Abstract
In tempi recenti l’ordinamento italiano si è dotato di strumenti di intervento volti a conciliare l’esigenza di contrasto alla criminalità d’impresa con la tutela di (altri) interessi sovraindividuali legati alla salvaguardia del tessuto economico-sociale e, in particolare, all’esercizio di importanti attività imprenditoriali. In tale prospettiva, si assiste al proliferare di istituti eterogenei, genericamente compendiati nella nozione di ‘commissariamento’, mediante i quali l’autorità (giudiziaria o amministrativa) dispone, a determinate condizioni, la temporanea sostituzione o il controllo degli organi sociali nella gestione degli enti, sì da mantenere la continuità aziendale e favorire il rientro o la permanenza nel mercato in condizioni di legalità.
Lo strumentario normativo dedicato al contrasto alla criminalità d’impresa si è in tempi recenti arricchito di una serie di meccanismi d’intervento compositi, frutto di una nuova visione gradualmente diffusasi e assunta dal legislatore in svariati ambiti.
Il cambio di passo va in larga parte ricondotto all’avvertita inadeguatezza, in ragione di variegati fattori, di un approccio esclusivamente, o principalmente, fondato sui noti paradigmi sanzionatorio-preventivo. Anzitutto, la crisi del modello punitivo-repressivo tradizionale per sé solo considerato, sospinta dalla difficoltà di conciliare l’intrinseca ‘rigidità’ del diritto penale con la mutevolezza che inevitabilmente contraddistingue gli ambiti dell’economia e della criminalità economica (Alessandri, A., Diritto penale e attività economiche, Bologna, 2010, 8). Inoltre, la (presa d’atto della) necessità di conciliare gli obiettivi di contrasto all’illegalità con la tutela di (altri) interessi sovraindividuali legati alla salvaguardia del contesto economico-sociale e, in particolare, all’esercizio di importanti attività imprenditoriali: esigenza, quest’ultima, tanto più avvertita in considerazione della ben nota liquidità dei confini tra economia lecita e illecita, ove la concretezza non si esaurisce nella ‘secca’ alternativa impresa sana/impresa criminale, mafiosa o collusa (di frequente, infatti, gli enti non ‘vivono’ esclusivamente di criminalità, ma sono al contrario connotati da un quantum di criminalità ben circoscritto; si pensi, ad esempio, a un singolo ramo di attività o alla condotta corruttiva isolata, volta all’acquisizione di una determinata commessa: Pignatone, G., Mafia e corruzione: tra confische, commissariamenti e interdittive, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, fasc. 4, 261).
Ne è derivata la scelta di affiancare ai tradizionali strumenti del diritto penale latamente inteso (in particolare, quelli di tipo ablativo-acquisitivo, come il sequestro e la confisca), altri che, senza escluderne l’applicazione ed anzi compenetrandoli, mirano pure alla conservazione dell’impresa contaminata o a rischio di contaminazione (Garofoli, R., Il contrasto ai reati di impresa nel d.lgs. n. 231 del 2001 e nel d.l. n. 90 del 2014: non solo repressione, ma prevenzione e continuità aziendale, in www.penalecontemporaneo.it, 30.9.2015, 15). In tale prospettiva, l’attuale panorama normativo contempla una nutrita ed eterogenea serie di istituti, mediante i quali l’autorità (giudiziaria o amministrativa) dispone coercitivamente, a determinate condizioni, la temporanea sostituzione o il controllo degli organi sociali nella gestione degli enti, sì da mantenerne la continuità aziendale e favorirne il rientro o la permanenza nel mercato in condizioni di legalità.
Il mutamento di prospettiva delineato nel paragrafo che precede ha trovato un primo approdo legislativo all’inizio degli anni novanta, attraverso l’introduzione della misura di prevenzione patrimoniale denominata «Sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni» (artt. 3 quater e 3 quinquies l. 31.5.1965, n. 575), successivamente trasfusa nel nuovo codice antimafia (d.lgs. 6.9.2011, n. 159) con la diversa denominazione di «Amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche» (art. 34 d.lgs. n. 159/2011).
