ELETTRICHE, MISURE
ELETTRICHE, MISURE (XIII, p. 685).
Apparecchi elettrici di misura industriale.
Generalità. - Gli apparecchi di misura servono alla misura e al controllo delle varie grandezze elettriche che interessano in generale l'industria elettrotecnica. Qui ci occuperemo solo degli apparecchi aventi carattere veramente industriale; cioè di quegli apparecchi che indicano direttamente il valore della grandezza misurata o tutt'al più permettono di dedurla, con procedimenti elementari, dalle loro indicazioni.
Questi apparecchi o strumenti di misura industriali si possono classificare secondo differenti criterî:
a) in base al principio scientifico su cui sono fondati (strumenti elettromagnetici, elettrodinamici, elettrostatici, ecc.);
b) a seconda della grandezza misurata (amperometri, voltmetri, wattmetri, ecc.);
c) a seconda del tipo delle loro indicazioni (apparecchi indicatori, che indicano il valore istantaneo della grandezza; apparecchi registratori, che registrano i successivi valori della grandezza misurata; integratori [detti praticamente "contatori"] che eseguiscono l'integrale, nel tempo, della grandezza misurata, ecc.);
d) secondo la natura delle correnti per cui servono (strumenti per corrente continua, per corrente alternata);
e) secondo il grado di precisione (strumenti da quadro, strumenti portatili di controllo, strumenti di precisione, da laboratorio);
f) infine, e in particolare per gli strumenti industriali da quadro, secondo il modello o la forma (strumenti sporgenti, incassati, a profilo, ecc.).
La tabella a p. 545 dà uno schema di classificazione che tiene conto ad un tempo di questi diversi criterî, eccezion fatta per la forma e il grado di precisione, il quale è più che altro questione economico-costruttiva, potendosi in generale con qualunque tipo di strumenti di misura raggiungere gradi diversi di precisione.
Nel quadro, gli strumenti sono indicati con le seguenti abbreviazioni: A. = amperometri; V. = voltmetri; W. = wattmetri; Φ. = fasometri; F. = frequenzimetri; i. = strumenti indicatori; r. = registratori; c. = integratori. Gli strumenti poco usati sono indicati tra parentesi.
Nei riguardi della suddivisione generale sopra accennata, quasi tutti gli strumenti industriali di misura rientrano nella categoria degli apparecchi automatici, in quanto essi dànno direttamente la voluta indicazione. Solo nel campo degli strumenti da laboratorio si hanno esempî di apparecchi manuali, in quegli strumenti di misura "per riduzione a zero" (come il classico elettrodinamometro del Siemens o le bilance di Lord Kelvin o del Pellat) che richiedono l'intervento dell'operatore che torca la molla antagonista o regoli l'azione dei pesi. Nel campo degli apparecchi industriali il procedimento "per riduzione a zero" è in realtà oggi largamente usato; gli apparecchi in cui è applicato (generalmente registratori) sono ricondotti al funzionamento automatico con l'artificio del relais che sostituisce l'occhio e del servomotore che sostituisce la mano dell'operatore.
Nel seguito si tratterà separatamente prima degli strumenti indicatori per passare poi ai registratori e quindi agli integratori.
Strumenti indicatori. - Sono, come già detto, quelli che indicano direttamente su un'opportuna scala o quadrante il valore attuale della grandezza misurata.
Salvo casi specialissimi, constano essenzialmente di un organo o equipaggio mobile che ha una posizione determinata iniziale di equilibrio. Esso è sollecitato a muoversi da un'azione che è funzione della grandezza che si vuol misurare, contro l'azione di una forza funzione dello spostamento, la quale tende a ricondurlo sempre nella posizione iniziale. Il mobile assume quindi in ogni caso una posizione determinata dall'equilibrio fra la forza motrice e la forza antagonista, posizione che dipende, per conseguenza, dal valore della grandezza elettrica che si vuol misurare.
Siccome di solito il movimento dell'equipaggio mobile è di rotazione intorno ad un asse, invece che di forza riesce più esatto parlare di coppia motrice e di coppia antagonista (o resistente).
Per osservare e misurare gli spostamenti dell'equipaggio mobile, lo si munisce negli strumenti industriali di un indice (generalmente d'alluminio), lungo quanto è possibile compatibilmente con la necessaria leggerezza e rigidità, la cui estremità viene a muoversi sopra un quadrante graduato, al quale viene dato il nome di scala.
La scala è divisa in un certo numero di parti, che chiameremo sempre divisioni, che possono essere uniformi o no, secondo il tipo dell'apparecchio. La disuniformità delle divisioni deriva dalla necessità pratica di conservare in un dato strumento ad ogni intervallo lo stesso valore della grandezza da misurare.
Si chiama costante c dell'apparecchio il valore di una divisione della scala (ossia il numero degli ampere, dei volt, dei watt, ecc., corrispondenti a una divisione della scala). La scala può essere graduata direttamente (ed è il caso più frequente) in volt, ampere, watt, ecc.
La misura si riduce dunque sempre a leggere la posizione dell'indice rispetto alla scala.
Nella lettura si commette sempre un errore (errore di lettura) che consta di due parti:
a) l'errore di parallasse, derivante dal fatto che l'indice si muove a qualche distanza dalla scala;
b) l'errore di apprezzamento, che si commette quando l'indice non si trova esattamente sopra una divisione della scala, e si deve apprezzare la frazione di divisione.
Per ridurre gli errori di parallasse, la punta dell'indice deve muoversi quanto più è possibile vicino alla scala. Di più, negli strumenti destinati a misure di precisione, si usa darle una forma appiattita a lama di coltello e disporre sotto di essa uno specchio che permette all'osservatore di giudicare se il suo raggio visuale è esattamente perpendicolare al piano della scala (fig. 1). Ciò si verifica quando l'indice copre la sua immagine nello specchio. La fig. 2 mostra una diversa disposizione che consente un più sicuro apprezzamento.
