis sorge dallo sfacelo della monarchia micenea; dal fallimento della polis come stato sovrano e indipendente sorgono gli stati ellenistici.
Precisare la nozione greca di monarchia serve a seguire con maggiore aderenza le fasi della storia greca, a intenderne il significato, a penetrare attraverso la cronaca degli avvenimenti l'essenza della spiritualità ellenica. Il concetto di monarchia ha un senso positivo e uno negativo: da un lato è governo legittimo d'origine divina e perciò provvidenziale, anche se non adatto a ogni popolo; dall'altro è antitesi di polis; su quest'antitesi s'imperniano secoli di storia greca.
Nell'ordinamento della polis trova espressione uno spirito nazionale superbo e irriducibilmente esclusivo, che tende a restringere alla nozione di greco la nozione di uomo. Il greco è il rappresentante di un'umanità superiore di cui la polis è il legittimo mezzo di attuazione e il giusto privilegio; trasportata fra i non greci, la polis, organismo essenzialmente greco, non avrebbe né senso, né utilità di funzione, né possibilità di vita. La polis non può sorgere che da un'associazione di uomini liberi; ma, poiché solo il greco è libero per natura (la formula è aristotelica, ma il concetto è anteriore e profondamente radicato), il barbaro, schiavo per natura, nato per essere dominato, ha bisogno di un monarca. Per i Greci monarchia è servitù, per i barbari è provvidenza.
Nel mondo omerico, dove fra uomini liberi regna un monarca, non ritroviamo quello spirito di esclusivismo che creò e sostenne la polis. Quasi ignota è la parola βάρβαρος, usata solo per i popoli della Caria: i Troiani non sono considerati barbari. Gli uomini della polis, che vedevano nella spedizione contro Troia un grande avvenimento della lotta immanente fra il greco e il barbaro, un precedente secolare della guerra persiana, interpretavano Omero con l'orgoglio del loro nobile pregiudizio di cui in Omero non si trova la più piccola traccia. In Omero, lo schiavo non è il rappresentante di un'umanità degradata; e il lavoro manuale non è dannazione e umiliazione. Schiavi e figli di re vivono in comune, lavorano in comune. Nausicaa, è notissimo, lava i panni della famiglia con le ancelle; fa il bagno e giuoca a palla con loro.
Il mondo omerico è un mondo patriarcale; come nella famiglia liberi e schiavi si raccolgono intorno al capo, così la popolazione sta riunita sotto il re "pastore di popoli", dice Omero, "mite come un padre". La casa del re è centro di organizzazione di tutte le attività, richiamo di ogni industria. Si comprende come, venuto a mancare, col decadere della monarchia, il fulcro di quell'antico ordinamento sociale, sorgesse su basi diverse un ordinamento nuovo. Espressione politica di quest'ordinamento sociale nuovo è la polis, la cui esistenza come ente politico sovrano è il necessario presupposto del più glorioso periodo della storia greca. L'esperienza storica della polis culmina nei secoli V e IV; l'ultima fase di questa esperienza coincide con la conquista della Persia per opera di Greci guidati dal re macedone, conquista che, se da un lato fu la più alta affermazione dei Greci come nazione, dall'altro fu la rivelazione del fallimento della polis. Dei due grandi popoli che per tre secoli (VI-IV a. C.) avevano dominato le terre del Mediterraneo orientale, il persiano rappresentante dell'ordine monarchico, il greco rappresentante il principio della libertà nella polis, il popolo della monarchia soggiacque al popolo della polis; ma il principio monarchico trionfò sulla polis.
Allo sfasciamento dell'impero di Alessandro il Grande apparve chiaro che la funzione della polis nella storia greca era ormai esaurita. I nuovi enti politici, nella cui attività si accentra d'ora in poi la storia greca, sono regni, non poleis. Le poleis, inserite come organismi minori nella più complessa struttura del nuovo stato monarchico e territoriale (v. città: La città greca), vivono con politica di satellite nell'orbita della potenza di quegli stati, pure conservando un' autonomia municipale, fantasma dell'antica libertà. Nelle nuove monarchie, assimilatrici e livellatrici, con la degradazione della polis viene a mancare la base di quell'esclusivismo nazionale che solo all'uomo greco attribuiva i requisiti di un'umanità perfetta. Sorti come stati greci, ma in terre prevalentemente non greche, le monarchie ellenistiche resero possibili e normali i contatti fra popoli di nazionalità e di tradizioni diverse. Mentre la polis, nel periodo della sua piena efficienza, ha nel fatto di essere greca la ragione del suo sussistere, la monarchia ellenistica è cosmopolitica; ora, siccome la monarchia svaluta e assorbe la polis, lo spirito di cosmopolitismo, che caratterizza la civiltà ellenistica, pervade anche la polis e gli uomini che la costituiscono. E in questo mondo cosmopolitico alla concezione di uomo polites si sostituisce una nozione di uomo intesa con un senso di umanità più vasto: mentre l'uomo della polis - libero per natura, greco e cittadino - pose come tema quasi esclusivo della sua speculazione e della sua arte l'uomo, che è poi l'uomo greco, e gli mancò la simpatia per gli altri uomini e il sentimento della natura e l'interesse per tutta quella parte del mondo esteriore che non ha valore per la polis, l'uomo ellenistico rivalutò il mondo delle cose, sentì l'assiduo richiamo della natura, la gioia dell'intimità, la poesia della vita borghese; s'interessò agli umili e alle cose piccine, ebbe il gusto della varietà, del motivo isolato, della curiosità, del frammento. La poesia e l'arte dell'età ellenistica documentano questa rivoluzione operatasi negli spiriti e ci dànno il senso che col tramonto della polis sia nato l'uomo moderno (v. ellenismo).
Concezione politica della monarchia nei Greci dell'età classica. - Quando si leggono nei poeti greci espressioni di sdegnosa condanna contro la monarchia e il principio monarchico (p. es., Eur., fr. 277, Suppl., 404 segg.), si deve tenere presente che in quei passi si allude sempre al dominio di un solo inter pares, non già in subiectos: si allude cioè all'illegittimo prevalere del tiranno sugli altri cittadini, ai quali, appunto perché fanno parte della polis, spetta la partecipazione ai poteri della polis. Polis e potere personale sono termini antitetici che solo una mostruosità politica puó fare coesistere.
Nei trattati dottrinali il problema concernente il valore del principio monarchico è portato su un campo più vasto e consente delle distinzioni. Il principio di libertà che regge la polis ha le sue radici nel concetto di uguaglianza: il cittadino vale il cittadino: la parità del titolo richiede parità di diritti. La libertà del cittadino è ἰσονομία (= uguaglianza davanti alle leggi), ovvero ἰσοψηρία (= potere di influire col consiglio, con le proposte, col voto sulle deliberazioni collettive). Ma non tutti i rapporti sono costituiti sulla base dell'uguaglianza, né, per conseguenza, il giusto riposa sempre sull'osservanza di un fondamentale rapporto di parità (ἐξ ἴσου δίκαιον). Tra il figlio e il padre, la moglie e il marito, lo schiavo e il padrone corre un rapporto di subordinazione e si applica perciò un principio che non è di uguaglianza e di libertà, ma di autorità e di sudditanza. Fra disuguali l'unico ordinamento legittimo è la monarchia; monarca è il padre di famiglia nei rapporti della famiglia (moglie, figli, schiavi); e il capo di uno stato, quando regni sopra un popolo schiavo per natura: l'uno e l'altro esercitano il potere secondo giustizia, perché i soggetti non possono invocare un principio di libertà che si applica solo inter pares. Illegittima, invece, è la tirannide, che fa valere il principio monarchico fra uguali e sopprime la libertà che dell'uguaglianza è l'essenza e la garanzia. La prevalenza dell'uno sui più, se è giusta, è regno, cioè legittima monarchia; se ingiusta, tirannide. Partendo da questa considerazione, i Greci riconoscevano la legittimità del regno persiano, perché il re di Persia dominava su uomini schiavi per natura, quali sono i barbari; condannavano la tirannide greca che sostituiva il dominio personale al dominio della società dei liberi. Per tale modo, il problema della monarchia è ridotto a problema di sostanza e non di forma; non si condanna il prevalere dell'uno sui più; lo si condanna quando è ingiusto. Ed è ingiusto allorché riduce in stato di subordinazione uomini che per natura hanno il diritto di vivere da pari a pari.