La ratio sottesa all’istituto fuoriesce dalla logica eminentemente preventiva-repressiva propria delle misure di prevenzione patrimoniali tradizionali, utilizzate per aggredire i beni delle imprese criminali, mafiose o colluse, mirando invece ad attività che, sebbene in sé lecite e non rientranti nella disponibilità nemmeno indiretta di soggetti ‘pericolosi’, siano comunque in grado di fornire una qualche forma di apporto alla criminalità organizzata. Sino a tempi recenti, l’amministrazione giudiziaria ha peraltro goduto di scarso utilizzo nella pratica, in quanto le caratteristiche di pervasività, capacità di condizionamento e notorietà in loco delle mafie tradizionali quasi sempre ne implicavano l’effettiva disponibilità – diretta o indiretta – delle attività economiche e imprenditoriali, con ciò integrandosi i presupposti di applicazione del sequestro e della confisca di prevenzione dei beni. D’altro canto, nell’ultimo periodo sono aumentati i casi in cui, viceversa, i legami delle imprese con le organizzazioni criminali non si rivelano tali da mettere in discussione l’origine e la formazione lecita del patrimonio aziendale, sicché la misura ha sovente trovato applicazione pure in relazione ad ipotesi dal grande impatto mediatico afferenti, ad esempio, multinazionali e banche in rapporti economici con la ‘ndrangeta presente in Lombardia, società a capitale pubblico o privato in affari con cosche di Cosa nostra e ‘ndrangheta per la realizzazione di importanti opere in Sicilia e Calabria, consorzi di cooperative di rilevanza nazionale nell’ambito della vicenda denominata ‘Mafia Capitale’, etc. (Pignatone, G., Mafia e corruzione, cit., 261; per una disamina della recente casistica giurisprudenziale, v. Capecchi, G., La misura di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione giudiziaria degli enti e le sue innovative potenzialità, in www.penalecontemporaneo.it, 4.10.2017).
La disciplina trasfusa nel codice antimafia non presentava differenze significative rispetto alla previgente di cui alla l. n. 575/1965, nomen iuris a parte. Il legislatore è invece intervenuto sull’istituto in misura più penetrante nell’ambito della recente rivisitazione del sistema delle misure di prevenzione attuata tramite l. 17.10.2017, n. 161, in vigore dal 19 novembre 2017 (per una prima rassegna, v. Finocchiaro, S., La riforma del codice antimafia (e non solo): uno sguardo d’insieme alle modifiche introdotte, in Dir. pen. cont. – Riv Trim., 2017, fasc. 10).
L’amministrazione giudiziaria opera in presenza di sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di attività economiche, anche di carattere imprenditoriale, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’art. 416 bis c.p. (Associazione mafiosa), o possa comunque agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata applicata una misura di prevenzione personale e/o patrimoniale, nonché di persone sottoposte a procedimento penale per una serie – ampliata dalla l. n. 161/2017 – di delitti indicati dalla norma; inoltre, l’istituto presuppone l’assenza dei presupposti per l’applicazione ‘diretta’ delle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca. A tali condizioni, il tribunale competente in materia di misure di prevenzione dispone l’amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzabili per lo svolgimento delle attività economiche, su proposta del Procuratore della Repubblica, del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, del questore o del direttore della Direzione investigativa antimafia (art. 34, co. 1, d.lgs. n. 159/2011). Nella nuova disciplina, il tribunale può applicare la misura anche in assenza di proposta, quando non ritenga sussistenti i presupposti delle misure del sequestro (art. 20, co. 1) o della confisca (art. 24, co. 1) richieste in prima istanza dall’organo proponente.