Per quanto riguarda l'errore di apprezzamento, esso è evidentemente tanto più piccolo quanto più fitte sono le divisioni. Ma non conviene esagerare in questo senso perché le divisioni troppo fitte finirebbero con lo stancare la vista e ingenerare errori ben più gravi.
In alcuni tipi di strumenti destinati a misure di grande precisione si usa tracciare la scala come indica la fig. 3 (scala ticonica). In tal modo si possono apprezzare assai esattamente le frazioni di divisione. Con l'esempio del disegno si possono determinare esattamente i quinti di divisione e stimarne le frazioni, senza che la graduazione riesca oltremodo fitta.
Simili disposizioni sarebbero perfettamente superflue nella maggior parte degli strumenti industriali che non consentono un grado di esattezza corrispondente. Per essi, che devono in generale essere letti a qualche distanza, si usano scale con poche divisioni grosse e pochi numeri ben visibili e si dà all'indice una forma, p. es., come quella della fig. 4. Ammettendo, come logico, che l'incertezza complessiva di lettura abbia per un dato tipo di apparecchio sempre lo stesso valore assoluto, è ovvio che essa darà luogo ad errori relativi della grandezza misurata diversi a seconda del tipo di scala e dell'ampiezza della deviazione; con una scala uniforme, ad es., gli errori relativi risultano inversamente proporzionali alla deviazione; con una scala logaritmica risulterebbero costanti. Dati gli andamenti comuni delle scale si dovrà in generale evitare di fare letture troppo piccole. In pratica, in condizioni eccezionalmente buone, si può giungere ad apprezzare il decimo di millimetro, il che, per una scala di circa 150 millimetri d'ampiezza, dà un errore relativo minimo di 1/1500. In genere non si può contare sopra un errore di lettura minore di un millesimo, ciò che, anche prescindendo dal grado di esattezza intrinseco dello strumento, permette di concludere:
1. che nelle operazioni e nell'esprimere i risultati di qualunque misura industriale non si potranno scrivere mai più di 4 cifre significative (3 se la prima è maggiore di 5 o di 6);
2. che in ogni misura industriale l'uso del regolo calcolatore ordinario di 25 cm. è perfettamente giustificato e del tutto raccomandabile.
Le considerazioni su esposte presuppongono che non vi siano altre cause che si oppongano al moto dell'equipaggio mobile all'infuori della coppia antagonista. Si ammette, cioè, che non vi siano attriti che ostacolino i moti dell'equipaggio e la condizione si può ritenere verificata col tipo di sospensione adottata per i galvanometri ed altri simili apparecchi. Una tale sospensione sarebbe però troppo delicata per i comuni strumenti industriali di misura, e non vi si ricorre che in casi eccezionali.
Pure eccezionali sono le sospensioni a coltello analoghe a quelle delle bilance e possibili solo quando il movimento avviene intorno ad un asse orizzontale.
Nella maggior parte degli strumenti di misura, la parte o equipaggio mobile dell'apparecchio - comunque sia costruita - è portata da un asse imperniato come gli assi degli orologi. L'asse, generalmente tubolare di alluminio, è terminato con due perni o punte acute di acciaio o altro metallo assai duro, le quali appoggiano su due piccole pietre dure (generalmente agate) perfettamente levigate, fissate all'incastellatura dello strumento (fig. 5). L'acutezza delle punte deve essere in relazione col peso dell'equipaggio mobile che grava su esse. Le punte troppo acute, se dànno sulle prime i migliori risultati, o rovinano in seguito le pietre o si smussano in breve tempo dando origine ad attriti notevolissimi.
Nei contatori e in certi tipi di apparecchi ad equipaggio pesante soggetti a forti urti, il perno, destinato a funzionare verticalmente, termina addirittura con una superficie piana e poggia su una pietra pure piana; con tale disposizione gli attriti già discreti all'inizio, si mantengono poi a lungo inalterati. In pratica è facile constatare se i perni di uno strumento si trovano in buone condizioni. Battendo o scuotendo leggermente l'apparecchio il mobile deve sempre ritornare nella medesima posizione di equilibrio; se essa varia, vuol dire che le punte non sono più in buono stato. L'apparecchio ha allora infatti parecchie posizioni di equilibrio e le scosse hanno per effetto di farlo passare dall'una all'altra.
In molti strumenti di tipo trasportabile, specie quando il peso dell'equipaggio mobile è piuttosto rilevante, si usano speciali disposizioni d'arresto, per scaricare le punte quando lo strumento non serve, e impedire che le scosse del trasporto abbiano a danneggiare la sospensione.
La sospensione a perni descritta può evidentemente funzionare in qualunque posizione, compresa la orizzontale, bastando la pressione delle punte contro le pietre a tenere in posto l'asse; è ovvio però che le condizioni migliori si avranno con l'asse verticale. Perciò tutti gli strumenti di precisione si fanno ad asse verticale. Quando l'asse di rotazione fosse perfettamente verticale, qualunque dissimmetria o squilibrio dell'equipaggio mobile non potrebbe dar luogo a coppie e quindi a moti di rotazione. Ma poiché la condizione non può essere sempre realizzata è indispensabile (ad eccezione di alcuni tipi di strumenti ad asse orizzontale, nei quali è il peso stesso dell'equipaggio che crea la coppia antagonista), che il centro di gravità dell'equipaggio mobile coincida con l'asse di rotazione. All'uopo si usano piccoli contrappesi come nella fig. 6.
È facile verificare se tale condizione è soddisfatta inclinando in vario senso l'apparecchio; se si ha la voluta coincidenza, l'indice dello strumento non deve scostarsi dalla posizione di riposo.