Questi principî, oggetto di convincimenti largamente diffusi, furono poi sistematizzati da Aristotele nella Politica, ma ne troviamo l'affermazione anche in scrittori anteriori (Erodoto, Euripide, Platone, gli oratori attici). Fra le correnti che vi si opposero, la più importante e anche, per noi moderni, la più impressionante, è costituita dalla teoria del diritto per natura (non si confonda col "diritto naturale" che è altra cosa), che Platone fa esporre da Trasimaco nel libro della Repubblica e da Callicle nel Gorgia, e si ritrova in un frammento di Antifonte il sofista, scoperto alcuni anni or sono. Questa dottrina nega l'identità, anche nella polis, fra giustizia e garanzia di parità. La norma che assicura l'uguaglianza di diritti agli appartenenti alla polis e considera un delitto contro la polis il crearsi una posizione di preminenza sugli altri, è legge dettata dai più in favore dei più: è il mezzo con cui la mediocrità della massa impedisce a chi può di eccellere. Ma contro questa norma stabilita per convenzione (νόμῳ) si leva la norma che impera per natura (ϕύσει) e che prescrive di farsi valere per quanto si vale. In nome di questo diritto di natura è giusto che chi ha attitudine a diventare tiranno aspiri alla tirannide: raggiuntala, stabilirà a sua volta una norma convenzionale che renda obbligatorio e regolare il rispetto al suo potere.
Una simile teoria attesta quello spirito d'individualismo che contrasta con l'essenza della polis e trova invece nell'età successiva le condizioni favorevoli al suo pieno sviluppo.
L'individualismo nella polis e nelle monarchie ellenistiche. - La maggiore differenza che passa fra l'organizzazione dello stato a polis e a monarchia, si riscontra nella situazione che l'uno e l'altro istituto creano all'individuo. Nella polis l'individuo non può affermarsi se non attraverso alla polis; anche per il tiranno lo strumento per raggiungere ed esercitare il suo potere individuale è la polis, di cui egli non altera la natura di città-stato, ancorché la ritorca contro le finalità etiche di quell'istituto. L'αὐτάρκεια (il bastare a sé), che è fondamento della polis, si traduce nell'αὐτάρκεια del tiranno, il quale volge a suo vantaggio i mezzi della polis: la libertà sconfinata di lui è la risultante di tutte le libertà che egli ha soppresse: il tiranno sta all'apice, ma non al di fuori della polis; la domina, non la supera; ne paralizza la normale funzione, non la distrugge. Tanto più rimangono nell'orbita della polis e raggiungono attraverso quella la loro potenza quei cittadini che, senza fare violenza alla costituzione della polis, riescono purtuttavia a crearsi di fatto una posizione di privilegio. Tali sono i ῥήτορες, che impongono le loro volontà alla polis, trascinando assemblee e tribunali ad accogliere le loro proposte. Gli scrittori aristocratici, come Platone, non si stancano di ripetere che, come nelle tirannidi i tiranni, così nelle democrazie i retori esercitano un potere assoluto. Non solo nella polis non è possibile raggiungere potenza se non attraverso la polis, ma non vi è diritto elementare e umano che il cittadino possa vedere riconosciuto ed esercitare, se non in quanto egli assume la qualità del polites. Solo in quanto si è cittadini, si hanno diritti e doveri, si è soldati, magistrati, giudici, si ha libertà di parlare in pubblico, si è soggetti di diritti patrimoniali e familiari.
La monarchia ellenistica svincola l'individuo dalla polis. Accade cioè in senso inverso il fenomeno che caratterizza l'affermarsi della polis nel decadere della monarchia. Nella monarchia eroica, che noi conosciamo attraverso Omero, il re, capo di eserciti, non ha ingerenza in ciò che concerne l'attività non militare dei sudditi. Non esiste in quel mondo un rapporto di subordinazione perpetua del cittadino allo stato; l'autorità dello stato non penetra nelle famiglie a indagare e a imporre norme. L'individuo ha vincoli di solidarietà in pace e, tanto più, in guerra, ma nei rapporti con lo stato non ha obblighi astratti indipendenti da una situazione di fatto. Se non c'è guerra, ognuno pensa a sé e difende il suo e i suoi con i mezzi che crede più opportuni. L'ufficio di legare il cittadino allo stato nel mondo greco fu ufficio della polis, non delle monarchie primitive. Ora, quando la polis venne a essere assorbita nelle grandi monarchie postalessandrine, l'ampliamento della base dello stato e la stessa circostanza che il monarca, colui il quale dispone del potere effettivo, è lontano, perché in alto, e rappresenta con la sua persona una condizione irraggiungibile, mentre la polis è ridotta a poco più che un puro congegno amministrativo, l'uomo, straniato dalla vita pubblica, si libera dal vincolo di mediatezza necessaria che lo teneva avvinto alla polis. La polis esercita ancora una funzione intermediaria, in quanto garantisce l'esecuzione dei doveri collettivi verso il monarca (contributi di soldati o di denaro, prestazioni d'opera, osservanza di monopolî), che raggiungono il cittadino mediante la polis. Ma, ormai, per il cittadino l'appartenere alla polis non vale più esercizio di sovranità, ma mezzo di soggezione indiretta, e la preminenza sugli altri cittadini, comunque ottenuta, è povera cosa. Mentre nel periodo in cui la polis è nel suo splendore, l'uomo che ne fa parte è essenzialmente uomo pubblico, nella polis ellenistica l'uomo si concentra nel mondo chiuso del suo vivere privato. I suoi scopi personali, al cui raggiungimento la polis è disadatta e impotente, li raggiunge direttamente; tanto più quanto sono più spiritualmente alti. A ciascuno nel suo piccolo mondo è possibile crearsi quell'αὐτάρκεια che nella polis dell'età precedente era lo scellerato privilegio del tiranno.
L'ideale del sapiente nell'età della polis è il perfetto cittadino a cui la polis offre il mezzo necessario per raggiungere la sua perfezione interiore e la garanzia della sua libertà; nell'età ellenistica, il sapiente, uomo privato e cosmopolita, trova nel microcosmo della sua vita interiore la libertà e la signoria, anche se schiavo, se prigioniero, se povero, se torturato.
Carattere fondamentale e funzione storica della monarchia. - Il carattere comune che consente di considerare insieme regni diversissimi, quali la monarchia micenea (omerica), la monarchia persiana, le monarchie ellenistiche, è la legittimità. Fondamento della legittimità è l'origine divina e la regolarità della discendenza: i re omerici discendono da Giove, i re persiani succedono per prerogativa dinastica (il cambiamento di dinastia dopo la morte di Cambise avvenne con regolarità di forme e col consenso della nobiltà); i sovrani ellenistici appartengono all'aristocrazia macedone le cui famiglie vantavano come capostipite una divinità. I Tolomei si dicevano discendenti da Eracle e da Dioniso, i Seleucidi da Apollo. Quando Alessandro il Grande morì senza lasciare discendenza, i pretendenti al trono cercarono di assicurare la legittimità delle loro pretese aspirando al matrimonio con le donne superstiti della casa reale. Questo carattere di legittimità rese possibile il ricostituirsi dell'ordinamento monarchico, quando la polis mostrò la sua irrimediabile insufficienza di fronte alle esigenze storiche del popolo greco. La tradizione monarchica dell'età eroica e lo spirito monarchico dei Macedoni assicurarono ai regni ellenistici quella stabilità che era mancata alle tirannidi.