L’amministrazione giudiziaria dei beni è adottata per un periodo di durata – recentemente estesa dalla l. n. 161/2017 – non superiore ad un anno e prorogabile di ulteriori sei mesi per un periodo comunque non superiore complessivamente a due anni, su richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, a seguito di relazione dell’amministratore giudiziario che evidenzi: la necessità di completare il programma di sostegno e di aiuto alle imprese amministrate; la rimozione delle situazioni di fatto e di diritto che avevano determinato la misura (art. 34, co. 2).
L’attuale formulazione chiarisce che all’amministratore giudiziario compete l’esercizio di tutte le facoltà spettanti ai titolari di beni e aziende riferibili a imprese individuali, nonché l’esercizio dei poteri spettanti agli organi di amministrazione e agli altri organi sociali delle imprese collettive secondo le modalità stabilite dal tribunale, tenuto conto delle esigenze di prosecuzione dell’attività d’impresa (art. 34, co. 3). All’amministratore spettano, altresì, gli obblighi di segnalazione e relazione fissati dall’art. 36, co. 2, d.lgs. n. 159/2011 (art. 34, co. 5). L’esecuzione della misura avviene attraverso l’immissione nel possesso dei beni aziendali e l’iscrizione nel registro tenuto dalla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura. Il provvedimento deve essere trascritto nei pubblici registri quando concerne beni immobili o altri beni soggetti a iscrizione (art. 34, co. 4).
I soggetti proponenti possono chiedere al tribunale di disporre il sequestro dei beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria, quando vi sia il concreto pericolo che essi vengano dispersi, sottratti o alienati e, altresì, secondo il nuovo dettato normativo, il motivo di ritenere che essi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano l’impiego (ossia il presupposto che potrebbe portare alla confisca). Il sequestro ha la medesima durata della misura dell’amministrazione (art. 34, co. 7).
Entro la data di scadenza dell’amministrazione giudiziaria dei beni o del sequestro, il tribunale, qualora non disponga il rinnovo del provvedimento, delibera in camera di consiglio la revoca della misura ed eventualmente la contestuale applicazione del controllo giudiziario di cui all’art. 34 bis, ovvero la confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego (art. 34, co. 6).
Come evidente, la confisca dei beni rappresenta uno sbocco eventuale del procedimento una volta accertata l’effettiva contaminazione dell’ente, ma soltanto qualora non sia possibile il recupero dell’ente medesimo alla piena legalità.
Una delle principali innovazioni introdotte dalla recente l. n. 161/2017 è costituita dalla nuova misura patrimoniale del controllo giudiziario (art. 34 bis d.lgs. n. 159/2011), destinata a trovare applicazione, in luogo dell’amministrazione giudiziaria, del sequestro e della confisca, nei casi in cui la condotta di agevolazione di cui all’art. 34, co. 1 risulti occasionale e sussistano circostanze di fatto da cui si possa desumere il pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionare l’attività d’impresa. Il controllo giudiziario, tuttavia, non determina un effettivo spossessamento gestorio, bensì configura – per un periodo minimo di un anno e un massimo di tre – una forma meno invasiva di intervento sub specie di vigilanza prescrittiva condotta da un amministratore nominato dal tribunale, al quale viene affidato il compito di monitorare dall’interno dell’azienda l’adempimento di una serie di obblighi di compliance imposti dall’autorità giudiziaria. Nelle intenzioni del legislatore, si tratta peraltro di un istituto utile alla prosecuzione dell’attività delle imprese raggiunte da informativa interdittiva antimafia (artt. 91 ss. d.lgs. n. 159/2011), garantendo così, nel contempo, il prevalente interesse alla realizzazione di opere di rilevanza pubblica (Menditto, F., Verso la riforma del d.lgs. n. 159/2011 (cd. Codice Antimafia) e della confisca allargata, in www.penalecontemporaneo.it, 22.12.2015, 39 s.).
