MONALDESCHI, Monaldo
– Nacque presumibilmente intorno al 1260 a Orvieto, da Ermanno di Cittadino, che ricopriva incarichi politici di primaria importanza nel Comune.
Alla fine del mese di aprile del 1298, Bonifacio VIII nominò il M., che apparteneva all’ordine francescano, vescovo di Sovana, nella Tuscia.
Da qualche tempo la diocesi, che dipendeva direttamente dalla Sede apostolica, era vacante in seguito alla decisione del Pontefice di trasferirne il titolare alla sede vescovile di Nola. Con questo trasferimento e questa nomina, caratteristiche della politica di Bonifacio VIII fatta di frequenti rotazioni nelle sedi vescovili della penisola, la sede cattedrale situata nel cuore del contado aldobrandesco, terra ambita da lungo tempo da Benedetto Caetani, veniva occupata da un rampollo della principale famiglia guelfa di Orvieto.
Prima ancora dell’elezione al pontificato, quando era stato nominato da Niccolò IV procuratore per il governo e la difesa della contea di Sovana, che era feudo della Sede apostolica, e aveva cumulato questa carica con quella di tutore di Margherita Aldobrandeschi, ereditiera del contado, Benedetto Caetani aveva concluso un patto con Orvieto: il Comune avrebbe appoggiato il progetto di annessione dei possedimenti terrieri degli Aldobrandeschi al patrimonio dei Caetani in cambio del sostegno da parte di Benedetto al dominio orvietano sulla «Val di Lago», anch’esso territorio appartenente alla Chiesa. Non fu quindi per caso che, poco prima di far accedere un Monaldeschi alla sede di Sovana, Bonifacio VIII avesse effettuato, tra il giugno e il novembre 1297, un lungo soggiorno a Orvieto e che avesse ricevuto, come segno dei buoni rapporti con l’oligarchia locale, le cariche di podestà e di capitano del Popolo. Il M. era quindi un uomo di fiducia del papa.
Un altro orvietano, Zampo, fu nominato vescovo di Sovana dallo stesso Bonifacio VIII quando questi trasferì il M. alla sede arcivescovile di Benevento, all’inizio del mese di dicembre del 1302. A Zampo succederà nella diocesi di Sovana un altro Monaldeschi, cugino del M., Trasmondo.
La nuova sede del M. rappresentava un’enclave del Patrimonio di Pietro all’interno del Regno di Sicilia. Luogo di forti tensioni a causa di questa collocazione geopolitica, Benevento viveva una situazione di conflitto nei confronti dei rettori pontifici. L’ultimo arcivescovo di Benevento eletto dal capitolo, Giovanni da Castrocielo, titolare della sede dal 1282 al 1294, si era fatto difensore delle libertà comunali, e questa posizione l’aveva condotto a subire un processo da parte della Sede apostolica. Alla sua morte, Bonifacio VIII si era riservato di scegliere, con criteri eminentemente strategici, il suo successore.
Il M. divenne il quarto arcivescovo di Benevento nominato, in meno di otto anni, da papa Caetani. La nomina di un arcivescovo estraneo alla vita cittadina, originario di una potente famiglia vicina al papa e alla Chiesa, faceva parte di una politica di pacificazione da ottenere tramite il rafforzamento del potere pontificio sulla città. Nella stessa prospettiva, Bonifacio VIII aveva fatto promulgare, nell’agosto del 1300, una serie di 27 disposizioni destinate a prevenire le frequenti lotte di fazione e le rivolte della città contro l’autorità dei rettori pontifici.
Il 17 genn. 1303 il papa richiese a sette cardinali di trasmettere il pallio al M.; l’11 luglio successivo, solo sei mesi più tardi, inviò a Benevento il cappellano papale e causarum auditor Uguccione Borromeo per compiere un’indagine sul M. a causa delle accuse mosse nei suoi confronti da tre canonici della cattedrale e per le quali veniva richiesto l’intervento della giustizia pontificia. Questo procedimento ebbe una durata straordinaria, tra audizioni di testimoni, udienze cardinalizie e lunghi tempi morti, e attraversò quattro pontificati, perdurando per ventotto anni, ossia l’intera durata dell’episcopato del Monaldeschi. La questione era senza dubbio legata al carattere fortemente conflittuale dei rapporti che intercorrevano tra il M. e una parte della società locale. Come è confermato dal rapporto di un agente del rettore pontificio R. Guilhem de Budos, databile agli anni tra il 1307 e il 1310, l’arcivescovo aveva numerosi nemici in città. Il processo mostra senza dubbio anche la «superbia Beneventanorum» che un altro rettore evocò poco più tardi per definire l’attitudine ribelle dei beneventani di fronte alle autorità esterne alla città.
