Moda
Fin dai suoi albori il cinema è stato strettamente connesso con la m.: in un film, infatti, l'abbigliamento riveste un ruolo fondamentale, dal momento che il suo compito principale è quello di esprimere l''essenza' del personaggio. Tuttavia è stato solo negli anni Trenta che, grazie all'affermazione dello star system hollywoodiano e al talento di straordinari costumisti, il cinema ha esercitato il maggiore influsso sulla m., fino a imporsi come diffusore di stili e tendenze.
Se lo stile di divi e divine (v. divismo) è entrato a far parte della memoria collettiva, molto spesso ne sono rimasti sconosciuti gli artefici. La scarsa considerazione rivolta ai costumisti è dimostrata anche dal fatto che soltanto a partire dal 1948 venne istituito il premio Oscar per i costumi: alle origini del cinema, infatti, le attrici provvedevano personalmente al loro guardaroba oppure, per i film in costume, ricorrevano alle sartorie teatrali. Solo con lo sviluppo dell'industria cinematografica si affermò la necessità che una figura professionale specifica si dedicasse interamente a mettere in risalto il corpo della diva; nacque in tal modo a Hollywood, nella seconda metà degli anni Venti, la figura del costumista (v. costumi). Più delle grandi firme della moda francese furono allora i costumisti Adrian, Travis Banton, Orry Kelly e molti altri a decretare la tendenza della stagione: non è un caso se proprio in quegli anni vennero creati 'reparti cinema' in quasi tutti i grandi magazzini, affinché si potessero acquistare a prezzi accessibili le copie di abiti apparsi in film di successo.
Se Adrian creò lo 'stile Crawford' e valorizzò l'immagine di Greta Garbo, spetta a Banton il merito di aver ideato per Marlene Dietrich i celeberrimi tailleur dal taglio maschile, mentre Jean-Louis fu il geniale creatore di quell'inimitabile capolavoro di ingegneria che è l'abito di satin senza spalline indossato da Rita Hayworth nella più famosa sequenza di Gilda (1946) di Charles Vidor, e Orry Kelly ideò uno dei tailleur più copiati della storia del cinema: quello indossato da Ingrid Bergman in Casablanca (1942) di Michael Curtiz, film in cui Humphrey Bogart fece diventare dei veri e propri classici il trench spiegazzato e il borsalino leggermente inclinato. Infine Edith Head, forse la più grande costumista che il cinema abbia mai avuto, ideò lo stile esotico di Dorothy Lamour in The jungle princess (1936; La figlia della giungla) diretto da William Thiele.
A partire dagli anni Cinquanta, con il diffondersi della televisione, il carattere del divismo cambiò molto. L'immagine dei divi si fece meno idealizzata, meno inac-cessibile rispetto al passato: iniziava "il tempo dei divi dal corpo 'qualunque', che seducono non più perché straordinari ma perché come noi" (Lipovetsky 1987; trad. it. 1989, p. 225). Non era tanto la gente che voleva somigliare a loro, ma piuttosto il contrario: da modelli, si trasformarono in riflessi. Per quanto riguarda la m., tuttavia, attori e attrici continuarono a costituire i principali punti di riferimento dell'eleganza: Marlon Brando e James Dean, rispettivamente con The wild one (1953; Il selvaggio) di Laslo Benedek e Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata) di Nicholas Ray, diffusero prepotentemente l'abbigliamento informale, caratterizzato da jeans, T-shirt e giubbotto. Inoltre non è un caso che i ruoli di Marilyn Monroe, una tra le più note icone dello stile di quel periodo, fossero spesso quelli della ragazza 'della porta accanto', come in The seven year itch (1955; Quando la moglie è in vacanza) di Billy Wilder, per il quale il costumista William Travilla disegnò il vestito bianco che, sollevato da un colpo di vento sopra le grate della sotterranea, è divenuto uno degli abiti più noti della storia del cinema. E se con la sua bellezza appariscente e sensuale Marilyn Monroe contribuì alla diffusione degli abiti aderenti come una seconda pelle, dei tacchi vertiginosi, dei sandali 'effetto nudo' con intrecci di stringhe sottilissime, degli scolli all'americana, Grace Kelly divenne l'incarnazione ideale dello stile bon ton. Emblemi indimenticabili del suo stile, più volte citato dalla moda di oggi, sono: il filo di perle, il foulard di seta annodato sotto il mento e la borsetta creata da Hermès, poi ribattezzata 'Kelly' in onore della diva. Altrettanto sensuale e memorabile è l'abito bianco dal corpetto riccamente drappeggiato e incrociato sul davanti che la costumista della Metro Goldwyn Mayer, Helen Rose, creò per Elizabeth Taylor in Cat on a hot tin roof (1958; La gatta sul tetto che scotta) di Richard Brooks. La copia dell'abito, posta in vendita nei grandi magazzini, realizzò nel 1958 il record di incassi.
