Vedi MOHENJO-DARO dell'anno: 1963 - 1995
MOHENJO-DARO (v. vol. V, p. 141)
Nel 1922 durante lo scavo di un presunto monastero buddhista a M., R. D. Banerji aveva scoperto negli strati più bassi resti di industria litica, un utensile di età calcolitica e un sigillo di steatite che portava incisi strani segni di scrittura, noti anche da Harappā e che negli anni successivi spinsero a condurre ulteriori scavi. Nel 1923-24 M. S. Vats compì varî sondaggi nell'area dell'insediamento, estesa più di 100 ha e caratterizzata da gruppi di grandi monticoli artificiali. Dal 1924 si condussero scavi estensivi, sotto la guida dell'allora direttore generale del Servizio archeologico, Sir John Marshall. Dal 1927 ebbero luogo estesi scavi in profondità nella zona Ν della «città bassa» (DK-G) da parte dell'archeologo americano E. J. H. Mackay. Nel 1931 era stato esaminato circa il 10% della superficie complessiva (100.000 m2) dell'area archeologica, ma non era stata effettuata alcuna scoperta sensazionale di templi e palazzi. A parte alcuni scavi minori inediti (p.es. quelli del 1934-36 nella zona Moneer dell'area DK-I), i lavori ristagnarono fino al 1950.
Sir Mortimer Wheeler, l'ultimo direttore del Servizio Archeologico Anglo-indiano, dopo la separazione dalla Corona Britannica, eseguì nel 1950 per conto del giovane Stato del Pakistan nuovi scavi con l'intento di raggiungere strati più antichi. Ma giunti a 7 m di profondità anche questi scavi dovettero essere interrotti poiché si toccò la falda acquifera. Dal 1964-65 sono state effettuate altre campagne di scavo, le ultime sino a oggi, da parte dell'archeologo americano G. F. Dales.
Dal 1979 un gruppo di ricerca tedesco della Rheinisch-Westfálische-Technische-Hochschule di Aquisgrana (RWTH), sotto la guida di M. Jansen, sta lavorando alla documentazione e interpretazione dell'architettura venuta finora alla luce a Mohenjo-daro. La sua attività è stata integrata nel 1983 in un progetto tedesco-italiano (RWTH-IsMEO, Roma) sotto la guida di M. Jansen e M. Tosi, che si proponeva di compiere ricerche di superficie nelle aree del sito non ancora scavate.
Nel corso della storia della ricerca, durata più di 65 anni, l'immagine della città e anche della cultura di Harappā ha attraversato varî livelli di interpretazione. Quella odierna non considera più valida la maggior parte delle interpretazioni tradizionali, sostenute soprattutto da M. Wheeler. Anche la successione stratigrafica avanzata da J. Marshall ed E. J. H. Mackay, secondo la quale vi sono tre periodi di insediamento (Early, Intermediate e Late), ciascuno dei quali costituito da tre fasi (III, II, I), non è più sostenibile nel suo far esclusivo riferimento a misure assolute dalla quota zero e poiché ipotizza solo una crescita verticale omogenea della città. I lavori, durati otto anni, del Forschungsprojekt Mohenjo-daro (RWTH) renderanno comunque possibile una rielaborazione della stratigrafia. In seguito al dibattito critico interpretativo sviluppatosi nell'ultimo ventennio, si dovrà rinunciare spesso ad attribuire precise funzioni a tutte le strutture architettoniche.
Dopo ricerche approfondite e confronti con altri abitati della civiltà dell'Indo è ora evidente che M. risponde a una tipologia urbana consistente in un'area posta a un livello superiore (a O), la «città alta», chiamata anche «acropoli» o «cittadella», e una «città bassa» (a E) separata dalla precedente, dove si trovano soprattutto strutture abitative.
La denominazione «cittadella», scelta da M. Wheeler per la «città alta», va intesa come espressione della sua concezione militare dell'architettura urbana. Se ancora nei primi anni '30 V. G. Childe aveva parlato di una civiltà dell'Indo pacifica, in base al rinvenimento di pochissime armi e all'assenza di un impianto difensivo, nel 1950 Wheeler ritenne invece di aver trovato le mura di fortificazione della «cittadella» di Mohenjo-daro. Le conoscenze attuali non consentono però di mettere in relazione le architetture scoperte da Wheeler con una struttura difensiva.
Sull'acropoli, che si estende su una superficie di c.a 200 x 400 m, costruita su una piattaforma artificiale, si trovano soprattutto strutture architettoniche di funzione particolare, come i c.d. grande bagno, granaio, collegio dei sacerdoti e sala delle riunioni.