Se la legittimità offre al potere monarchico la base del consenso che lo sorregge, la rispondenza a necessità storiche ne rende utile e duratura la funzione. Esigenze di un mondo patriarcale e di un ordinamento di guerra primitivo fecero rispettata e potente la monarchia nell'età eroica; la monarchia persiana risolveva il problema di dare coesîone e un minimum di armonia a un impero latissimo e di composizione eterogenea; le monarchie ellenistiche assolsero il compito di salvare dallo sfacelo l'impero di Alessandro, dando un assetto definitivo e unitario alle terre conquistate da Alessandro.
Ordinamento interno delle monarchie omerica, persiana, ellenistica. - La monarchia omerica, si è detto, ha carattere patriarcale. Il re ha il potere di riunire l'assemblea dei liberi e di sottoporle le deliberazioni più importanti; è giudice, capo di eserciti, sacerdote; quando per un culto particolare non vi sia un sacerdote determinato, è il re che compie il sacrificio. Più potente dei suoi sudditi, è anche il più ricco, perché possiede come proprietà privata un vasto territorio, il τέμενος. Nei suoi consigli è assistito dai capi delle famiglie aristocratiche, i geronti, che deliberano stando a banchetto. Non tutti i re omerici hanno le stesse prerogative: i re achei che combattono a Troia non sono mai ricordati come possessori di un τέμενος; Alcinoo e Odisseo non hanno le prerogative di un sovrano assoluto. Siccome i poemi omerici riflettono condizioni di tempo e di luogo diverse, spesso in modo incoerente, accade di rimanere incerti se il re sia un vero monarca, ovvero la più alta autorità in uno stato aristocratico, come per esempio Alcinoo tra i Feaci. Il titolo di re non è decisivo, perché anche i geronti portano quel titolo.
La monarchia persiana ci offre l'esempio di un territorio vasto abitato da gente di nazionalità e di religione diverse, riunite in un solo impero. L'ordinatore di questo impero fu Dario di Istaspe. Egli divise il territorio in provincie (satrapie) e, per ovviare al pericolo che il satrapo, ricco, potente e lontano dal potere centrale, divenisse un usurpatore, volle tenere distinto il potere civile (affidato a un satrapo revocabile in qualsiasi momento e controllato) e il militare (affidato a un generale). Ogni satrapia corrispondeva al re un annuo tributo in denaro o in natura, e provvedeva alle spese dell'amministrazione provinciale. La storia interna della Persia è caratterizzata dalla costante tendenza dei satrapi a rendersi indipendenti di fatto dal re, esercitando un potere, più che di funzionario subalterno, di monarca. La distinzione fra il potere civile e il militare in pratica non poté essere mantenuta: vi è un contrasto d'interessi fra il potere centrale che vuole mantenerla e il potere locale che tende ad abolirla. Così si ebbero satrapi che disposero di grande potenza militare e persino guerreggiarono fra loro, senza che il monarca intervenisse a sedare il conflitto.
Quando Alessandro il Grande conquistò la Persia, il grosso del nuovo impero era costituito, compreso il regno dei Macedoni, dal territorio di tre regni un tempo divisi e di carattere diverso: la Macedonia, monarchia militare, la Persia, impero mancante di vera unità, e l'Egitto, in cui la tradizione monarchica era antichissima e che, per la sua caratteristica civiltà e per la tenacia della tradizione, dato anche lo scarso potere di assimilazione dell'impero persiano, aveva conservato nella soggezione una immutata facies culturale e religiosa e il suo spirito conservativo: Alessandro vi fu salutato come il divino restauratore. Ai regni conquistati Alessandro lasciò nelle sue linee generali la struttura amministrativa creata dai Persiani, ma affidò ai suoi generali o il governo civile e militare delle nuove provincie, ovvero il solo comando delle forze armate, lasciando a funzionarî locali l'amministrazione civile. Al comando delle maggiori piazzeforti (Sardi, Memfi, Babilonia, Susa, Pelusio) pose un generale che, indipendente dal potere civile e militare delle provincie, fosse ai diretti ordini del re. Per la riscossione dei tributi istituì nuove e più ampie circoscrizioni. Le città greche, che non avevano parteggiato per i Persiani, furono esenti da tributi (ἀϕορολόγηται) e tenute solo a pagare una contribuzione militare (σύνταξις).
Dallo sfasciamento dell'impero di Alessandro sorsero, dopo sanguinose lotte, le tre grandi monarchie di Macedonia, Siria ed Egitto. Monarchia, si è visto, è per gli antichi istituzione legittima e di diritto divino: i successori di Alessandro si facevano tutti, di fronte ai sudditi, forti di un titolo che facesse apparire legittimo il loro potere. Non tutti vollero o seppero imporre il carattere del potere per grazia di Dio nella forma più immediata che è il culto divino alla persona del monarca. Questo per tradizione fecero i Tolomei nell'Egitto, ma solo di fronte alla popolazione indigena incapace di concepire un faraone che non fosse anche dio; alle popolazioni greche fu solo imposto di venerare come divinità i regnanti morti, il che non contrastava con l'uso greco di eroizzare i defunti. L'esempio offerto dai re egiziani fu seguito in Siria dai Seleucidi; non dai re macedoni, che, imponendo il culto divino alla propria persona, avrebbero urtato contro l'avversa disposizione d'animo delle popolazioni.
Il re ellenistico non è (come i re omerici, come Filippo di Macedonia o come Alessandro prima della conquista della Persia) il capo della nobiltà e compagno d'armi dei suoi guerrieri: è qualcosa di più e di diverso. Di fronte a sé non ha che sudditi, dai quali il suo potere lo distacca e lo isola. Della sovranità, oltre alle prerogative, ha anche le forme esteriori, anzitutto il titolo: sino a quasi tutto il sec. IV βασιλεύς, re, per i Greci è il re di Persia, tanto che la parola è normalmente usata come un nome proprio di persona: sulle monete macedoni il titolo di re appare solo dopo Alessandro. Ma ogni monarca degli stati ellenistici, anche dei minori, è re: del re ha le insegne (lo scettro, il diadema, il mantello e il cappello di porpora), le guardie del corpo (σωματοϕύλακες), il contorno di paggi. Segno visibile della sua potenza è il fasto. La vita di corte è ormai lo sfondo in cui il sovrano si muove; tutto intorno a lui è regolato da una rigida etichetta. Il palazzo è un Olimpo; e in quest'Olimpo fanno ora la prima comparsa le regine, che dividono col re gli onori della regalità e, dove è ammesso, del culto divino.
Lo splendore esterno di cui si circonda il sovrano e la sua potenza quasi divina e illimitata non trasformano la monarchia ellenistica in potere sregolato e arbitrario. Anzitutto la rigorosa norma che regola la successione garantisce la legittimità del regnante. Custode di questa norma è il popolo stesso, cioè l'assemblea di uomini liberi (Macedonia), altrimenti l'esercito (Egitto, Siria). Il nuovo re dev'essere riconosciuto come tale dai liberi (assemblea o esercito) del regno: da questi riceve il diadema e il giuramento di fedeltà. implicito infatti nella natura giuridica della monarchia che il potere del re non sopprima la volontà del popolo. A differenza della tirannide, che presuppone un dissidio perpetuo fra governante e governati, la monarchia presuppone il consenso. Non già che il re, voluto, com'è, da Dio, rappresenti il popolo; ma è sottintesa una conformità di volere nel re e nel popolo; e di fronte a gravi soluzioni, il monarca può sempre accertarsi della realtà di questo consenso, interrogando l'assemblea o l'esercito. La sua volontà è legge per i sudditi, ma come gli uomini della polis accettano la legge perché giusta, così i volghi ellenistici s'inchinano senza ribellione alle disposizioni del monarca.