Infine, merita evidenziare come gli istituti sin qui considerati siano destinati a trovare maggiore applicazione con l’entrata in vigore della recente riforma, la quale ne ha espressamente esteso la portata ad attività potenzialmente in grado di favorire soggetti indiziati o indagati per fatti di per sé estranei alla criminalità organizzata, quali la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.), nonché un’ampia serie di reati contro la Pubblica Amministrazione commessi in forma associativa. Trattasi di scelta che, atteso il deficit di garanzie caratterizzante il procedimento applicativo (il quale non solo prescinde dalla celebrazione di un regolare processo e dall’emissione di una sentenza di condanna, ma pure dai presupposti del sequestro e della confisca di prevenzione), solleva significative criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali in materia – tra le altre – di presunzione di innocenza, proprietà e libertà di iniziativa economica (Finocchiaro, S., La riforma del codice antimafia, cit., 2; sui profili di costituzionalità delle misure di prevenzione, v., in generale, Guerrini, R.-Mazza, L.-Riondato, S., a cura di, Le misure di prevenzione, Padova, 2004).
La tendenza legislativa verso gli obiettivi di conservazione delle imprese contaminate o a rischio di contaminazione nel contrasto alla criminalità ha trovato un ulteriore approdo all’inizio degli anni duemila, tramite l’introduzione del commissariamento giudiziale nell’ambito del sistema di responsabilità da reato degli enti (d.lgs. 8.6.2001, n. 231). Si tratta di una sanzione sostitutiva applicabile con la sentenza di condanna in luogo di una sanzione interdittiva che determinerebbe l’interruzione dell’attività dell’ente (art. 15 d.lgs. n. 231/2001). L’istituto può essere impiegato, altresì, in via anticipata, al posto di una misura cautelare interdittiva, quando sussistono pure i gravi indizi di colpevolezza e le specifiche esigenze cautelari fissati dal decreto (art. 45 d.lgs. n. 231/2001). La normativa postula, in ogni caso, l’accertamento, da parte del giudice, circa la commissione di un fatto di reato-presupposto nell’interesse o vantaggio dell’ente, ad opera di un soggetto allo stesso riconducibile.
La nomina del commissario mira a contemperare contrapposte esigenze sanzionatorie-cautelari e di salvaguardia del contesto economico-sociale, affinché la sanzione o la misura cautelare interdittiva inflitta all’esito o nel corso del procedimento non si ripercuota negativamente su terzi estranei e incolpevoli, ossia gli stessi lavoratori, i soci o i clienti dell’impresa e, più ampiamente, l’intera collettività come insieme dei titolari dell’interesse all’esercizio di un servizio pubblico o di pubblica necessità, ovvero alla non compromissione di una determinata condizione economica territoriale (Levis, M.-Perini, A., a cura di, La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, Bologna, 2014, 337; Relazione ministeriale al d.lgs. n. 231/2001, par. 6). Il commissariamento giudiziale viene infatti disposto solamente quando l’ente svolge un «pubblico servizio ovvero un servizio di pubblica necessità, la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività» (art. 15, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 231/2001), oppure quando, indipendentemente dal tipo di attività svolta, l’interruzione della stessa «può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull’occupazione» (art. 15, co. 1, lett. b), d.lgs. n. 231/2001).
La sanzione sostitutiva non è invece applicabile allorché l’interruzione dell’attività derivi da una sanzione interdittiva che debba essere applicata in via definitiva (art. 16 d.lgs. n. 231/2001): in tali ipotesi, difatti, la tutela degli interessi dei terzi incolpevoli soccombe ex lege di fronte alla necessità di una energica sanzione nei confronti dell’ente dimostratosi «radicalmente irrecuperabile alla legalità» (Presutti, A.-Bernasconi, F.-Fiorio, A., a cura di, La responsabilità degli enti, Padova, 2008, 209). Inoltre, l’istituto non trova applicazione – né come misura cautelare, né come sanzione interdittiva – per gli enti operanti in determinati ambiti di attività nei quali le intromissioni dell’autorità giudiziaria sono considerate inappropriate alla luce della speciale rilevanza economica-generale (per es., istituti bancari, intermediari finanziari, società di gestione del risparmio e di investimento a capitale variabile, imprese di assicurazione e riassicurazione: approfondimenti critici in Lattanzi, G., a cura di, Reati e responsabilità degli enti, Milano, 2010, 238 ss.).