Negli anni 1925-26 Marshall aveva portato alla luce il «grande bagno», un edificio che all'interno di un deambulatorio pilastrato presenta un bacino di 84 m2, profondo 2,5 m. Due gradinate che si fronteggiano a Ν e S, ognuna di 9 scalini, scendono all'interno del bacino, le cui pareti rivestite accuratamente di mattoni erano state rese anche impermeabili mediante un rivestimento di bitume. In seguito, nella fase tarda (Late Period), il complesso del «grande bagno» venne così modificato dal punto di vista architettonico da far supporre che gli abitanti di M. alla fine del II millennio a.C. lo usassero per altri scopi e che il significato originario della costruzione non fosse più compreso. Accanto al «grande bagno» si trovava un «collegio dei sacerdoti» e i loro «bagni», che suggeriscono per quest'area della città una determinata funzione cultuale.
Un'altra imponente opera architettonica dell'acropoli è il «granaio», direttamente collegato a O al «grande bagno». Mentre Marshall aveva interpretato la struttura come un bagno ad aria calda, Wheeler pensò che le 27 massicce piattaforme di mattoni, alte c.a 1,50 m e separate da stretti passaggi, fossero da considerare come sostruzioni di un edificio ligneo, dove si conservavano le scorte di cereali della città. Ma oggi tale interpretazione appare assai discutibile non soltanto perché da un punto di vista archeologico non si è potuta dimostrare l'esistenza di un'originaria costruzione di legno, ma soprattutto perché tali architetture sono assolutamente inadatte per l'immagazzinamento di cereali nel clima semiarido del Sind. L'uso a cui era destinato il monumentale edificio (c.a 1800 m2) rimane oggi altrettanto misterioso quanto quello dell'analogo «granaio» a Harappā e del «grande magazzino» a Lothal. È forse ipotizzabile che nelle piattaforme di mattoni, a M. disposte su tre file per nove, siano da riconoscere spazi rituali, sui quali venivano compiute cerimonie religiose nelle vicinanze immediate del «grande bagno». Come quest'ultimo, anche il «granaio» subì una ristrutturazione nella fase tarda della città e perse la sua funzione originaria.
La «sala delle riunioni», nella parte S dell'acropoli, costituisce un'altra struttura architettonica particolare, inizialmente composta di quattro file di pilastri in mattoni, e probabilmente coperta. Marshall confrontò questa sala pilastrata con le sale di riunione nei monasteri buddhisti e Wheeler vi scorse paralleli con l’apadāna achemenide. Tuttavia tale interpretazione, basata su confronti puramente formali, non era desunta dal contesto archeologico, cosicché non è possibile stabilire «se queste riunioni avvenissero in /un qualche contesto rituale» (Jansen, 1987, p. 134).
Sebbene relativamente alle funzioni specifiche degli edifici dell'acropoli numerose questioni siano ancora irrisolte, da molti dati si comprende che nel periodo aureo di M. l'area O, sovrastante la «città bassa», non era utilizzata a fini abitativi, ma come luogo destinato a cerimonie ufficiali e probabilmente anche a rituali religiosi.
La «città bassa», distante circa 200 m dall'acropoli, è stata portata alla luce in cinque grandi aree di scavo, designate da sigle derivanti dal nome degli archeologi che vi lavorarono (HR da Hargreaves, VS da Vats, DK-G da Dikshit e poi Mackay, DK-A-B-C da Dikshit, DK-I da Dikshit, il più tardo MN da Moneer).
Nella planimetria della città si impone con chiarezza la c.d. First Street, una via larga circa 10 m che attraversa da N a S i settori occidentali della «città bassa». Da essa si dipartono stretti vicoli che circondano, svoltando, gli isolati e i quartieri abitativi. Tuttavia per M. e le altre città della civiltà dell'Indo non si può parlare di insulae o di una pianta a reticolato (il «gridiron» di Wheeler), in quanto tutti i vicoli con direzione E-0 procedono tortuosamente oppure sboccano in una strada più ampia con andamento N-S, senza proseguire.
Nella «città bassa» furono portate alla luce in tutto più di 300 abitazioni. Le loro fondazioni sono di tipo molto diversificato, a riflettere la struttura sociale complessa della città. L'abitazione-tipo è composta da più ambienti raggruppati attorno a un cortile interno quadrato. Quasi ogni casa possiede una stanza da bagno, fornita di una pavimentazione in mattoni disposta con cura e di un sistema di drenaggio, nonché un pozzo costruito con mattoni a forma di cuneo. Anche gli abitanti delle case che ne erano prive distavano in media soltanto 15 m dal pozzo più vicino. Il numero di pozzi e bagni, assieme all'impianto monumentale del «grande bagno», indica che gli abitanti di M. legavano la pulizia personale a concezioni e riti religiosi.