Secondo la denuncia presentata alla Curia pontificia nel luglio 1303, il M. avrebbe fatto uccidere da due chierici del suo seguito, nella piazza principale di Benevento, un cittadino di nome Nicola Maccabeo, dal nome del quale si può ipotizzare che fosse originario di una importante famiglia nobile del Regno di Sicilia. Almeno due dei tre canonici che sporsero denuncia, Leo di Montescaglioso e Cristoforo Capudferri, appartenevano alla potente aristocrazia locale (un Capudferri, Romano, era stato arcivescovo di Benevento dal 1252 al 1280 e aveva attirato su di lui le ire della Sede apostolica per aver sostenuto Manfredi di Svevia). Oltre all’omicidio, che sembra essere stato il principale motivo della denuncia, il M. si sarebbe reso colpevole di simonia per aver richiesto una notevole somma di denaro a un suffraganeo, il vescovo di Telese, prima della conferma della sua elezione. Inoltre, avrebbe commesso altri crimini ed eccessi non altrimenti identificati.
Denunce di questo genere contro i prelati divennero frequenti dal momento dell’istituzione, da parte di Innocenzo III, agli inizi del XIII secolo, di una specifica procedura destinata al loro esame. In compenso era molto raro che i papi permettessero al prelato chiamato in causa di presentare a sua volta le sue lagnanze contro i suoi accusatori, come fece Bonifacio VIII in questa circostanza. Sotto Benedetto XI, ossia tra ottobre 1303 e luglio 1304, in concistoro, Leone di Montescaglioso accusò il M. di avere commesso nuovi delitti dopo l’apertura della prima inchiesta. Secondo Leone, l’arcivescovo aveva, tra l’altro, ordinato l’assassinio del decano del capitolo, Lorenzo, il cui corpo denudato e fatto a pezzi era stato gettato da una finestra del palazzo arcivescovile. Il procedimento della contraddittoria indagine ordinata da Benedetto XI seguì il suo corso e fu ufficialmente chiuso con un’udienza in Curia alla presenza dell’arcivescovo. Il Papa, tuttavia, non pronunciò alcuna sentenza. Il suo successore, Clemente V, convocò il M. (il quale giunse in Curia quando questa si trovava a Poitiers, ossia tra l’aprile 1307 e l’agosto 1308) e chiese al cardinale Guglielmo Longhi, che aveva istruito l’inchiesta nel 1303-04, di presentare i risultati della sua indagine. Ma anche questa volta non si arrivò a una sentenza. Tale situazione, che potrebbe apparire insolita, non aveva in realtà nulla di eccezionale. Una percentuale molto alta di procedure di questo tipo veniva interrotta dopo le indagini e restava senza conclusione formale né alcuna conseguenza per i prelati che erano stati denunciati.
Eppure, il 19 sett. 1318, Giovanni XXII riprese la questione invitando il M. a presentarsi al suo cospetto ad Avignone. L’ordine di notificare la citazione a comparire fu inviato al vescovo di Chiusi, all’abate di S. Severo, nei pressi di Orvieto, e all’abate di S. Sofia in Benevento: dal che si evince che il M. non risiedeva in permanenza nella sede arcivescovile, ma anche, almeno per una parte del suo tempo, nei suoi luoghi d’origine nella Tuscia. La riapertura del processo si può presumibilmente mettere in relazione con la rivolta dei Beneventani, guidati dal potente nobile Simone Mascambruno, contro il governo del rettore pontificio Uc de Laysac, nel 1316, e con la repressione pontificia che ne seguì a partire dal 1318. Non abbiamo notizie su quale atteggiamento abbia tenuto il M. nel corso di questi avvenimenti: è noto però che egli era, dal 1311, cappellano e tra i consiglieri di Roberto d’Angiò, il quale sembra appoggiasse Simone Mascambruno. Nell’ordine a comparire, Giovanni XXII affermava di aver ricevuto dal cardinale Guglielmo Longhi un rapporto sui reati di cui era stato accusato il M. 15 anni prima, ma anche di essere venuto a conoscenza da parte di persone degne di fede di numerosi crimini ed eccessi commessi più di recente dallo stesso Monaldeschi. L’anno seguente, il 1319, il papa autorizzò il rettore pontificio di Benevento a perseguire gli ecclesiastici colpevoli qualora l’arcivescovo li avesse lasciati impuniti. Tutto ciò fa ritenere che Giovanni XXII avrebbe fatto riemergere la vecchia questione lasciata in sospeso in quanto era molto scontento del comportamento tenuto dal M. nella città sannita.