I compiti e i poteri del commissario sono stabiliti dal giudice nella sentenza che applica la sanzione sostitutiva (art. 15, co. 2, d.lgs. n. 231/2001); la nomina e il controllo sull’operato del commissario spettano invece al giudice dell’esecuzione, il quale è altresì competente a ricevere la relazione finale sull’attività svolta e a determinarne il compenso (art. 79) (Bassi, A.-Epidendio, T.E., a cura di, Reati e responsabilità degli enti, Milano, 2006, 362, secondo cui, nella fase cautelare, i poteri di nomina e controllo sulla gestione, invece, spettano necessariamente al giudice che ha applicato la misura). Sul piano della concreta specificazione delle attribuzioni del commissario, la norma dispone soltanto, in positivo, che questi è tenuto a curare l’adozione e l’efficace attuazione dei modelli organizzativi dell’ente e, in negativo, che non può compiere atti di straordinaria amministrazione se non dietro autorizzazione del giudice (art. 15, co. 3). L’indicazione dei compiti e dei poteri deve in ogni caso tener conto della «specifica attività in cui è stato posto in essere l’illecito da parte dell’ente»: l’inciso – espressione del parametro di frazionabilità delle sanzioni interdittive sancito in via generale dall’art. 14, co. 1, d.lgs. n. 231/2001 – costituisce un’implicita conferma sistematica della tesi, sostenuta in dottrina e giurisprudenza, secondo cui il commissariamento – così come, più in generale, le stesse sanzioni o misure cautelari interdittive – deve, ove possibile, essere limitato al settore di attività nel cui ambito è stato commesso il reato, sicché i compiti e i poteri del commissario non dovrebbero concernere, nelle società a struttura complessa, le attività e le articolazioni organizzative diverse o indipendenti da quelle interessate (Presutti, A.-Bernasconi, F.-Fiorio, A., La responsabilità degli enti, cit., 210; Cass. pen., sez. VI, 28.9.2011, n. 43108). Dalla previsione secondo la quale il commissario non può compiere atti di straordinaria amministrazione, se non dietro autorizzazione del giudice, si evince implicitamente che ad esso sono attribuiti tutti i poteri di ordinaria amministrazione nel settore di attività in cui si è verificato l’illecito, salvo diversa indicazione da parte del giudice medesimo (Presutti, A.-Bernasconi, F.-Fiorio, A., La responsabilità degli enti, cit., 210). Nel silenzio della legge, deve ritenersi che il commissariamento non determini la decadenza degli organi sociali, le cui funzioni riprendono naturalmente al termine del mandato commissariale. A subire la sostituzione sarà di regola l’organo amministrativo, dovendo il commissario proseguire nella gestione dell’attività per la durata della misura cautelare o della sanzione (Levis, M.-Perini, A., La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, cit., 343). Al commissario spetta tanto un obbligo di rendicontazione periodica, con cadenza trimestrale, quanto un obbligo di rendicontazione finale, da redigere al termine dell’incarico. Destinatari delle relazioni periodiche sono il pubblico ministero e il giudice dell’esecuzione, al quale soltanto è indirizzata la relazione finale. Nella relazione trimestrale il commissario deve dar conto dell’«andamento della gestione», mentre la relazione finale deve sia fornire un ragguaglio della gestione complessiva, sia indicare «l’entità del profitto da confiscare» e le «modalità con le quali sono stati attuati i modelli organizzativi», cioè i rimedi adottati per eliminare le carenze organizzative che hanno reso possibile la commissione del reato (art. 79).
Il commissariamento ha durata pari a quella della sanzione interdittiva in concreto sostituita (art. 15, co. 1).