La «città bassa» sembra essere stata edificata come l'acropoli su una piattaforma artificiale di argilla, atta a proteggere l'abitato dalle minacciose inondazioni annuali dell'Indo. Poiché le alture naturali nella piana alluvionale dell'Indo sono assai rare e gli edificatori di M. attribuivano evidentemente valore allo specifico genius loci, dove presumibilmente si incrociavano molte vie commerciali, essi dovettero creare artificialmente una piattaforma di sostegno, su cui edificare l'insediamento. Oggi le enormi strutture di sostruzione dell'acropoli e della «città bassa» si innalzano di soli 7 m sulla piana alluvionale, cosicché si ha un'impressione parziale dell'altezza delle strutture della città, che un tempo doveva essere imponente. Se poi si tiene conto del fatto che la città, accanto all'elevazione artificiale, era isolata dal territorio circostante da un fossato riempito d'acqua, scavato per ricavarne l'argilla per costruire le piattaforme, è chiaro che la città non necessitava di fortificazioni per difendersi da attacchi dall'esterno.
Mentre per quanto riguarda l'architettura gli abitanti di M. seppero porsi in un rapporto ottimale con l'ambiente naturale e si servirono quasi esclusivamente delle materie prime che la piana alluvionale poteva offrire, essi dovettero in parte importare da lontano i materiali necessari a produrre utensili di rame, gioielli e altri oggetti d'uso e suntuarî.
Si suppone che uno dei luoghi da cui proveniva il rame fosse la penisola arabica e specialmente l'Oman, dove dal III millennio a.C. venivano sfruttati ricchi giacimenti di questo metallo, esportato sotto forma di lingotti.
Nelle botteghe della città si producevano eminentemente articoli di lusso come sigilli in steatite iscritti con pittogrammi, i c.d. oggetti in ceramica invetriata e in grès, perle ornamentali in pietre semi-preziose e altri oggetti come gli ornamenti ottenuti da conchiglie, particolarmente ricercati quali status symbol, sia in forma di intarsi, sia come ornamenti personali. I grani di corniola tipici della valle dell'Indo, di forma cilindrica allungata e trattati con acidi, venivano prodotti non solo a M. ma anche in altri centri della cultura di Harappā (p.es. Chanhu-daro), da dove venivano esportati fino in Mesopotamia: sono stati ritrovati nelle tombe regali di Ur, datate alla metà del III millennio a.C.
Accanto a migliaia di figurine in terracotta, soprattutto bovini e statuette femminili seminude, che hanno fatto parlare di un culto della fertilità, sono state rinvenute anche piccole sculture in bronzo, steatite e in ceramica invetriata con rivestimento al quarzo.
Fino a ora M. è l'unico centro della civiltà dell'Indo in cui siano state ritrovate sculture in pietra di grandi dimensioni. Fra le 16 immagini a tutto tondo, in parte giunteci in stato frammentario, l'opera più nota è il busto di steatite, alto 17,5 cm, del c.d. re-sacerdote, divenuto il simbolo della cultura di Harappā. La scultura venne detta «re-sacerdote» sia per l'espressione regale del volto, dovuta agli occhi semichiusi, sia per le decorazioni a forma di trifoglio sul corto mantello, un tempo riempite con pasta rossa. Il motivo a trifoglio è noto anche da altre culture del III e II millennio a.C., dove aveva chiaramente un significato astrale. In Egitto e Mesopotamia esso compare soprattutto su immagini di bovini e anche a M. è stato rinvenuto un frammento in steatite raffigurante un toro decorato con motivi a trifoglio (museo di M.: MM 1337, SD 767). Considerando le innumerevoli statuette in terracotta a forma di toro, esso può costituire un ulteriore indizio del fatto che anche nella valle dell'Indo vi fosse un culto indirizzato a questo animale, in parziale relazione con il simbolo del trifoglio. In mancanza di riscontri testuali è certo difficile valutare i tratti ideologici comuni alle culture del III millennio a.C., ma taluni reperti protostorici della Battriana e del Belucistan, risalenti alla fine del IlI/inizio del II millennio a.C., in cui è parimenti attestato il motivo del trifoglio (Dašlï 3; Quetta: periodo Mehrgarh VIII), hanno mostrato che certi concetti spirituali si erano chiaramente diffusi su vaste distanze e per un periodo di tempo assai lungo.