Un potere così grande su territorio così vasto e popolazione così numerosa non poteva essere esercitato senza un complesso di organi amministrativi che facessero capo al re e rendessero possibile e retto l'adempimento delle funzioni regali. In questa età assistiamo al costituirsi di un'amministrazione di palazzo, che è anche amministrazione dello stato, perché il potere dello stato si accentra nel re. Il sovrano è assistito da un consiglio (βουλή) formato da uomini di fiducia; è coadiuvato negli atti del suo governo da un primo ministro, da un capo della segreteria, dal comandante in capo dell'esercito e dal comandante della marina. Anche l'ordinamento finanziario del regno e l'amministrazione della giustizia esigevano un corpo di funzionarî che dipendessero dal re e sbrigassero in suo nome gli affari di loro competenza. Direttamente dal re dipendono anche i capi delle provincie in cui i regni ellenistici son divisi.
Bibl.: I. Kaerst, Studien z. Entwick. u. theoret. Begründung d. Monarchie im Altertum, Monaco e Lipsia 1898; M. Pohlenz, Staatsgedanke u. Staatslehre d. Griechen, Lipsia 1923; U. E. Paoli, Studi di dir. attico, Firenze 1930, p. 197 segg.
Roma.
La tradizione romana narra che la città fu fondata da un re, il quale fu nello stesso tempo il creatore e il primo ordinatore dello stato; la monarchia è quindi congenita a Rona. La stessa tradizione ci ha poi conservato i nomi di sette re romani. Il primo di questi re, Romolo, è generalmente ritenuto il mitico eponimo della città, per quanto una gens Romilia o Romulia abbia dato magistrati a Roma sino al decemvirato legislativo e il nome a una delle più antiche tribù rustiche. Nessun argomento veramente decisivo fu mai addotto contro la storicità dei nomi degli altri sei re romani; nomi che hanno impronta arcaica. Invece è molto difficile ammettere che soli sette re abbiano regnato per un periodo di quasi due secoli e mezzo (la tradizione canonica assegna alla monarchia romana una durata di 244 anni). Può darsi che la cifra sia stata ottenuta, secondo un noto procedimento cronologico familiare agli antichi, attribuendo alla serie complessiva dei re una durata di tante generazioni quanti erano i regnanti e computando tre generazioni per secolo; o che due secoli e mezzo all'incirca siano risultati fra l'anno primo dei fasti consolari (data canonica il 509 a. C.) e l'anno della fondazione della città (754 a. C.), comunque questo sia stato computato. Si può anche pensare che alcuni nomi di re non siano sopravvissuti o perché a essi non era legato il ricordo di avvenimenti memorabili o per altre ragioni; p. es. nel celebre dipinto di Vulci compare un Gn. Tarquinio romano, indubbiamente un re, mentre la tradizione conosce due re "Lucii Tarquinii". Oltre a Remo, fratello di Romolo, ucciso nell'atto della fondazione della città, è ricordato anche un ottavo re, il sabino Tito Tazio, che da un certo momento avrebbe regnato assieme a Romolo.
I moderni distinguono due periodi della monarchia romana: quello più antico dei primi quattro re di stirpe albana o romana o sabina; e quello più recente dei due Tarquinî e del penultimo re Servio Tullio. I Tarquinî, che la tradizione fa giungere a Roma dall'Etruria e che sarebbero di origine greca (corinzî), rappresenterebbero per molti moderni una dinastia o una successione di monarchi etruschi signori di Roma. E non manca chi, con evidente esagerazione, fa fondare addirittura la città dagli Etruschi.
È certo che sotto i re la città di Roma ebbe un grande sviluppo e il suo territorio divenne cinque o sei volte piìi esteso di quello che non fosse in origine, quando esso non giungeva a più di 4-6 miglia dal Palatino. I re in primo luogo distrussero le piccole città latine immediatamente circostanti, e ne aggregarono il territorio al romano; a Tullo Ostilio la tradizione attribuisce la distruzione di Alba Longa e l'estensione del territorio romano sino alla sommità dei Colli Albani; Anco Marzio avrebbe assicurato a Roma il possesso della foce del Tevere, presso la quale egli avrebbe fondato la prima fortezza (colonia), Ostia. Il trattato fra Roma e Cartagine, che Polibio attribuisce al primo anno della repubblica, presuppone un alto dominio di Roma su tutto il Lazio, fino a Circei e a Terracina; e infatti la tradizione attribuisce specialmente ai Tarquinî la fondazione del primato di Roma sul Lazio. Anzi gli originali di un trattato fra il re Servio Tullio e i Latini e di un trattato fra Tarquinio il Superbo e la città di Gabii sarebbero esistiti ancora alla fine della repubblica. A questa espansione territoriale di Roma nell'età regia, corrisponde l'incremento progressivo della città, che infine il re Servio Tullio recinse di mura racchiudenti un'area considerevole (quasi 300 ha.), per quanto non così vasta come quella compresa nella cinta ampliata dell'età repubblicana (427 ha.); Roma divenne quindi nell'ultimo periodo della monarchia la più considerevole città non greca della penisola. Non meno importanti furono i progressi costituzionalí che culminarono, secondo la tradizione per opera dello stesso re Servio, nella sostituzione dell'antico ordinamento gentilizio con un nuovo moderno ordinamento per censo e distretti territoriali, che è di per sé un indice dello sviluppo economico e sociale raggiunto da Roma in quel tempo.
L'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, viene rappresentato come un tiranno e le sue prepotenze avrebbero provocato un rivolgimento politico violento, per il quale alla monarchia fu sostituita la repubblica, come del resto era già avvenuto nelle altre città latine e in buona parte delle città italiche. Il carattere violento della sostituzione è confermato dall'odio fiero che i Romanì ebbero sempre per la monarchia; colui che avesse tentato di affectare regnum era considerato sacer e un antico giuramento avrebbe obbligato i Romani a sopprimere chi avesse aspirato al trono.
I fatti sopra ricordati possono, nella sostanza, essere ritenuti storici, qualunque giudizio si voglia fare dell'attribuzione di essi ai singoli re. E infatti la tradizione non parla più per l'età repubblicana della conquista di Alba e dell'introduzione dell'ordinamento censitario. Altra cosa è invece la ricca materia mitica e leggendaria che serve di fondo alla storia dei re di Livio e di Dionigi d'Alicarnasso; materia che è però per buona parte molto antica, come è dimostrato dai frammenti dei più vetusti annalisti, e alla quale si sovrapposero poi le speculazioni degli antiquarî e dei giuristi antichi e gli abbellimenti della storiografia letteraria. Ma molti critici moderni considerano con grande scetticismo anche fatti come la costruzione delle mura e l'ordinamento censitario attribuiti al re Servio ritenendoli proiezioni nell'età regia di avvenimenti molto posteriori.