Negli strumenti, oggi sempre più rari, nei quali il peso dell'equipaggio mobile, volutamente dissimmetrico, serve a creare la coppia antagonista, si deve livellare l'apparecchio in modo che, ad apparecchio disinserito, l'indice sia sullo zero.
Da qualche anno si costruiscono, quando interessi una elevata sensibilità, ottimi strumenti con la sospensione a un solo perno (unipivot) secondo la disposizione della fig. 7 che si riferisce a un apparecchio a bobina mobile. Se il baricentro dell'equipaggio mobile coincide col punto d'appoggio del perno, l'apparecchio potrà funzionare anche con l'asse non perfettamente verticale. La molla antagonista m, a spirale cilindrica, concorre a individuare l'asse di rotazione dell'apparecchio.
In generale la coppia antagonista è ottenuta mediante una o due molle a spirale piana (fig. 8), costituite da sottili nastri generalmente di bronzo (fosforoso o silicioso), di cui un'estremità è fissata all'asse (o ad un punto qualsiasi dell'equipaggio mobile), mentre l'altra è fissata a un punto F della parte fissa dello strumento.
Quando l'asse ruota in un senso o nell'altro, la molla torcendosi o svolgendosi oppone una coppia resistente CR, rigorosamente proporzionale, entro ampî limiti, all'angolo di torsione δ. Possiamo porre: CR = Mδ. Il valore di M, detto coefficiente della molla, diminuisce leggermente per una data molla col crescere della temperatura. L'errore che ne può derivare è quasi sempre trascurabile e può essere in molti casi compensato, come vedremo, da altri effetti delle variazioni di temperatura. La dilatazione della molla al variare della temperatura modifica però la posizione di riposo dell'equipaggio mobile, ossia dà luogo ad uno spostamento dello zero. Per correggerlo in molti strumenti si rende spostabile, mediante una vite, il punto fisso F. Quando si usano due molle, avvolgendole in senso contrario, le loro dilatazioni possono compensarsi assicurando una maggiore stabilità dello zero.
Si chiama in generale portata di uno strumento di misura il valore massimo della grandezza che esso può misurare. Se la scala comprende n divisioni e se il valore della costante già definito è c, la portata sarà evidentemente espressa da nc. Quanto alla sensibilità, essa è espressa dalla più piccola variazione della grandezza misurata che lo strumento permette d'osservare.
In pratica è utile poter esprimere in qualche modo il pregio complessivo di uno strumento di misura.
Gli attriti, che, come si è visto, nella sospensione a perni per quanto si riducano, non si possono eliminare del tutto, fanno sì che la posizione di equilibrio dell'equipaggio è in generale definita solo a meno di uno scarto che sarà tanto minore quanto minore è la coppia di attrito CA rispetto quella motrice CM. Conviene dunque da un lato aumentare la CM, senza aumentare però la potenza dissipata P che conviene ovviamente sia minima, dall'altro diminuire la CA il che torna a parità di altre condizioni a diminuire il peso o meglio la massa m dell'equipaggio. Potremo quindi stabilire un coefficiente di merito nell'espressione CM/Pm, il cui valore cresce con la bontà dell'apparecchio.
Quanto al grado di esattezza praticamente raggiungibile negli strumenti industriali si è detto che, in generale, il solo errore di lettura non può scendere sotto all'uno per mille. Tenuto conto di tutte le altre cause di errore, un apparecchio di misura industriale che non dia errori relativi superiori all'uno per cento da un terzo della scala in avanti deve considerarsi come un apparecchio di precisione. Il che conferma quanto già detto sull'uso del regolo calcolatore e sull'approssimazione dei risultati delle misure industriali.
Un'altra qualità essenziale di un buono strumento indicatore è l'aperiodicità o il buono smorzamento. Quando l'equipaggio mobile di uno strumento non smorzato è deviato dalla sua posizione di equilibrio, esso vi ritorna con velocità crescente cosicché, per inerzia, la oltrepassa compiendo poi un certo numero di oscillazioni prima di fermarsi.
Un simile moto periodico non è ammissibile perché renderebbe le misure più lente e addirittura impossibili quando la grandezza da misurare fosse rapidamente ed irregolarmente variabile. In tal caso l'indice finirebbe col non fermarsi mai.
È quindi necessario smorzare le oscillazioni, impedendo al mobile di assumere velocità eccessive, ossia opponendo al suo moto resistenze che siano funzione crescente della velocità. L'azione smorzante deve essere infatti nulla quando l'equipaggio è fermo, ché diversamente le indicazioni dello strumento risulterebbero falsate. Tipica, come causa di smorzamento, è la resistenza dell'aria a cui si ricorre spesso negli strumenti elettrici di misura, munendo l'equipaggio mobile di un'aletta A (fig. 9) o di uno stantuffo S (fig. 10), che si muovono in una scatola a settore o in un cilindro arcuato. Lo smorzamento riesce tanto più energico quanto minore è l'agio lasciato fra l'aletta (o lo stantuffo) e le pareti della scatola (o del cilindro). Per gli strumenti registratori, in cui sono in giuoco coppie ragguardevoli, si ricorre spesso agli smorzatori a liquido (fig. 11), usati talvolta anche negli strumenti indicatori mediante la disposizione della fig. 12. Infine si ricorre spessissimo allo smorzamento elettromagnetico. L'asse dell'equipaggio porta un leggiero disco di alluminio (talora di rame) che si muove fra le espansioni polari di un magnete permanente (fig. 13). Quando il disco si muove si inducono in esso delle correnti che per la legge di Lenz frenano il movimento. La coppia frenante risulta rigorosamente proporzionale alla velocità.
