monade
Dal gr. μονάς «unità», der. di μόνος «solo». Termine usato per la prima volta dai pitagorici per indicare i primi elementi, matematici, dell’Universo. Sotto l’influsso pitagorico, Platone chiamò m. anche le idee, ma solo per designare il loro carattere di indipendenti unità. Nel Rinascimento il termine tornò in uso e con significato più prossimo a quello suo originario, con Niccolò da Cusa e, soprattutto, con Bruno che con esso indicò le particelle minime, animate, indivisibili, di cui sono costituiti i corpi («monas rationaliter in numeris, essentialiter in omnibus»). Ma importanza massima il concetto acquista nella filosofia di Leibniz, che presenta la sua fondamentale concezione metafisico-gnoseologica appunto come una «monadologia». La m. leibniziana è, sì, come sostanza semplice, il costituente ultimo del reale, ma non nel senso della mera estensione. Essa è infatti, anzitutto, centro di consapevolezza, e centro assolutamente autonomo, perché tutto ciò che ella sa di sé, e delle altre m. costituenti con essa l’Universo, non deriva da un influsso della realtà esterna su di essa, ma da uno sviluppo interiore della sua coscienza. Ciascuna m. «non ha finestre», essendo centro di una sfera invalicabile di consapevolezza, che si accresce solo traendo alla luce della coscienza gli infiniti tesori della sua conoscenza inconscia. La realtà e l’esperienza di ogni m., d’altronde, quadrano con la realtà e con l’esperienza di ogni altra m., in quanto lo sviluppo interiore di ciascuna è determinato dall’«armonia prestabilita», opera di Dio «m. delle m.». La concezione monadologica permette così a Leibniz di ovviare al contrasto fra le due sostanze cartesiane, estesa e pensante, mercé una profonda rielaborazione dell’idea occasionalistica (➔ armonia prestabilita; occasionalismo).