Il procedimento contro il M. durò ancora tredici anni, la maggior parte dei quali furono trascorsi dal M. ad Avignone. Così, quando nel 1322 Giovanni XXII decise di chiedere a tutti i prelati francescani presenti in Curia di pronunciarsi sulla questione della povertà apostolica, il M. redasse un breve consilium nel quale si pronunciava in favore del carattere non eretico della posizione presa dai Minori più radicali, secondo la quale Cristo non avrebbe posseduto alcun bene terreno.
In un primo tempo il papa fece riaprire il procedimento contro il M. da parte dell’auditore del Sacro Palazzo Pierre Guillaume; in seguito, senza che se ne sappia la ragione, il papa ammise un canonico beneventano, Simone di Toro (il cui nome si collega a un feudo dell’abbazia di S. Sofia), a seguirlo non più secondo la modalità dell’inquisizione, ma conducendola come parte nell’ambito di un processo di tipo accusatorio. In presenza del cardinale Bertrand de Montfavès, incaricato dal papa, Simone riprese le vecchie accuse contro il M. richiedendo la sua sospensione e la condanna a una forte ammenda. Da una lettera pontificia datata 1328 si apprende che il vicario dell’arcivescovo di Benevento, nonostante l’intervento della S. Sede, aveva privato il canonico accusatore di tutti i benefici, evidentemente a scopo di ritorsione. Infine, nel 1331, la querela di Simone di Toro fu respinta in mancanza di prove, e al M. fu imposta la purgatio canonica. L’arcivescovo si impegnò in un primo tempo ad assolvere questo obbligo in Curia, ma Giovanni XXII gli impose di assolverlo a Benevento, dove avrebbe dovuto trovare degli eminenti compurgatori in grado di provare la bontà della sua vita e dei suoi costumi al tempo dei fatti che gli venivano imputati, che, si ricorda, erano avvenuti ventotto anni prima. Le sole due colpe di cui la purgatio, secondo i principi del diritto canonico, doveva provare senza lasciare dubbi l’assenza di fama erano l’omicidio di Nicola Maccabeo e gli episodi di simonia nei confronti del vescovo di Telese. Ciò farebbe credere che i molteplici procedimenti avevano convinto il papa a eliminare tutte le altre accuse nei confronti del Monaldeschi.
Non si sa se il M., ormai avanti negli anni, abbia cercato di rientrare a Benevento una volta ottenuto il permesso dal pontefice di lasciare Avignone. Ciò che è noto è che egli morì a Orvieto, o nelle immediate vicinanze, tra il 1° e il 26 dic. 1331.
Giovanni XXII, il quale incamerò i suoi beni, e, dopo di lui, Benedetto XII fecero proseguire le indagini sul suo conto anche dopo la morte al fine di recuperare i suoi beni e i suoi debiti sia a Benevento, presso il suo anziano vicario, sia a Orvieto, presso il convento dei frati minori e presso i nipoti Beltramo, che aveva la carica di vescovo, e Manno di Corrado Monaldeschi, signore della città.
Non vi sono molte notizie sull’azione del M. nella sua arcidiocesi e nella città di Benevento, e ancora meno conosciuto è quanto egli fece durante i quattro anni e mezzo in cui fu vescovo di Sovana. Della sua attività si conservano due documenti di concessione di indulgenza in favore della chiesa di S. Cristina di Sepino, nel Molise, uno emesso a Sepino il 22 ag. 1306 e l’altro a Benevento tre giorni più tardi. Probabilmente intorno al 1308, il M. fece edificare il monumentale portico della basilica di S. Bartolomeo a Benevento di cui oggi non resta alcuna traccia. Gli statuti sinodali a lui attribuiti a partire dal XVII secolo non sono stati senz’altro pubblicati in sua presenza, in quanto sono datati al 1331 secondo il Synodicon s. Beneventanensis ecclesie.
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