Aumentando convenientemente l'azione smorzatrice si può ottenere che l'equipaggio raggiunga la sua posizione di equilibrio senza oltrepassarla; il moto si dice allora aperiodico. Aumentando ancora lo smorzamento il moto aperiodico diventa sempre più lento; lo strumento è tardo nei movimenti. Si dice critico lo smorzamento che determina il punto di transizione fra moto periodico e aperiodico, ovvero quello per il quale il movimento, benché aperiodico, si compie il più rapidamente possibile.
Le curve della fig. 14 dànno l'idea dei diversi generi di movimento.
Nei buoni strumenti industriali si cerca di realizzare uno smorzamento appena inferiore a quello critico, per modo che l'indice oltrepassi appena la posizione di equilibrio (curva a). Ciò dà, a chi legge, la garanzia che il mobile non è inceppato nei suoi movimenti, mentre con un moto nettamente aperiodico potrebbe nascere talora il dubbio che, per cause accidentali, l'indice si fosse fermato prima di avere raggiunto la posizione vera di equilibrio.
Passando ora all'esame dei singoli tipi di strumenti indicatori, si possono trattare insieme voltmetri e amperometri perché tutti i voltmetri - ad eccezione degli elettrostatici - sono in realtà amperometri di piccola portata, messi in serie con resistenze elevate.
Considerando la fig. 15 è infatti evidente che: V = I (r + R) = kI se (r + R) = costante. Pertanto basterà moltiplicare per k le indicazioni dell'amperometro A, oppure si potrà graduarne la scala direttamente in volt tenendo conto della nuova costante k. La resistenza R fa in tale caso parte integrante dell'apparecchio.
Un amperometro deve sempre essere inserito in serie nel circuito di cui si vuole misurare l'intensità di corrente; esso perciò deve avere la ininima resistenza interna r possibile:
a) per rendere minima la caduta di tensione provocata dall'apparecchio, affinché la sua inserzione non alteri le condizioni del circuito;
b) per rendere minima la potenza I2 r = Pp, in esso dissipata.
Se IM è la corrente massima che l'amperometro può misurare, ossia se IM è la portata dell'amperometro, possiamo definire consumo unitario o specifico Ps dell'apparecchio, la quantità: Ps = rIM2/IM = rIM; per gli strumenti a corrente continua esso è perciò rappresentato dalla caduta di tensione v = rIm provocata dall'amperometro quando è percorso dalla corrente massima. Nella pratica si indica tale caduta di tensione, in modo generico, come consumo dell'apparecchio.
Correlativamente, un voltmetro, che va sempre messo in derivazione tra i due punti del circuito dei quali si vuole misurare la differenza di potenziale V, deve avere la resistenza interna R più grande che sia possibile:
a) perché la corrente i da esso sottratta sia trascurabile rispetto alle correnti del circuito; così da non alterarne le condizioni;
b) per rendere minima la potenza Vi = V2/R dissipata nell'apparecchio.
Per un voltmetro se VM è la massima tensione misurabile, ossia la sua portata, il consumo specifico sarà: Ps = VM2/R : VM = VM/R, sarà cioè rappresentato dalla massima corrente i = VM/R che può passare nell'apparecchio e che viene in pratica indicata come consumo del voltmetro.
La questione del consumo degli strumenti può anche assumere una importanza economica non trascurabile. Con taluni tipi di ampermetri industriali la caduta di tensione v può essere di 0,2 ÷ 0,3 volt. Dovendosi misurare, p. es., 10.000 ampere (corrente non anormale nelle industrie elettrochimiche) la potenza dissipata nell'amperometro sarebbe di 2 ÷ 3 kilowatt.
Correlativamente un voltmetro che assorbisse una corrente i = 0,2 ampere (come taluni tipi termici), consumerebbe già un kilowatt quando dovesse usarsi per impianti a 5000 volt.
Seguendo lo schema di classificazione dato precedentemente, passeremo ora in rapida rassegna le categorie di voltmetri ed amperometri più usati, cominciando dagli amperometri e voltmetri elettromagnetici a bobina mobile destinati alle correnti continue.
Essi sono comunemente chiamati "tipo Weston" e derivano direttamente dal ben noto galvanometro d'Arsonval, con la semplice sostituzione dei perni e delle molle ai fili di sospensione, e dell'indice allo specchio usato per la lettura a riflessione.
Constano (fig. 16) di una bobina B portata dall'asse e mobile nell'intraferro esistente fra le espansioni polari di una calamita permanente e un nucleo cilindrico centrale U, disposto in modo da ottenere, nell'intraferro, un campo di intensità costante e di direzione radiale. Con ciò, entro un angolo di circa 90° utilizzato per i movimenti della bobina, la coppia motrice risulta sempre proporzionale alla corrente i che percorre la bobina perché le forze f, f′ agenti sui lati della bobina immersi nel campo (lati attivi) risultano sempre normali al piano della bobina ossia al loro braccio di leva. Avremo quindi una coppia motrice CM = Ki, una coppia antagonista, data dalla molla, Ca = Mδ e quindi la bobina si porterà in quella posizione di equilibrio per cui CM = Ca, ossia si avrà: i = c • δ ove c è la costante sopra definita se si esprime δ in divisioni della scala. In questi strumenti essendo M/K effettivamente una costante, le divisioni risulteranno uniformi. Dovendo la corrente percorrere le molle a spirale, lunghe e sottili per ragioni di sensibilità (per rendere piccolo M e quindi c) la portata degli strumenti del tipo ora descritto è limitata (al massimo 0,1 ÷ 0,2 A).