La statua in steatite cui apparteneva il busto precedentemente descritto era probabilmente in posizione seduta o accovacciata, con le mani poggiate sulle ginocchia e le cosce, com'è tipico di tutte le figure antropomorfe intere in pietra di Mohenjo-daro. Questa posizione del corpo trova stretto riscontro nell'iconografia della Battriana verso la fine del III millennio a.C., dove su un boccale d'argento otto figure maschili prendono parte a una «scena di banchetto», che la rappresentazione sottostante consente di interpretare come illustrazione in senso lato di una «festa di ringraziamento per il raccolto».
Quattro delle sculture in pietra di M. mostrano capridi in riposo. Immagini in miniatura di questi idoli in pietra, per lo più in forma di amuleti, sono state ritrovate in molti centri della valle dell'Indo. Anche se il valore simbolico delle sculture e degli amuleti dovrà essere meglio chiarito dalla ricerca futura, il fatto che rappresentazioni del tutto analoghe di stambecchi fossero il tema prediletto nell'arte minore della Battriana indica che tra la valle dell'Indo e gli altopiani dell'Asia centrale meridionale sussistevano legami più stretti di quanto si ritenesse finora.
Non vi è dubbio che M. sia uno dei primi insediamenti urbani pianificati dell'umanità. La città dovette sorgere in tempi brevi attorno al 2400 a.C. Tutti gli indizî rinviano a una sua fondazione su piattaforme nelle vicinanze immediate dell'Indo. Fu la loro straordinaria capacità ingegneristica che permise ai Vallindi di costruire in simili condizioni. I principali presupposti tecnici erano già stati sviluppati da culture precedenti, come p.es. a Mehrgarh, Amri e Kot Diji, ma fu a M. che l'uomo riuscì per la prima volta a collegare gli elementi di una pianificazione urbana razionale, fra cui strade assiali, strutture architettoniche con impianto ortogonale e una notevole densità di edifici, con quelli di infrastrutture perfette, come i condotti di adduzione dell'acqua in città e quelli di scarico all'esterno.
Dopo alcuni mutamenti negli edifici urbani (almeno tre fasi in stratigrafia verticale nella città bassa), attorno al 2000 a.C. ebbe inizio la fase urbana tarda, che si concluse attorno al 1900 in una post-urbana. In quest'ultima fase, pur conservandosi le tradizioni artigianali dell'epoca di Harappā, le grandi opere architettoniche e le infrastrutture sanitarie e di servizî furono abbandonate, tanto che si può parlare di una riduzione della città alle dimensioni di un villaggio. L'ultima fase, successiva al 1800 a.C., trascorse con un'assimilazione locale delle tradizioni trasmesse. Durante il suo corso scomparvero lentamente le tracce della cultura di Harappā. La teoria secondo la quale M. sarebbe stata distrutta dagli Arii vedici è oggi superata, al pari dell'ipotesi secondo cui la città sarebbe stata abbandonata dopo un'inondazione catastrofica. Le testimonianze archeologiche, a parte alcuni resti umani riferibili a un'epoca posteriore, non mostrano alcun segno di distruzione violenta, né per mano dell'uomo, né a causa di forze naturali (v. anche indo, civiltà dello; harappā).
Bibl.: G. F. Dales, New Investigations at Mohenjo-Daro, in Archaeology, XVIII, 1965, 2, pp. 145-150; R. L. Raikes, The Mohenjo-Daro Floods., in Antiquity, XXXIX, 1965, pp. 126-203; A. Sarcina, A. Statistical Assessment of House Patterns at Mohenjo-Daro, in Mesopotamia, XIII-XIV, 1978-1979, pp. 155-199; M. Jansen, G. Urban (ed.), Interim Reports, I. Reports on Field Work Carried out at Mohenjo-Daro Pakistan 1982-83 (IsMEO-Aachen University Mission), Aquisgrana 1984; iid., Mohenjo-Daro, Data Collection, I. Fieldbooks and Concordance of HR-Area, Leida 1985; E. C. L. During Caspers, More on the Stone Sculpture from Mohenjo-Daro, in AnnOrNap, XLV, 1985, pp. 409-426; S. Pracchia, M. Tosi, M. Vidale, On the Type, Distribution, Extent of Craft Industries at Mohenjo-Daro, in J. Schotsmans, M. Taddei (ed.), SAA 1983, Napoli 1985, pp. 207-247; G. F. Dales, J. M. Kenoyer, Excavations at Mohenjo-Daro, Pakistan: The Pottery, Filadelfia 1986; M. Jansen, G. Urban (ed.), Interim Reports, II, Aquisgrana 1987; M. Jansen, M. Tosi (ed.), Interim Reports, III, AquisgranaRoma 1988; M. Jansen, G. Urban (ed.), Site Atlas Mohenjo-Daro, in corso di stampa.