Il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività da parte del commissario è assoggettato a confisca (art. 15, co. 4). Si tratta di una previsione intimamente collegata alla natura di sanzione sostitutiva dell’istituto, la cui ratio è quella di evitare che la rilevanza degli interessi sottostanti al commissariamento consenta all’ente di trarre dalla prosecuzione dell’attività benefici che gli sarebbero stati interdetti ove fosse stata applicata la sanzione interdittiva (Relazione, cit., par. 6). Proprio la logica sottesa a tale forma di confisca impone, secondo tesi avallata dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, di circoscrivere la nozione del profitto all’utile netto residuato dalla gestione commissariale, giacché, se l’obiettivo è quello di porre l’ente nelle medesime condizioni in cui si sarebbe trovato se fosse stata applicata la sanzione interdittiva, privarlo degli interi ricavi provenienti dalle attività autorizzate, senza lo scomputo dei costi sostenuti, sarebbe evidentemente ultroneo rispetto allo scopo (Presutti, A.-Bernasconi, F.-Fiorio, A, La responsabilità degli enti, cit., 211; Cass. pen., SU, 27.3.2008, n. 26654). La confisca è disposta dal giudice dell’esecuzione sulla base del rendiconto dell’attività predisposta al termine della gestione commissariale, che comprende pure l’indicazione dell’ammontare del profitto da sottoporre a confisca (art. 79, co. 2 e 3).
La disciplina del d.lgs. n. 231/2001 configura dunque una misura dalla ratio parzialmente diversa rispetto all’amministrazione giudiziaria, in quanto diretta non tanto a precludere possibili forme di agevolazione della criminalità, bensì ad eliminare i benefici derivanti dall’illecito commesso da un ente che si suppone ‘sano’ e senz’altro meritevole di conservazione una volta depurato dal rischio di ulteriori illeciti tramite l’imposizione di modelli organizzativi adeguati. Alla diversità di ratio corrisponde una maggior compatibilità con i principi costituzionali, trattandosi di istituto applicabile dal giudice, nell’ambito e con le garanzie del procedimento penale, una volta accertata la responsabilità da reato dell’ente e la presenza degli ulteriori requisiti previsti.
Esigenze analoghe a quelle sottese all’amministrazione giudiziaria e al commissariamento degli enti hanno più di recente ispirato l’introduzione, ad opera dell’art. 32 d.l. 26.6.2014, n. 90, conv. con mod. in l. 11.8.2014, n. 114, degli istituti denominati «Misure straordinarie di gestione, sostegno e di monitoraggio di imprese». L’intervento è seguito ad importanti indagini concernenti presunti episodi corruttivi nell’affidamento e nella realizzazione di opere pubbliche di importanza strategica per il Paese, con pesanti ripercussioni anche in termini di immagine internazionale. Si tratta, tuttavia, di misure più circoscritte e mirate rispetto alle forme di commissariamento precedenti, in quanto disposte esclusivamente in funzione anticorruttiva ed orientate alla completa esecuzione delle prestazioni oggetto di uno specifico contratto pubblico (Biffa, R., Confische, commissariamenti, interdittive, provvedimenti di straordinaria amministrazione e gestione: l’impresa è oggetto di misure dai non chiari confini, in Resp. amm. soc. enti, 2016, 1, 234 ss.).
L’art. 32 d.l. n. 90/2014 legittima il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ad attivare la procedura in due ipotesi alternative: nel caso in cui l’autorità giudiziaria proceda per una serie di delitti contro la Pubblica Amministrazione indicati dalla norma; in presenza di rilevate situazioni anomale e, comunque, sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali attribuibili ad un’impresa aggiudicataria di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture, nonché ad un’impresa che esercita attività sanitaria per conto del Servizio sanitario nazionale, ovvero ad un concessionario di lavori pubblici o ad un contraente generale. Tali situazioni assumono rilevanza solamente alla luce di fatti gravi e accertati (art. 32, co. 1). La procedura può essere altresì attivata ove le imprese di cui sopra siano state raggiunte da informativa interdittiva antimafia e si sia riscontrata l’urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto o la sua prosecuzione per la tutela dei diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici (art. 32, co. 10).