Volendo pertanto ottenere un amperometro di maggiore portata si deve derivare l'apparecchio sopra uno shunt S (fig. 17), con che risulta:
La nuova costante c′ sarà effettivamente una costante solo finché il rapporto (g + S)S, detto potere moltiplicatore dello shunt, rimane costante. Ora può accadere che in conseguenza di una variazione di temperatura le resistenze g e S varino in proporzione diversa, dando origine ad un errore di temperatura. Per ovviarvi si può pensare di fare lo shunt S di manganina o di altra lega di resistività praticamente costante negli ordinarî limiti della temperatura, ma non la bobina g, perché avendo la manganina la stessa densità del rame e una resistività 30 volte maggiore, la bobina stessa riuscirebbe, a pari sensibilità, o 30 volte più pesante o 30 volte più resistente. In pratica si riduce l'errore di temperatura con l'aggiunta di una resistenza di manganina rm in serie con la bobina (fig. 18). Con ciò la variazione percentuale della resistenza (r = g + rm) per una variazione di temperatura θ, detto α il coefficiente di temperatura del metallo di cui è fatta la bobina (rame o alluminio), risulta di
tanto più piccola quanto più rm è grande rispetto a g. In pratica rm ≅ 9 g, con che l'errore di temperatura risulta circa 10 volte più piccolo che se si usasse semplicemente uno shunt di manganina con bobina di rame. Sarà naturalmente:
L'accennata diminuzione del coefficiente della molla può talvolta compensare l'errore che residuerebbe. Esistono anche schemi più complessi che consentono una migliore compensazione dell'errore di temperatura.
Si costruiscono amperometri tipo Weston a una sola portata, regolando i diversi elementi del circuito sino a dare a c′ il valore esatto voluto per poter graduare la scala direttamente in ampere.
Gli strumenti di controllo si fanno invece a shunt permutabili, in modo da ottenere diverse portate. Si deve allora regolare lo strumento, atto da solo a misurare una certa I, in modo che c abbia l'esatto valore voluto; e si devono regolare separatamente i diversi shunt S. Affinché il rapporto c′/c=(r+S)/S abbia un valore m, esatto, basta che sia S=r/(m − 1). Con ciò corredando uno strumento di costante c e di resistenza interna complessiva r con una serie di shunt di resistenza r/9, r/99,. . . si otterranno le nuove costanti c′ = 10 c; c′ = 100 c, ecc.
Quando gli shunt sono separati dallo strumento, le connessioni fra gli uni e l'altro devono essere sempre le stesse facendo parte integrante di r.
Un voltmetro tipo Weston sarà invece costituito da un apparecchio del tipo descritto, di piccola portata i0, di costante c e di resistenza interna g, messo in serie con un'opportuna resistenza addizionale RM di manganina. Essendo RM in generale assai grande rispetto a g, la resistenza complessiva R = g + RM rimane praticamente costante col variare della temperatura, come è necessario per l'esattezza delle indicazioni. La portata del voltmetro sarà pertanto data dalla formula V = i0 (g + RM) = i0 R. Essa può quindi variare a piacere variando la resistenza addizionale RM. In generale, se ad un voltmetro di portata V, di resistenza complessiva R = g + RM e di costante c si aggiunge in serie una resistenza (di manganina) R′, atta a portare la stessa corrente i0, si avrà un nuovo voltmetro di portata V′ = V (R + R′)/R e quindi di costante c′ = c (R + R′)/R.
Nei voltmetri industriali da quadro (fig. 19) la resistenza addizionale è annessa all'apparecchio (spesso interna). La regolazione si fa appunto variando il valore della RM. Negli strumenti di controllo invece si fa generalmente in modo che R abbia un valore esatto e si predispongono poi resistenze addizionali multiple di R per ottenere tutte le portate desiderabili. Per quanto si è detto, per moltiplicare per m la costante e la portata di un voltmetro, si dovrà usare una resistenza addizionale di valore (m − 1) R; cosicché per moltiplicare per 10, 100, ecc., la costante e la portata di un voltmetro si dovranno usare rispettivamente resistenze addizionali uguali a 9 R, 99 R, ecc.
Gli strumenti tipo Weston hanno per loro natura un ottimo smorzamento elettromagnetico. Quando infatti la bobina oscilla nel campo magnetico di induzione B si genera in essa una forza elettromotrice di valore kBω (essendo ω la velocità angolare) e, se la bobina fa parte di un circuito chiuso di resistenza complessiva R, si ha una corrente Is = kBω/R, che, per la legge di Lenz, frena il movimento. Lo smorzamento sarà quindi tanto maggiore quanto minore sarà la resistenza R. Negli amperometri, la bobina essendo sempre chiusa sullo shunt, si ha in generale un ottimo smorzamento. Nei voltmetri si ha spesso una resistenza di regolazione in derivazione sulla bobina, che viene utilizzata anche per lo smorzamento. Talvolta si avvolge la bobina su un telaietto di alluminio, il quale, costituendo una spira chiusa di minima resistenza, diventa sede, durante il moto, di correnti indotte che concorrono allo smorzamento.
Gli strumenti tipo Weston sono i migliori che si abbiano per le correnti continue. Se ne costruiscono con l'equipaggio mobile del peso di un grammo, in condizioni eccellenti per quanto concerne gli attriti. Quanto al consumo specifico si hanno degli apparecchi (detti generalmente millivoltmetri) con g = 10 Ω, che vanno in fondo scala con 0,003 A. Usati come voltmetri, con resistenze addizionali, essi assorbiranno sempre tale corrente in corrispondenza della massima portata. Usati come amperometri essi richiederanno, per dare la massima indicazione, una differenza di potenziale agli estremi degli shunt, di 0,003 × 10 = 0,03 volt.
Ridotti praticamente trascurabili, come si è visto, gli errori di temperatura, poche sono le cause che possono alterarne le indicazioni variandone la costante.
Abbiamo già detto delle cause che possono fare lievemente variare M e R. In più si deve notare che quando lo strumento si trovi a funzionare in prossimità di forti masse magnetiche l'induzione magnetica B può essere alterata. Ma poiché B è prodotta da un campo magnetico assai intenso, essa non è sensibilmente influenzata dai campi magnetici ordinarî e segnatamente dal campo terrestre.