L'organismo della monarchia si ricostruisce però non tanto dalla materia leggendaria, quanto dai relitti che la monarchia lasciò negli ordini repubblicani. Il più caratteristico di questi relitti è il rex sacrorum o sacrificulus, un sacerdote al quale erano affidate certe funzioni religiose compiute un tempo dal re e che il conservatorismo religioso romano non riteneva potessero essere celebrate da altri che da un re. L'importanza di questo rex sacrorum venne presto soverchiata dal nuovo capo del culto dello stato repubblicano, il pontefice massimo, che occupò l'antica sede religiosa del re, la Regia nel Foro Romano; ma il rex sacrorum aveva la precedenza su tutti gli altri sacerdoti e l'eponimia, e il divieto a lui fatto di rivestire cariche politiche e di parlare al popolo testimoniano la preoccupazione dei Romani che la dignità religiosa potesse essere strumento di restaurazione regia. Il monarca romano si chiamava rex (cfr. regere), la monarchia regnum, il potere del re imperium (regium). Carattere essenziale della monarchia romana era di essere vitalizia e vitalizio era il rex sacrorum, e il sacerdozio in generale, che conservò più a lungo gli ordinamenti più vetusti. E poiché è principio fondamentale del diritto pubblico romano, che il detentore dell'imperium non può essere messo in stato di accusa, il re è irresponsabile. L'antitesi del re è il magistrato repubblicano, temporaneo e quindi responsabile. Nelle coppie Latino ed Enea, Romolo e Remo, Romolo e Tazio, i due figli di Anco Marzio pretendenti al trono, alcuni moderni videro indizî di un regno con due regnanti, come si aveva a Sparta; altri le considerano invece artificiosi precedenti del collegio dei due consoli. Dai nomi e dal racconto tradizionale sembra poi risultare che la monarchia romana non era ereditaria: solo Tarquinio il Superbo è figlio di Tarquinio Prisco, mentre gli altri re hanno tutti gentilizî fra loro diversi. Il fatto è poi esplicitamente affermato dagli antichi (Cic., De rep., II, 24). Quanto al criterio della scelta, gli antichi concordemente narrano che il re veniva eletto dal popolo (regem populus iussit) e l'elezione era poi confermata dal senato (auctoribus patribus); quindi il re stesso chiamava il popolo a obbligarsi verso lui proponendogli la lex curiata de imperio. La maggior parte dei moderni vedono in ciò un'anticipazione del sistema dell'elezione consolare e del concetto della sovranità dell'assemblea popolare, e ritengono che l'elezione del re avvenisse in altre forme; o per opera del predecessore o, se questo era venuto meno, di un pater in funzione di interrex, oppure sempre per opera di un interrex: tutt'al più il popolo sarebbe stato chiamato ad aver comunicazione dell'elezione e obbligarsi verso l'eletto.
Secondo i Romani, il re aveva omnis potestas, cioè la potestà consolare originaria, libera da ogni limitazione e vincolo di termine, intercessione e provocazione. Ma essi concepivano il potere regio come imperium legitimum, legato cioè all'osservanza delle norme e delle leggi. Pare che in casi, p. es., di dichiarazione di guerra a un popolo legato a Roma da trattato, il re dovesse interpellare il popolo. Egli ha poi il suo consilium, il senatus, nel quale siedono i patres; la nomina dei membri del senato spettava certo al re. Il re poteva guidare l'esercito e nominare gli ufficiali; di questi, i tribuni celerum, cioè i capi dei contingenti di cavalleria forniti dalle tribù, scomparsi dall'esercito repubblicano, sopravvivevano come sacerdoti per certe funzioni religiose. Se il re usciva dal territorio cittadino, nominava un suo rappresentante a custodia della città, il prefectus urbi. Il re poteva richiedere il tributum e le prestazioni di opere; divideva fra i guerrieri la preda bellica, della quale fa parte anche l'agro conquistato, e quindi l'ager publicus. Il re è il primo sacerdote della città. Sue attribuzioni passate al rex sacrorum, erano di annunciare nei primi giorni del mese le feste religiose, la celebrazione di certi riti religiosi fissati nel calendario, la nomina dei sacerdoti come i flamini, le vestali, i pontefici, gli auguri, i feciali. Anche la regina aveva funzioni religiose. La giurisdizione del re era di carattere prevalentemente penale, e si riferiva ai delitti contro la comunità (perduellio) e a quelli che potevano contaminare la comunità nei riguardi degli dei. Egli aveva ius vitae et necis; ma alcuni credono che, almeno per i giudizî più gravi, dovesse intervenire anche l'assemblea. All'epoca regia si fanno risalire (ma c'è chi ne dubita) i duoviri perduellionis e i quaestores parricidii, inquisitori per i delitti di alto tradimento e di omicidio. La giurisdizione civile, come funzione pubblica, era nei tempi più antichi nulla o quasi. Il re poteva infine emanare ordinanze e alla monarchia forse risaliva la lex data, quasi completamente poi sostituita dalla lex rogata comiziale.
Il re era preceduto, secondo gli antichi, da 12 littori (forse però da 24, come poi il dittatore), portanti i fasci con le scuri anche in città. Egli procedeva in cocchio, sedeva su un solium, portava in guerra la trabea (mantello corto) di porpora, in città la toga di porpora, i calzari rossi (mulleus).
La dominazione legale di uno solo, non contenuta in ristretti limiti di tempo, riapparve a Roma nell'ultimo secolo della repubblica: qualcuno attribuisce a Silla l'idea di farsi re. La corona fu offerta a Cesare dai suoi partigiani e si ritiene ordinariamente che egli stesso pensasse di ristabilire la monarchia, almeno per le provincie; l'opposizione rispose con l'assassinio delle Idi di marzo e il nome di rex scomparve per sempre dalla storia romana. Tuttavia soltanto il governo personale di un solo poteva ricondurre la pace e l'ordine a Roma; ma Augusto, ammaestrato dall'esperienza di Cesare, quando divenne l'unico signore dello stato, evitò decisamente le forme della monarchia. Il suo potere legale emanava da alcune potestà che si potevano inquadrare nel regime repubblicano e successivamente rinnovate; il suo potere reale si fondava sulla fedeltà dell'esercito e sul suo prestigio personale (auctoritas), che lo poneva al di sopra di tutti i cittadini (princeps); inoltre la grande maggioranza degli abitanti dell'impero vedeva in lui il salvatore del mondo e un'incarnazione divina. Legalmente egli era quindi un magistrato del popolo romano e il princeps dei cittadini; i poteri gli erano stati deferiti dal popolo e dal senato. Perciò alcuni chiamano quella di Augusto la prima monarchia costituzionale: ciò che è vero solo in un certo senso. I quattro principi della sua famiglia che gli succedettero non ebbero il principato per diritto ereditario, ma legalmente dal senato e dal popolo, in realtà dall'esercito fedele alla memoria di Cesare e di Augusto; ma essi stessi sapevano che anche altri membri dell'aristocrazia avrebbero potuto aspirare al principato. Perciò alcuni di essi pretesero di dare ufficialmente carattere divino alla propria persona, per collocarla in una sfera superiore a quella degli altri cittadini. Ma alla morte di Nerone l'esercito fece valere il criterio che al principato doveva salire il migliore dei senatori, non necessariamente un membro della famiglia di Augusto. Tuttavia Vespasiano, salito al trono in virtù di questo principio, affermò per primo il principio ereditario, aspramente combattuto dall'aristocrazia e dalla filosofia, che vedeva nell'ereditarietà una forma di tirannia. Ciò parve comprovato dal regno di Domiziano, che fu un deciso assertore dell'autocrazia senza freni. Ucciso Domiziano il principato rimase, ma le opposte tendenze parvero conciliarsi nell'idea della βασιλεία del migliore fra i saggi propugnata dagli stoici e dai cinici e divenuta realtà con la monarchia illuminata di Adriano e degli Antonini. Anche il carattere divino del principe fu giustificato con teorie filosofiche, e l'adozione gli permetteva di scegliere e designare come successore il migliore dei senatori. Il sistema fu spezzato da Marco Aurelio, che impose la successione di Commodo perché suo figlio. Aborrito perciò dal senato, Commodo si rivolse all'esercito e diede principio alla monarchia militare, ed esaltò nello stesso tempo il suo carattere sacro, identificandosi con Ercole. La sua soppressione provocò nuove guerre civili, dalle quali uscì Settimio Severo, che doveva il suo potere ai soldati e sostituì definitivamente al principato l'autocrazia militare ereditaria e il culto personale dell'imperatore. Dopo lui, nonostante alcuni passeggieri ritorni al principio della monarchia illuminata, si ebbe un costante rafforzamento dell'autocrazia militare, specialmente con Gallieno e con Aureliano; questi ripeteva il suo potere dal supremo dio solare, e l'imperatore ormai viene detto dominus et deus. Ciò era in fondo anche una semplificazione del concetto della legittimità necessaria in un'età d'imbarbarimento e di decadenza intellettuale, che non poteva più fare suoi i concetti sottili del principato augusteo e della monarchia filosofica. L'ultimo passo fu fatto da Diocleziano e dai suoi successori, i quali adottarono anche le forme corrispondenti al concetto dell'imperatore identificato con Dio ed essere soprannaturale e introdussero il cerimoniale orientale imitato dalla corte persiana, che meglio si prestava al culto della persona dell'imperatore.