Le misure consistono, in primo luogo, nella straordinaria e temporanea gestione dell’impresa appaltatrice, che si sostanzia in una sorta di commissariamento dell’appalto o della commessa, mediante la nomina, con decreto prefettizio, di uno o più amministratori, in numero non superiore a tre, incaricati di portare a termine l’appalto o la concessione (art. 32, co. 1). Una volta concluse le valutazioni istruttorie sulla particolare gravità dei fatti oggetto dell’indagine, il Prefetto intima all’impresa di provvedere al rinnovo degli organi sociali sostituendo il soggetto coinvolto e, ove l’impresa non si adegui, oppure nei casi più gravi, provvede direttamente a nominare uno o più amministratori. Il decreto di nomina deve definire la durata dell’incarico in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell’opera pubblica oggetto del contratto (art. 32, co. 2), con oneri a carico dell’impresa (art. 32, co. 6). I soggetti designati esercitano tutti i poteri e le funzioni degli organi dell’amministrazione dell’impresa, i cui poteri nel frattempo vengono sospesi unitamente a quelli dell’assemblea (art. 32, co. 3). La misura è revocata o cessa comunque di produrre effetti in caso di confisca, sequestro o amministrazione giudiziaria nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione delle misure di prevenzione, ovvero di archiviazione del procedimento penale. L’autorità giudiziaria conferma, ove possibile, gli amministratori nominati dal Prefetto (art. 32, co. 5).
Il decreto contempla, inoltre, la misura meno penetrante del sostegno e monitoraggio dell’impresa, qualora le indagini non coinvolgano gli organi sociali; essa consiste nell’affiancamento degli organi di gestione dell’ente da parte di esperti di nomina prefettizia, investiti di poteri di stimolo nei confronti della compagine societaria, al fine di promuoverne la revisione gestionale e amministrativa. In tale ipotesi, il Prefetto nomina uno o più esperti con il compito di formulare indicazioni operative all’impresa circa gli interventi da adottare (art. 32, co. 8).
La disciplina degli istituti in questione si pone in aperta tensione coi principi costituzionali, attesa l’assenza di adeguate garanzie sostanziali e processuali a fronte della palese afflittività dei contenuti. In particolare, autorevole dottrina ha censurato: l’attribuzione dei poteri di richiesta ed intervento a soggetti riconducibili alla Pubblica Amministrazione anziché all’autorità giudiziaria; l’elaborazione di presupposti di applicabilità evanescenti e, dunque, inesorabilmente esposti a un perdurante rischio di arbitrio; l’allestimento di un procedimento applicativo sommario e interamente degiurisdizionalizzato (per una sintesi critica, v. Sgubbi, F.-Guerini, T., L’art. 32 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90: un primo commento, in www.penalecontemporaneo.it, 24.9.2014).
La definizione dei rapporti tra le varie forme di commissariamento indirizzate al contrasto della criminalità d’impresa non è operazione agevole.