Per queste ragioni, siffatti strumenti sono dotati di una grande permanenza, intendendosi con ciò l'attitudine a mantenere immutata nel tempo la loro costante. Questa infatti può solo variare sia per un'alterazione dell'elasticità delle molle - specie in seguito ad eccessivi riscaldamenti - sia per una smagnetizzazione dei magneti permanenti, che può avvenire spontaneamente per cattiva qualità dell'acciaio che li costituisce, ma più spesso è dovuta all'essere l'apparecchio rimasto a lungo in campi magnetici intensi. Ricorderemo che le calamite permanenti si conservano assai meglio quando sia mantenuto chiuso il circuito magnetico mediante un'ancora di ferro dolce. La presenza del nucleo di ferro dolce e la piccolezza dell'intraferro (d'ordinario dell'ordine di 1 mm.) mettono quindi il magnete in buone condizioni di conservazione.
Da qualche anno si è introdotto per la costruzione dei magneti permanenti di questi strumenti l'uso di acciai speciali ad alta forza coercitiva che permettono di aumentare sensibilmente l'induzione nell'intraferro e quindi la sensibilità dello strumento, oppure di ridurne le dimensioni.
Gli alti pregi degli strumenti a bobina mobile e in particolare la loro elevata sensibilità e il piccolo consumo hanno spinto, quando interessino queste caratteristiche, a usarli anche per le misure su correnti alternate, accoppiandoli coi raddrizzatori ad ossido di rame o analoghi.
L'elemento essenziale di un raddrizzatore ad ossido di rame è costituito da un dischetto di rame di cui un leggiero strato è ossidato; la superficie di contatto tra rame e ossido di rame presenta una resistenza relativamente piccola al passaggio della corrente in un verso ed una elevatissima nel verso opposto. Ne deriva un ottimo effetto valvolare.
Si usano più comunemente 4 elementi raddrizzatori collegati a ponte, secondo una diagonale del quale è disposto lo strumento a bobina mobile (fig. 20), in modo da sfruttare tutte e due le semionde alternate. L'inconveniente maggiore di questi apparecchi è di dare indicazioni funzioni del valore medio della grandezza da misurare, per cui, graduati in valore efficace di una corrente sinusoidale, possono dare errori discreti quando la forma della curva si allontani sensibilmente dalla sinusoide. Anche le variazioni di temperatura hanno notevole influenza sull'esattezza delle indicazioni.
Gli strumenti elettromagnetici a ferro mobile costruiti in passato sotto molteplici forme e disposizioni, si riducono oggi quasi tutti alla disposizione indicata in fig. 21. Sotto l'azione del campo creato dal solenoide L percorso dalla corrente i da misurare, due segmenti di ferro dolce cilindrici, uno fisso S1 e l'altro S2 solidale con l'equipaggio mobile, si magnetizzano nello stesso senso e si respingono dando luogo a una coppia motrice il cui valore è una funzione complessa della corrente. La coppia antagonista è data da una molla o da un peso e la taratura deve essere fatta empiricamente, cioè per confronto con apparecchi d'altro tipo. Lo smorzamento è di solito ottenuto con smorzatori ad aria e, meno comunemente, a liquido. Invertendo il senso della corrente nel solenoide, la coppia motrice non cambia senso, cosicché simili strumenti sono atti a misurare tanto le correnti continue quanto quelle alternate. Data però la complessità della funzione che li governa, in generale la deviazione non è rigorosamente proporzionale al valore efficace della corrente, cosicché la taratura varia con la frequenza e con la forma della corrente da misurare.
Negli amperometri, a seconda della portata, si variano il numero e la sezione delle spire del solenoide, che per forti intensità si riduce talvolta a una semplice sbarra. Nei voltmetri il solenoide è costituito da molte spire di filo sottile ed è quasi sempre messo in serie con una resistenza addizionale.
Il campo interno del solenoide è naturalmente un campo debole, cosicché le indicazioni dello strumento possono essere alterate dalla presenza di campi esterni dovuti a conduttori vicini percorsi da forti correnti. Nel caso particolare che si misurino correnti continue, anche il campo terrestre può influenzare l'esattezza dello strumento; di più, in tal caso, per l'isteresi delle sue armature di ferro dolce, le indicazioni dello strumento possono variare in dipendenza dei precedenti valori della corrente. In altre parole lo strumento può dare indicazioni diverse per lo stesso valore della corrente a seconda che ad esso si giunga per valori crescenti o decrescenti della corrente.
L'abilità del costruttore è riuscita però, con opportuna scelta dei materiali e adeguata disposizione delle parti, a contenere gli errori provenienti da queste cause teoriche entro limiti così ristretti che oggi buoni strumenti a ferro dolce possono funzionare indifferentemente a corrente continua ed alternata a qualsiasi frequenza industriale con errori accettabilissimi; e non solo questi apparecchi sono i più diffusi come voltmetri e amperometri da quadro, ma possono superare come apparecchi di controllo gli elettrodinamici, rispetto ai quali presentano anche il vantaggio di un minore consumo (un amperometro a ferro mobile consuma 1 ÷ 1,5 watt circa), minor costo e maggior robustezza, dovuta soprattutto al fatto che la parte mobile non è percorsa da corrente.