Accanto al glamour delle star hollywoodiane si impose negli stessi anni uno stile tipicamente europeo: Brigitte Bardot, per es., all'indomani dei suoi primi successi cinematografici, lanciò proprio alla fine degli anni Cinquanta la m. della coda di cavallo, delle ballerine e del reggiseno a balconcino a quadretti vichy. Mentre in Italia dominavano le 'maggiorate' uscite dai concorsi di bellezza, Silvana Mangano, Sophia Loren e Gina Lollobrigida, che diffusero il loro look procace con uno stile sensibilmente differente rispetto a quello delle icone della femminilità d'oltreoceano e caratterizzato dalla semplicità degli abiti miseri delle popolane protagoniste dei film del Neorealismo. Con l'affermarsi di Cinecittà, soprannominata la 'Hollywood sul Tevere', Roma divenne un importante punto di riferimento per il mondo dello spettacolo internazionale. In questo nuovo clima anche le grandi maisons entrarono in scena: era il momento di Emilio F. Schubert, di Fernanda Gattinoni e delle Sorelle Fontana. Il celebre atelier di queste ultime costituì lo scenario del film di Luciano Emmer Le ragazze di piazza di Spagna (1952), e furono sempre le celebri sorelle a firmare gli abiti del film di Michelangelo Antonioni Le amiche (1955).
In netto contrasto con il modello della maggiorata, tipico degli anni Cinquanta, si affermò anche un altro importante fenomeno divistico: quello che portò alla ribalta lo stile esile e raffinato di Audrey Hepburn. A consacrare l'immagine della giovane attrice, divenuta famosa con Roman holiday (1953; Vacanze romane) di William Wyler, sarebbe stato nel 1954 il personaggio di Sabrina nell'omonimo film di Billy Wilder. Questo è da considerarsi un film chiave per i rapporti tra m. e cinema poiché, per la prima volta e con grande successo, la figura dello stilista si affiancò a quella del costumista. In Sabrina questa presenza è così importante da divenire un tema narrativo: da modesta figlia di un autista la Hepburn si trasforma, complice un soggiorno parigino, in una sofisticata lady (Campari 1983, p. 183). La metamorfosi della protagonista è resa evidente dai raffinati abiti che indossa nell'ultima parte del film, rigorosamente firmati Hubert de Givenchy. Venne così a porsi in secondo piano il fatto che il guardaroba dell'attrice ‒ dagli abitini scollati a barchetta ai pantaloni stretti da torero ‒ fino al fatidico soggiorno parigino fosse stato creato da E. Head, mentre fu enfatizzato l'inscindibile legame venuto a crearsi tra la Hepburn e Givenchy, un sodalizio rimasto inalterato nel tempo sia sul set sia nella vita privata. Il grande sarto continuò a vestire la Hepburn in film che hanno lasciato il segno nel campo della m., come Funny face (1957; Cenerentola a Parigi) di Stanley Donen o ancor più Breakfast at Tiffany's (1961; Colazione da Tiffany) di Blake Edwards, in cui l'attrice, con la sua innata eleganza fatta di tubini neri e di grandi occhiali da sole, lanciò uno stile più e più volte reinterpretato dalla m. successiva.