In seguito al riconoscimento della Chiesa cristiana per opera di Costantino, l'imperatore dovette rinunciare a essere egli stesso Dio, ma rimase persona sacra che ripeteva il potere da Dio e acquistò nello stesso tempo il sostegno della Chiesa, della quale egli pretendeva di essere capo. Il concetto romano della magistratura imperiale scomparve così definitivamente, sostituito dal concetto della monarchia divina di origine orientale.
Bibl.: A. Schwegler, Römische Geschichte, I, 2ª ed., Tubinga 1867, p. 516 seg.; Th. Mommsen, Römisches Statsrecht, II, 3ª ed., Lipsia 1887, p. 3 seg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 344 seg.; A. Rosenberg, art. Rex, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, col. 703 seg.; P. Bonfante, Storia del diritto romano, 3ª ed., Milano 1923, I, p. 74 seg.; J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino 1926, p. 225. Per il principato e la monarchia imperiale, v. M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, ediz. ital., Firenze 1933, passim, e la ricca letteratura in essa citata; v. anche diarchia; imperatore e impero.
Medioevo.
Si credette già che in Europa alle tendenze monarchiche trionfanti con tendenze assolutistiche nell'impero romano il Medioevo avesse contrapposte tendenze nettamente repubblicane. I Germani avrebbero generamente riposto la sovranità nel popolo: l'organo principale dello stato sarebbe stata l'assemblea popolare. Oggi si dà maggiore rilievo ai principi e ai re (Fürsten e Könige): si ravvisano nel principato e nel regno differenze quantitative, piuttosto che qualitative. Principi e re, ugualmente investiti di funzioni sacerdotali nel gruppo da essi capeggiato, erano anche i condottieri del popolo armato, scelti da determinate famiglie. S'intrecciava il principio elettivo col principio dinastico. I re tedeschi avevano diritti proprî, anche se la loro potestà, trovando un limite nella volontà delle assemblee, non era infinita. Il popolo avrebbe sempre potuto resistere al loro arbitrio.
Durante le invasioni, però, a un rinsaldamento del potere regio spinsero insieme la necessità bellica di una maggiore coesione e disciplina e l'ammirazione della grandiosa compagine politica imperiale con la quale i Germani venivano a cozzare. I Germani orientali toccarono l'impero prima degli occidentali: perciò i regni a larga base appaiono costituiti prima fra quelli che fra questi.
Tipico sembrò già il regno franco, nel quale si vollero scorgere tratti patrimoniali; si affermava che in esso, sorto per iniziativa regia, il re si considerasse come un vero proprietario del popolo e del territorio e che dell'uno e dell'altro avrebbe potuto disporre come il proprietario suole fare della sua cosa privata. Si è esagerato. Se pure passarono al re i poteri delle assemblee, che non potevano ormai più raccogliere tutto il popolo, non si perdette subito il ricordo della loro derivazione popolare: e da quel ricordo derivarono, fra l'altro, limiti riguardanti la definizione del diritto: la volontà regia non fu senz'altro legge. E non il re soltanto fu considerato come fulcro della giurisdizione: si ebbero giudici regi e popolari. Sotto i Merovingi la piattaforma dell'unità politica fu ancora offerta da un nesso federativo fra popoli, che della loro autonomia potevano avere implicito eventuale riconoscimento in quelle divisioni tra i figli del re, le quali parvero già precipuo argomento a favore della patrimonialità.
La stessa base presentò il regno longobardo, che si offre per ciò profondamente diverso dal regno ostrogoto, romanamente ammembrato in territorî che non erano ancora divelti dall'impero.
I maggiordomi dei Merovingi, ottenendo dal papa, dopo la cattolicizzazione completa del popolo franco, l'eliminazione della vecchia dinastia e un suggello religioso all'affermazione della propria, compirono una vera rivoluzione. Sembrò rifiorire in Occidente la concezione ebraica. La potestà regia, pure essendo istituita ad utilitatem reipublicae e per fini essenzialmente mondani, venne a poggiare sulla ordinatio divina. Il regno ebbe i caratteri indelebili del sacerdozio. Venendo meno il limite che già poteva derivare dalla partecipazione del popolo alla sovranità, fu però soggetto al volere divino. E presto accanto al ius divinum gli fu limite anche il diritto posto dal vicario di Cristo nel temporale, cioè il diritto canonico e pontificio.
Il sistema, che si suole dire teocratico, investì allora i regni come l'impero: già per Incmaro il re cristiano era diventato uno strumento per il raggiungimento dei fini cui la Chiesa principalmente tendeva. Un potere esercitato in senso contrario a questi era senza altro riguardato come una tirannia. D'altro canto parvero tiranni anche coloro che al re, diventato tale gratia Dei, avessero contrastato con potenza di fatto mettendo a repentaglio la compagine dello stato.
Il popolo doveva ubbidire. Bastava la responsabilità che il re aveva verso Dio. Si aggiunse poi, logicamente, la responsabilità verso il papa. Il giudizio di questo poté colpire il re anche in vita. Gregorio VII, con particolare rigore, scrollò imperi e regni. Rivendicò genericamente a sé il diritto di sciogliere i popoli dai giuramenti di fedeltà prestati ai loro sovrani. Anche nei regni feudali: in quelli cioè nei quali il sovrano era collocato in cima all'edificio statale, perché a lui, attraverso gradi risalenti, mettevano capo tutti coloro che avevano terre e giurisdizioni, vassalli e sudditi. Monarchia a base fondamentalmente, se non totalmente, contrattuale in cui la fedeltà era garantita da contratto. L'ubbidienza del concessionario del feudo fu subordinata al rispetto dei doveri di fedeltà che pure il signore aveva verso coloro che dipendevano da lui.
Contro la teoria della derivazione indiretta della potestà regia da Dio, sostenuta dai curialisti, sorse però quella che da Dio derivava direttamente anche i poteri del re, chiamato ad agire vice Dei non meno del papa e quella, intessuta spesso con motivi romani, che riconduceva la potestà regia al popolo.
Ancora nei secoli XIII, XIV e XV la monarchia pareva nondimeno la forma preferibile di governo per la sua migliore rispondenza al principio della ordinatio ad unum, garentendo, con una salda compagine dello stato, l'ordine interno e la pace esterna. Anche le tendenze repubblicane dei comuni italiani, finché questi riconobbero un superiore, rispettarono l'ideale monarchico incarnato nell'impero, nella monarchia per eccellenza.
Per evitare scosse, già molti preferivano la monarchia ereditaria all'elettiva: l'ereditarietà era già stata contrapposta sino dal sec. XI a Gregorio VII per contrastargli il diritto d'intaccare il potere regio attraverso la revocazione degli effetti dell'elezione. Perché la monarchia potesse raggiungere i suoi fini, la si volle sempre più forte.