Gli strumenti elettrodinamici sono basati sulle azioni elettrodinamiche che si esercitano fra due circuiti, uno fisso e uno mobile, percorsi da corrente. Sono costituiti da una bobina mobile Bm, costruita e montata come quelle degli strumenti Weston, che è posta nel campo di una o più bobine fisse Bf (fig. 22). Se im ed if sono i valori delle intensità di corrente che a un dato istante percorrono rispettivamente le due bobine, fissa e mobile, si avrà, in quell'istante, una coppia motrice c = kimif il cui senso dipenderà dal senso relativo delle due correnti. Il coefficiente k dipende dal numero delle spire, dalla forma e dalla posizione relativa delle due bobine; ma, proporzionando convenientemente queste ultime, si può ottenere che nella zona in cui si muove la bobina mobile, il campo risulti sensibilmente uniforme d'intensità e radiale di direzione, con che k rimane sensibilmente costante. Se le bobine sono percorse da due correnti sinusoidali Im e If di uguale frequenza, spostate di fase di un angolo β (fig. 23), la coppia varierà secondo la curva C le cui ordinate sono il prodotto delle ordinate contemporanee di Im e If. La coppia antagonista essendo data da molle, se la frequenza delle correnti fosse assai bassa, la bobina mobile e quindi l'indice si moverebbero innanzi e indietro seguendo l'andamento della curva C; ma per la frequenza elevata delle variazioni e l'inerzia dell'equipaggio mobile, questo assume invece una posizione d'equilibrio determinata dal valore medio della coppia C.
Tale valore medio, come è noto, è dato da Cm = kIm If cos β (essendo Im e If i valori efficaci delle due correnti). Se anche k varia notevolmente con la posizione relativa delle due bobine, l'indicazione dello strumento risulterà sempre funzione della quantità Im If cos β e con una scala a divisioni più o meno irregolari tracciate empiricamente si potrà sempre leggere direttamente il valore di tale prodotto. Nei voltmetri (la fig. 24 ne rappresenta un tipo a profilo) le due bobine sono collegate in serie e con una grande resistenza non induttiva RM (fig. 25). Con ciò If = IM = V/Z (essendo Z l'impedenza complessiva del circuito) β = 0° e cos Β = 1.
L'indicazione dello strumento risulterà pertanto funzione di V2, cosicché la scala potrà essere graduata direttamente in volt, e le indicazioni daranno in ogni caso il valore efficace della tensione applicata allo strumento. Ovviamente lo strumento funzionerà ugualmente bene con corrente continua; in tal caso la coppia sarà costante anziché variabile.
Poiché l'azione motrice cresce col quadrato di V, nonostante le variazioni più o meno sensibili della costante elettrodinamica k, la scala risulterà sempre di tipo quadratico (fig. 26), cioè a divisioni via via più larghe verso il fondo.
In una scala quadratica l'errore relativo di lettura aumenta rapidamente col diminuire della grandezza misurata. Così, riferendosi alla fig. 26, se in fondo scala per lettura di 100 l'errore relativo di lettura fosse di 1/1000, a metà portata esso già salirebbe a 1/250, perché la metà portata corrisponde ad una deviazione che è ¼ della massima, cosicché lo stesso errore assoluto di lettura assume una importanza 4 volte maggiore. Uno strumento a scala rigorosamente quadratica è quindi male utilizzabile al disotto di 4 o 5 decimi della sua portata.
Per l'esattezza delle indicazioni l'impedenza Z deve essere praticamente costante. Essendo sempre la resistenza Rm (di manganina) prevalente rispetto alla r delle due bobine (di rame o di alluminio), le variazioni della resistenza complessiva per effetto delle variazioni di temperatura non sono da temere. Anche le variazioni della reattanza X = 2 πfL con la frequenza, data la piccolezza di L rispetto ad R, producono variazioni della Z trascurabilissime alle frequenze industriali. Perciò si potrà variare la portata di simili voltmetri, come per i tipi Weston, mediante resistenze addizionali. Con l'aumentare della portata, e quindi della R, l'errore accennato sarà anzi sempre più trascurabile.
Il consumo di tali strumenti è dell'ordine di 0,03÷0,06 ampere.
Con le bobine in serie non si possono misurare correnti superiori a quelle che possono percorrere le molle antagoniste (al più 0,1 ÷ 0,2 A). Perciò negli amperometri elettrodinamici si dispongono le due bobine in parallelo (fig. 27).
Se si fa in modo che induttanza e resistenza del circuito della bobina fissa e di quello della mobile siano tra loro proporzionali, la corrente I si suddivide nei due circuiti in ragione inversa della loro resistenza (indipendentemente dalla frequenza) e le due correnti sono in fase tra loro (β = 0) cosicché l'indicazione dello strumento è data da:
La legge quadratica fondamentale dell'apparecchio rimane quindi la stessa ed esso sarà perciò atto a misurare il valore efficace delle correnti alternate come anche le correnti continue. Proporzionando opportunamente le resistenze dei due circuiti si può ottenere che quasi la totalità della I passi nelle bobine fisse, che possono essere di poche spire a forte sezione, mentre solo una piccola frazione della I passerà nella bobina mobile.
Per l'esattezza è necessario che le resistenze dei due circuiti non varino una rispetto all'altra. Perciò è necessario mettere una resistenza di manganina in serie con ciascuna bobina (fig. 28), aumentando notevolmente la caduta di tensione, ossia il consumo proprio dello strumento. Esso sale in qualche caso a 2 ÷ 3 volt.
Gli strumenti elettrodinamici, non avendo smorzamento proprio, sono corredati generalmente di smorzatore ad aria. Nonostante il loro forte consumo, gli strumenti elettrodinamici sono sempre strumenti a campo debole. Il campo della bobina fissa può cioè essere influenzato dai campi magnetici esterni. L' inconveniente può essere eliminato con la disposizione astatica o con la schermatura. Nei tipi comuni invece si può eseguire una doppia lettura, girando lo strumento di 180° o invertendo le connessioni in modo da invertire nei due casi il segno dell'errore dovuto al campo esterno perturbatore. Comunque, è necessario tenere tali strumenti, quanto è possibile, lontani da conduttori percorsi da forti correnti. Per gli amperometri i conduttori d'attacco dovrebbero essere sempre cordati per un certo tratto (fig. 29). La doppia lettura è sempre necessaria usando gli strumenti elettrodinamici con la corrente continua per eliminare l'errore dovuto al campo terrestre.