A partire dagli ultimi decenni del Novecento l'immagine suggerita dal cinema si è ulteriormente articolata: il rapido moltiplicarsi dei mass media e in parte anche l'aumento dei vecchi film di repertorio trasmessi in televisione o nelle cineteche (Dorfles 1989, p. 77) forniscono ormai modelli eterogenei, non più legati al successo di un solo film. Tutto questo ha finito per stimolare la creatività degli stilisti e per rinsaldare il loro legame con il cinema, il quale ha continuato a ispirare m. e stili più o meno effimeri. Alla fine degli anni Sessanta il successo del film di Arthur Penn Bonnie and Clyde (1967; Gangster story), con i costumi di Theadora Van Runkle, portò alla ribalta lo stile anni Trenta; qualche tempo dopo un analogo fenomeno revivalistico, questa volta degli anni Venti, fu provocato dalla trasposizione cinematografica del romanzo di F.S. Fitzgerald The great Gatsby (1974; Il grande Gatsby) di Jack Clayton, che valse un Oscar per i costumi a Theoni V. Aldredge. Vanno inoltre ricordati l'enorme successo del completo bianco indossato da John Travolta nel ruolo di Tony Manero in Saturday night fever (1977; La febbre del sabato sera) di John Badham, con i costumi di Patrizia Von Brandestein; o quello dello stile androgino lanciato in Annie Hall (1977; Io e Annie) di Woody Allen, con i costumi di Ruth Morley (alcuni abiti furono forniti da Ralph Lauren e da Jean-Charles de Castelbajac), nonché la diffusione della sahariana dopo l'uscita sul grande schermo di Out of Africa (1985; La mia Africa) di Sydney Pollack, con i costumi di Milena Canonero, o ancora il revival degli anni Quaranta favorito da Evita (1997) di Alan Parker, costumi di Penny Rose, con il rilancio delle calzature a zeppa, fedelmente riprodotte da Ferragamo.
Come si è già osservato, sul set di Sabrina si ebbe la prima significativa collaborazione di uno stilista con il mondo del cinema. Fino ad allora le collaborazioni tra cinema e grandi sarti si erano rivelate spesso fallimentari a causa della grande difficoltà da parte di questi ultimi ad adattarsi ai particolari ritmi di lavoro dello star system, caratterizzati da estenuanti ore di prove e condizionati dai volubili umori delle dive. Ebbero tale sorte sia Gabrielle 'Coco' Chanel sia la sua acerrima rivale Elena Schiaparelli, quando negli anni Trenta provarono a cimentarsi nel cinema hollywoodiano. Qualche anno prima di Givenchy forse solamente Christian Dior era riuscito a collaborare con il mondo del cinema con un certo successo. Portano infatti la sua firma gli abiti indossati da Marlene Dietrich nel film di Alfred Hitchcock Stage fright (1950; Paura in palcoscenico), come anche quelli, che gli valsero una nomination all'Oscar, realizzati per Jennifer Jones in Stazione Termini (1953) di Vittorio De Sica.
Se fino ad allora, tranne rare eccezioni, le icone del gusto uscivano direttamente dalle faraoniche sartorie delle case cinematografiche e la m. aveva nel cinema solo un veicolo di diffusione, a partire dalla fine degli anni Sessanta, dopo il declino dei grandi studi e la scomparsa dei maestosi reparti per i costumi, vi fu un cambiamento di tendenza. Molto spesso il costumista, soprattutto nei film che hanno un'ambientazione contemporanea, ricorre ad abiti confezionati. In tal modo tende ad assumere sempre di più il ruolo di stylist, di mediatore tra la griffe di moda e il film, e vede così ridursi il suo ruolo creativo. Il risultato di questa tendenza appare chiaro se si esaminano le statistiche relative agli Oscar: dopo il 1966, infatti, quando l'Oscar per i costumi fu vinto da Irene Sharaff con Who's afraid of Virginia Woolf? (1966; Chi ha paura di Virginia Woolf?) di Mike Nichols, il premio è stato assegnato soltanto per costumi storici o fantastici.