Ogni freno esterno parve insopportabile, sia che derivasse dal papato, sia che derivasse dall'impero; la soggezione de iure non meno che quella de facto. I regni più potenti, sino dal sec. XIII, rivendicavano a sé i poteri dell'imperatore: e la marcia verso l'assolutismo avvenne sotto il motto: rex imperator in suo regno. Così in Sicilia, così in Francia, così in Spagna.
Quando il Rinascimento fece rifiorire l'ideale repubblicano, si cercarono figure miste che assicurassero alla monarchia, sempre preferita per gli stati a larga base, i vantaggi della repubblica: repubbliche con sfumature monarchiche e monarchie con sfumature repubblicane. I seguaci dell'ideale monarchico poterono anche diventare monarcomachi, quando, ribellandosi all'intolleranza religiosa dei re cattolici, scorsero in quelle parzialità una violazione della tutela parimenti dovuta a tutti gli elementi del popolo e quindi una tirannia. Movendo dal dogma della sovranità popolare, spinsero il diritto di resistenza fino alle conseguenze estreme del tirannicidio; ma le loro esagerazioni giovarono probabilmente al trionfo dell'assolutismo (v.). Questo si legittimò appunto attraverso il concetto di una missione superiore attribuita al re. Per essa il Bodin negava addirittura un vero carattere monarchico alle monarchie miste o temperate: il vero monarca non doveva incontrare limiti giuridici al proprio potere.
Ma i limiti non vennero del resto meno dappertutto. Un moto di resistenza agli arbitrî regali svoltosi principalmente fra il 1210 e il 1274 a favore della libertà del regno e della Chiesa, portò a riconoscere, in Inghilterra, il diritto legislativo e quello di approvare le imposte all'assemblea dei vassalli della corona, da cui più tardi si differenziarono le camere dei lord e dei comuni. Ma anche in Germania il potere monarchico trovò un limite nel consiglio o nel controllo degli Stände dell'impero: al Reichstag parteciparono da principio principi, conti, liberi baroni, ministeriali della corona e poi i rappresentanti delle città dell'impero. Nel regno di Sicilia il monarca fu pure sempre tenuto all'osservanza di norme fondamentali, alle quali poteva sempre essere richiamato dai parlamenti. E così nel regno di Sardegna. Anche la Spagna faceva d'altronde partecipare all'esercizio dei pubblici poteri le cortes. Nel fatto, pur riconoscendosi nel re una plena potestas, questa non fu tuttavia, de iure, infinita. La stessa Francia ebbe i suoi etats genéraux, che, dopo lungo letargo, ridiedero segni di vita alla vigilia della rivoluzione francese.
Bibl.: F. v. Bezold, Republik und Monarchie in der italienischen Literatur des XV. Jahrh., in Historische Zeitschrift, LXXXI (1894); A. Solmi, Stato e Chiesa secondo gli scritti politici da Carlomagno al concordato di Worms, Modena 1901; P. Kern, Gottesgadenthum und Widerstandrecht im früheren Mittelalter, Lipsia 1915.
Epoca moderna.
La monarchia, istituzione prevalentemente ereditaria contrapposta nel suo corso secolare alla repubblica, istituzione vitalizia o a tempo, si presenta, considerata sotto l'aspetto giuridico, nel suo svolgimento storico dal Medioevo ai giorni nostri, in due posizioni principali con larghe possibilità intermedie: come istituzione al di fuori o al di sopra dello stato o come istituzione dello stato. È istituzione al di fuori o al di sopra dello stato, e il principe risulta soggetto di una propria potestà, quando il fondamento del potere monarchico si legittima con l'istituzione divina o si considera come un dominium. Al principe compete una potestà suprema ch'egli possiede come un diritto innato anteriore allo stato e a ogni ordinamento statuale, e questa potestà è un attributo inerente alla sua persona. Per di più tale sovranità è considerata come una sua proprietà secondo i caratteri assunti dalla potestà signorile già nel diritto feudale, e la patrimonialità del potere acquista pieno sviluppo con l'applicazione che ad essa si fa dei principî del diritto romano sulla proprietà. Lo stato è pertanto oggetto della potestà del principe. In realtà sino all'avvento dello stato moderno gli elementi teocratici e patrimoniali sono fortemente commisti, mentre l'autorità monarchica si atteggia sotto l'aspetto morale come un'autorità paterna nelle dottrine francesi del Seicento (Bossuet), e nel Settecento, con Federico il Grande, come magistratura, officium publicum, per il prevalere della tradizione romanistica, fortemente sostenuta nel Medioevo italiano anche da Dante. Nelle monarchie napoleoniche si ha un fondamento cesareo, ossia il potere monarchico si legittima col plebiscito. Il principio di legittimità non costituisce un fondamento giuridico della monarchia; è un principio politico, delineatosi agl'inizî del sec. XIX e invocato da Luigi XVIII nel 1804 nella risposta all'incoronazione di Napoleone, quindi assunto dalla Santa Alleanza come principio della ricostruzione europea.
L'istituzione monarchica dimostrò negli ultimi secoli una possibilità larghissima di adattamento alle varie esigenze storiche e politiche, cui conformò quindi la propria struttura giuridica, passando da istituzione extrastatale a istituzione statale. L'evoluzione nel senso moderno si fece dapprima strada in Inghilterra, dove, contro il principio dell'istituzione divina della monarchia affermato da Giacomo I, professato come dottrina ufficiale dalla chiesa anglicana, ancora proclamato dall'università di Oxford nel 1683 nell'immediata vigilia della seconda rivoluzione, si affermò il principio della sottomissione del re alla legge: penetrato definitivamente nel sistema costituzionale inglese dopo la seconda rivoluzione del 1688, quando il voto del parlamento costituì il titolo alla corona per la casa d'Orange. Ancora oggi il titolo legale alla corona britannica è fornito dall'Act of Settlement del 1700. Si addivenne in tale modo a una distinzione fra i due concetti di re e di corona, considerata questa come pubblico ufficio e ricondotta sotto il controllo continuo ed effettivo del parlamento. Le funzioni che alla corona competono vengono sempre più regolate dalle leggi, cosicché si riconosce come prerogativa quel solo potere discrezionale che le leggi non hanno regolato per ossequio all'alta dignità della corona stessa o per una consapevole utilità generale. La concezione organica della monarchia divenne quindi indiscussa negli ordinamenti costituzionali del sec. XIX.
La costituzione francese del 1791, dominata dal principio del potere costituente del popolo, assume la monarchia come una magistratura dello stato, ma per l'accoglimento in maniera quasi meccanica del principio della separazione dei poteri non ha seguito nell'ulteriore svolgimento costituzionale. Somma importanza riveste la concezione del principio monarchico posto a base della carta reale francese del 1814, con cui si ricostituisce l'unità formale dello stato assumendo nella competenza del principe le diverse funzioni dello stato alle quali direttamente o indirettamente partecipa. Secondo questa concezione, esposta con assoluta precisione nel preambolo di detta carta, dovuto a J.-Cl. Beugnot, il principe nella sua plenitudo potestatis consentiva a largire una costituzione, donde risultava in suo favore una presunzione di competenza in tutti quei campi in cui la costituzione non aveva espressamente preveduto una limitazione: concezione questa particolarmente in onore per le dinastie germaniche avanti la guerra mondiale.