In assenza di disposizioni di coordinamento, la prassi giudiziaria tende a risolvere i rapporti tra le discipline del d.lgs. n. 231/2001 e del d.lgs. n. 159/2011 a favore di quella prevista dal codice antimafia, ritenuta maggiormente efficace oltre che meglio collaudata: ai fini dell’applicazione del provvedimento ex art. 34 d.lgs. n. 159/2011, infatti, è sufficiente che l’impresa sia comunque in grado di fornire una qualche forma di apporto alla criminalità organizzata, senza la necessità che, come invece richiesto dagli artt. 15 e 45 d.lgs. n. 231/2001, tale agevolazione integri specifiche ipotesi di reato-presupposto e risultino provati gli ulteriori requisiti previsti. In dottrina si è nondimeno auspicato un maggior impiego del sistema 231 anche nel settore della criminalità organizzata, in ragione delle maggiori garanzie e della funzione di incentivo all’adozione di modelli organizzativi idonei a prevenire il fenomeno delle infiltrazioni mafiose (Visconti, C., Proposte per recidere il nodo mafie-imprese, in www.penalecontemporaneo.it, 7.1.2014, 14 s.; per ulteriori approfondimenti, v. Scomparin, L., a cura di, Corruzione e infiltrazioni criminali negli appalti pubblici, Torino, 2016, 163 ss.). Nella medesima prospettiva, la casistica giurisprudenziale più recente palesa una sorta di contaminazione de facto tra le due discipline, con i primi provvedimenti di amministrazione giudiziaria in concreto arricchiti dal giudice dei contenuti propri del commissariamento giudiziale (in primis, attraverso l’adozione di modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di reati: approfondimenti in Capecchi, G., La misura di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione giudiziaria degli enti, cit., 16 ss.).
Di crescente rilevanza nella prassi è la questione afferente il rapporto tra il commissariamento giudiziale ex artt. 15 e 45 d.lgs. n. 231/2001 e le misure straordinarie introdotte dall’art. 32 d.l. n. 90/2014. Nel silenzio del legislatore, si è ravvisata la propensione a privilegiare, specie in sede cautelare, il secondo strumento rispetto al primo, il cui impiego è subordinato al ricorrere di stringenti requisiti di ordine sostanziale e processuale. In via di prima interpretazione, le Linee Guida ANAC hanno fissato il principale elemento di distinzione tra le due misure nella finalità ad esse sottesa: mentre la gestione straordinaria introdotta nel 2014 mira infatti a porre sotto controllo la parte dell’impresa impegnata nell’esecuzione del determinato contratto pubblico per cui viene ravvisata l’esigenza di intervenire, il commissariamento di cui al d.lgs. n. 231/2001 persegue e realizza l’integrale spossessamento dei poteri gestori a finalità sanzionatoria (ANAC, Seconde Linee Guida per l’applicazione delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell’ambito della prevenzione anticorruzione e antimafia, 27.1.2015). Nondimeno, si è evidenziato come anche quest’ultimo istituto, in forza del parametro di frazionabilità delle sanzioni interdittive (v. supra, 3), possa essere utilizzato per il controllo di uno specifico settore dell’attività d’impresa ai fini dell’art. 32 d.l. n. 90/2014, sicché il conflitto tra le due misure andrebbe più opportunamente risolto, sussistendone i relativi presupposti, a favore di quella di natura giudiziale (Garofoli, R., Il contrasto ai reati di impresa, cit., 15). Tale soluzione, oltre che meglio conciliarsi con i principi generali, trova supporto formale nella previsione del 5° co. dell’art. 32 d.l. n. 90/2014, a mente del quale «le misure di cui al comma 2 sono revocate e cessano comunque di produrre effetti in caso di provvedimento che dispone la confisca, il sequestro o l’amministrazione giudiziaria dell’impresa nell’ambito di procedimenti penali o per l’applicazione di misure di prevenzione» (Garofoli, R., Il contrasto ai reati di impresa, cit., 15; per ulteriori approfondimenti, v. Scomparin, L., a cura di, Corruzione e infiltrazioni criminali negli appalti pubblici, cit., 163 ss.).
Il dettato della norma da ultimo citata, infine, consente espressamente di ritenere comunque prevalenti gli effetti dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 d.lgs. n. 159/2011 su quelli derivanti dall’applicazione delle misure straordinarie ex art. 32 d.l. n. 90/2014.
Fonti normative
Artt. 34, 34 bis d.lgs. 6.9.2011, n. 159; l. 17.10.2017, n. 161; artt. 15, 45 d.lgs. 8.6.2001, n. 231; art. 32 d.l. 24.6.2014, conv. in l. 11.8.2014, n. 114.
Bibliografia essenziale
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