La figura dello stilista ha acquistato quindi sul set una notevole rilevanza. Egli offre i suoi abiti alla produzione cinematografica con reciproco vantaggio: pubblicità per la griffe e costo ridotto dei costumi per la produzione. Tale vantaggio viene ulteriormente accresciuto da una forma particolare di cooperazione che si è andata sviluppando: il promo-costuming, consistente nel fatto che stilisti famosi consegnano un'intera collezione di costumi per un film.Numerosi gli stilisti che hanno collaborato e collaborano con il grande schermo, da Giorgio Armani a Nino Cerruti, a Chanel, a Valentino e molti altri. Armani, per es., ha fornito le sue creazioni a una lunga serie di film, a partire dagli abiti indossati da Richard Gere in American gigolo (1980) di Paul Schrader fino a quelli per The untouchables (1987; The untouchables ‒ Gli intoccabili) di Brian De Palma o a quelli indossati da Ving Rhames in Pulp fiction (1994) di Quentin Tarantino. Innumerevoli sono anche le collaborazioni di Cerruti con i divi del cinema: è stato lui a creare gli abiti indossati da Michael Douglas sul set di Basic instinct (1992) di Paul Verhoeven e a vestire Gere protagonista di Pretty woman (1990; Pretty woman ‒ Una ragazza deliziosa) di Garry Marshall, così come Tom Cruise in Eyes wide shut (1999) di Stanley Kubrick; spetta a Brioni il merito di aver ideato gli abiti indossati da Pierce Brosnan nel ruolo del famoso agente segreto 007 in GoldenEye (1995) di Martin Campbell e Tomorrow never dies (1997; 007 il domani non muore mai) di Roger Spottiswoode. Con la realizzazione del celebre giacchino di Breitschwanz indossato da Silvana Mangano in Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Luchino Visconti, costumi di Piero Tosi, le Sorelle Fendi inaugurarono un importante sodalizio con il mondo del cinema. Portano infatti la loro firma le pellicce indossate da Michelle Pfeiffer in The age of innocence (1993; L'età dell'innocenza) di Martin Scorsese, costumi di Gabriella Pescucci, e quelle indossate da Madonna in Evita. E ancora Chanel che, vestendo Victoria Abril in Tacones lejanos (1991; Tacchi a spillo) di Pedro Almodóvar, ha messo sapientemente in risalto ogni dettaglio della produzione della maison, mentre per lo stesso regista Gianni Versace e Jean-Paul Gaultier hanno creato il guardaroba rispettivamente di Verónica Forqué e della Abril in Kika (1993; Kika ‒ Un corpo in prestito). Gaultier ha invece firmato i costumi del thriller di Luc Besson Le cinquième élément (1997; Il quinto elemento).
La lista delle collaborazioni tra stilisti e grande schermo continua pressoché interminabile. Se, per es., Krizia ha firmato gli abiti indossati da Mimi Rogers in Dimenticare Palermo (1990) di Francesco Rosi, Valentino ha realizzato, tra gli altri, i vestiti di Liz Taylor in Ash Wednesday (1973; Mercoledì delle ceneri) di Larry Peerce, mentre Gucci ha addirittura ricostruito un'omonima boutique anni Cinquanta per il film di Anthony Minghella The talented Mr. Ripley (1999; Il talento di Mister Ripley). Provengono infine da Prada e Dolce & Gabbana alcuni capi indossati rispettivamente da Leonardo DiCaprio e da Harold Perrineau Jr in William Shakespeare's Romeo + Giulietta (1996; Romeo + Giulietta di William Shakespeare) di Baz Luhrmann.Gli atelier sul set. ‒ Il cinema ha utilizzato come ambientazione il mondo della m. a partire dagli anni Trenta con Roberta (1935) di William A. Seiter, Mannequin (1937; La donna che voglio) di Frank Borzage, Artists and models abroad (1938) di Mitchell Leisen; ha continuato nel dopoguerra con i già citati Le ragazze di piazza di Spagna e Funny face, con Designing woman (1957; La donna del destino) di Vincente Minnelli e ancora Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni. Robert Altman ha voluto ambientare nel mondo della moda un suo film, Prêt-à-porter, noto anche come Ready to wear (1994, costumi di Nino Cerruti e Catherine Leterrier), in cui gli stilisti si improvvisano attori interpretando sé stessi. Lo stesso è accaduto in The intern (2000), una commedia sul mondo della moda diretta da Michel Lange in cui sono presenti, sempre nella parte di sé stessi, creatori come Donna Karan, Narciso Rodriguez, Stella Mc Cartney e Tommy Hilfiger. Anche Wim Wenders e Martin Scorsese hanno affrontato il tema dei rapporti tra cinema e m. prediligendo però la forma documentaristica. Intervistando lo stilista giapponese Yohji Yamamoto, Wenders ha realizzato Aufzeichnungen zu Kleidern und Städten (1989; Appunti di viaggio su moda e città), mentre Scorsese, grande estimatore dello stile Armani, ha girato su di lui un cortometraggio di 27 minuti, Made in Milan (1990).
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