Nella successiva evoluzione si fecero strada le concezioni strettamente politiche del patto giurato fra principe e popolo, come interpretazione della costituzione, mentre si tentava da parte dei dottrinarî di comporre nel concetto della sovranità della costituzione l'antitesi fra il principio rivoluzionario del potere costituente del popolo e il principio monarchico. Queste idee dominarono la costituzione francese del 1830. Si elaborava ancora il principio rappresentativo, che prevalse nel movimento costituzionale del 1848: con esso si tentò d'interpretare il principio dell'unità politica dello stato attraverso una rappresentanza dualistica da parte del principe e del popolo.
Qualunque sia la dottrina politica posta a base della costituzione e l'interpretazione data al trapasso dall'assolutismo alla monarchia costituzionale, la posizione giuridica assunta dalla corona nell'ordinamento statuale è quella di organo e la competenza che ne risulta è definita dalla costituzione stessa. La costituzione largita dal principe nella pienezza dei suoi poteri "ottriata", secondo l'antica parola italiana, non importa necessariamente che egli mantenga una posizione al di fuori o al di sopra dello stato. Sotto l'aspetto giuridico non costituisce se non la forma legale per l'instaurazione del novus ordo. Tale è il caso della monarchia italiana dopo la concessione dello statuto. Non sorge dubbio per le costituzioni votate, quale è quella belga del 1831, per cui la permanenza di un potere proprio del principe non trova alcun fondamento.
La monarchia si presenta nel diritto italiano come un'istituzione statuale e il monarca come un organo immediato dello stato; organo, cioè, che ripete la propria esistenza come la competenza all'esercizio delle proprie funzioni dalla costituzione stessa. E questa è la sola fonte per la determinazione degli uffici che individuano l'organo, come ne è il solo fondamento giuridico. Mentre tale posizione è nel diritto italiano dedotta dal sistema in atto, essa è definita nella costituzione belga, che all'art. 78 afferma che il re non ha altri poteri oltre quelli formalmente attribuiti dalla costituzione e dalle leggi. Anche nella costituzione britannica i poteri del re risultano per una parte determinati dal diritto positivo e stabiliti dagli Acts del parlamento: un'altra parte, detta prerogativa, costituisce la quota irriducibile dei poteri storici della monarchia. Il che è da attribuirsi alla continuità storica dello svolgimento della costituzione britannica.
Se, considerata sotto l'aspetto giuridico, la monarchia non ha fondamento all'infuori della costituzione e il monarca si presenta esclusivamente come organo, per cui sono da escludere interpretazioni, comunque trascendenti il diritto positivo, del suo potere, non è meno vero che, quando si consideri l'istituzione monarchica sotto l'aspetto politico, subito emerge la nozione etica e storica della monarchia come dell'istituzione che rappresenta la nazione, la raffigura nel suo passato, la riassume nelle sue più profonde aspirazioni e necessità nazionali. Il fondamento etico e storico della monarchia s'immedesima col più complesso fondamento nazionale dello stato e in questa base razionale e moderna si giustifica e si legittima l'istituzione che, ininterrottamente procedendo da forme ormai superate e incompatibili con la struttura giuridica moderna dello stato, ha rinnovato la sua ragione d'essere nelle esigenze della coscienza storica della nazione.
La monarchia, considerata giuridicamente, è pertanto un pubblico ufficio e le funzioni ad essa devolute costituiscono una sfera della competenza dello stato. Come istituzione, va tenuta distinta dal titolare, in favore del quale il diritto in atto degli stati retti a monarchia determina un ius singulare, ossia un complesso di guarentige particolari o di deroghe al diritto comune (inviolabilità), di deroghe nel campo del diritto privato (diritto di famiglia, disposizione del patrimonio, ecc.), atte a conferire all'istituzione e al titolare di essa quella preminenza che la tradizione storica e le necessità stesse dell'organizzazione statale rendono necessarie.
Nella competenza del re si appuntano tutte le funzioni statali, ma è caratteristica essenziale dell'organo di essere irresponsabile (articoli 4 e 67 dello statuto italiano), per cui ogni atto regio consta di due o più volontà distinte e dichiarate ridotte a unità come volontà complessa dell'organo. Tale esigenza si manifesta con la controfirma ministeriale a ogni atto di regia competenza. La responsabilità ministeriale copre ogni atto della corona e qualsiasi manifestazione anche non scritta.
La monarchia è un'istituzione perenne. A differenza, cioè, di ogni altro organo dello stato, che può temporaneamente mancare di titolare, al re deceduto, o che ha abdicato, succede (ope legis quella persona che in base al diritto positivo è designata per la successione, ed essa entra perciò ipso facto nelle sue funzioni anche prima di ogni formalità; prima, cioè, di avere prestato il giuramento prescritto dall'art. 22 dello statuto italiano. Nel diritto italiano vige la legge salica: il che importa esclusione delle donne e prevalenza della linea diretta sulla collaterale. In altri ordinamenti, quali l'inglese, l'olandese, in mancanza di eredi maschi possono salire al trono le donne. Non vi sono attualmente esempî di monarchie elettive. Nel diritto italiano non esistono norme per il caso di estinzione della famiglia reale. La legge, che dovesse eventualmente provvedere prima che sia deceduto o abbia abdicato il re regnante, avrebbe carattere costituzionale e su essa dovrebbe essere sentito il parere del Gran consiglio del fascismo. Quando una legge non fosse stata emanata e si avverasse la vacanza della corona, non si potrebbe avere se non l'instaurazione di fatto di una nuova forma di governo.
Poiché la monarchia è perenne e non vi è né vi può essere vacanza del trono, essendo il titolare designato dalle norme precise della successione, così vi sono particolari istituti nel caso che il re sia impossibilitato a esercitare le sue funzioni. Gl'impedimenti di ordine giuridico previsti dallo statuto sono l'età minore di anni 18 (art. 11 dello statuto) e la fisica impossibilità a regnare (art. 18). In tale caso il principe maggiore degli anni 21 più prossimo parente nell'ordine di successione al trono o il principe ereditario che abbia compiuto i 18 anni o la regina madre in mancanza di parenti maschi (articoli 12, 13, 14) o, in mancanza anche di essa, la persona designata dalle camere assumerà le funzioni di reggente, eserciterà cioè tutti i poteri che la costituzione attribuisce al re, non potendo riflettersi sulla capacità dello stato la particolare condizione d'incapacità in cui si trova il titolare dell'organo. Il reggente è circondato da tutte le guarentige inerenti alla persona e alle funzioni regie.
Quando non ricorra un'impossibilità giuridica all'esercizio delle funzioni regie, ma una sola impossibilità di fatto dovuta ad assenza del re per viaggi o altro o per l'esercizio di alcuna funzione totalmente assorbente, quale il comando supremo dell'esercito, il re può delegare l'esercizio di alcune sue funzioni a un luogotenente (v. luogotenenza). Oltre un limite materiale fissato dal re stesso, vi può essere ancora un limite territoriale. Nell'esercizio delle funzioni a lui delegate, il luogotenente gode delle prerogative inerenti alla funzione stessa.
La corona può essere dimessa per abdicazione, rinunzia al trono che il re maggiorenne può fare, ma senza alcuna condizione; la quale sarebbe nulla, essendo la monarchia un organo che ripete la sua esistenza come la sua competenza dalla costituzione e non dalla volontà del titolare, ed essendo la successione regolata da norme fissate dalla costituzione e sottratte alla disposizione del titolare.
Le funzioni regie sono esercitate dal governo del re composto dal capo del governo e dai ministri. Il re è parte del potere legislativo, è capo del potere esecutivo e in suo nome si amministra la giustizia. Egli è così l'organo che rappresenta anche dal punto di vista giuridico l'unità dello stato.
Bibl.: A. Morelli, Il re, Bologna 1899; E. Crosa, La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino 1922, e in genere i trattati di diritto costituzionale, fra i quali cfr. S. Romano, Corso di diritto costituzionale, 3ª ed., Padova 1932; O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico, 3ª ed., ivi 1932.