Con tale artificio gli strumenti elettrodinamici si possono tarare esattamente con correnti continue e adoperare poi con sicurezza con corrente alternata, di cui dànno in ogni caso il valore efficace. Sono anche strumenti di grande permanenza, perché, salvo accidenti che abbiano a deformare o a spostare le bobine, non hanno da temere che l'alterazione delle molle antagoniste. Tale possibilità è esclusa nelle bilance elettrodinamiche di lord Kelvin, nelle quali la coppia antagonista è ottenuta con pesi mobili su bracci graduati. Esse raggiungono così una permanenza praticamente assoluta che giustifica la loro qualifica di strumenti campioni.
Gli amperometri e i voltmetri termici possono essere ad azione diretta o ad azione indiretta. I primi, usati in un passato anche recente, hanno perduto quasi ogni importanza nel campo industriale per le loro molteplici cause di errore e per la pochissima permanenza delle loro costanti. Hanno invece trovato notevole impiego con le alte frequenze per le quali i tipi finora descritti poco si prestano. Sono basati sulla dilatazione di un filo di platino-argento di lunghezza l, percorso dalla corrente I. L'allungamento del filo è dato da: λ = lβθ (β = coefficiente di dilatazione, θ = aumento di temperatura). Si può scrivere poi: θ = krI2, donde λ = c I2.
Se anche, com'è di fatto, la resistenza r del filo varia a sua volta con la temperatura, c non sarà più una vera costante, ma l'allungamento sarà sempre funzione del quadrato della corrente. L'indicazione dello strumento sarà pertanto funzione del valore efficace della I.
Molti artifici furono usati per amplificare l'allungamento λ. Il migliore è quello di Hartmann e Braun, rappresentato in fig. 30, dove le linee continue corrispondono alla condizione di riposo; quelle a tratti mostrano, esagerata, la deformazione del sistema dovuta alla molla m in seguito all'allungamento del filamento AB percorso dalla corrente. Per un allungamento λ = AC′ − AC il punto C si porta in C′.
Potendosi porre:
risulta:
e quindi:
L'artificio ha anche il pregio di correggere la scala, la quale risulterebbe di tipo quadratico, perché l'amplificazione si va gradatamente riducendo con l'aumentare di λ. Infatti essendo y = CC′ = k√λ, sarà: dy = k/2•dλ/√λ.
Negli amperometri il filamento è messo in derivazione su shunt; nei voltmetri è messo in serie alla resistenza addizionale.
Per rendere pronto lo strumento (ossia perché il filo si porti presto in condizioni di regime termico), si devono adoperare fili molto sottili e per conseguenza meccanicamente assai delicati. Ne segue che un temporaneo, eccessivo riscaldamento, o spesso anche una scossa un po' violenta, possono alterare gravemente le costanti dello strumento. Il consumo di tali strumenti è piuttosto elevato: 0,2 ÷ 0,25 A per i voltmetri e 0,2 ÷ 0,25 V per gli amperometri. Massimo loro pregio: l'assoluta indipendenza dai campi esterni, dalla frequenza e dalla forma delle correnti misurate.
Ad azione indiretta sono gli apparecchi a coppia termoelettrica. La corrente che si deve misurare passa attraverso un filo che ne viene riscaldato; l'aumento di temperatura, proporzionale al quadrato della corrente, viene misurato mediante una coppia termoelettrica con un millivoltmetro a corrente continua, il quale può essere graduato direttamente in ampere della corrente che passa attraverso il riscaldatore (fig. 31). Il complesso filo riscaldatore-coppia termoelettrica prende anche il nome di convertitore termico.
Le coppie generalmente usate sono del tipo rame-costantana o analoghe che dànno forza elettromotrice dell'ordine di 5 mV per 100°. Si usano convertitori in cui riscaldatore e coppia sono elettricamente isolati e altri, che consentono maggiori sensibilità, nei quali il giunto caldo della coppia è saldato sul riscaldatore (croce termica). Per aumentare ancora la sensibilità si dispone il convertitore in un'ampollina di vetro dove si fa il vuoto in modo da diminuire la dispersione termica. Si possono avere amperometri a coppia termoelettrica da quadro che vanno in fondo scala con 15 mA e consumano solo 7,5 milliwatt; sensibilità ancora maggiori si possono ottenere con strumenti da laboratorio.
Questi strumenti dànno indicazioni che sono funzione del valore efficace della corrente; sono perciò indicati anche con curve deformatissime e alle alte frequenze, dove trovano oggi larga applicazione, preferiti ormai ai tipi a filo caldo, sui quali presentano i vantaggi di minore consumo, maggiore sensibilità e migliore permanenza; per contro un sovraccarico anche momentaneo conduce facilmente alla bruciatura del riscaldatore.
Anche qui disponendo in serie con un riscaldatore di piccola portata una grande resistenza, si ottiene un voltmetro. L'induttanza però di queste resistenze, per quanto minima, fa sì che alle frequenze elevatissime l'impedenza risulti variabile; perciò si sconsiglia l'uso di questi voltmetri per frequenze oltre 100.000 hertz, mentre gli amperometri si possono usare anche fino a qualche milione di hertz.
Un altro tipo di amperometro termico è quello a molla bimetallica; questa, sotto l'effetto del riscaldamento prodotto dal passaggio della corrente in un contiguo riscaldatore, si deforma provocando lo spostamento dell'indice. L'apparecchio, robustissimo, non ha grande permanenza. La sua caratteristica più saliente è la notevole lentezza che lo rende adattissimo come indicatore di massima richiesta.
I voltmetri elettrostatici sono una derivazione dell'elettrometro classico, ma nonostante i loro pregi teorici, l'eccessiva debolezza delle forze in giuoco toglie ad essi ogni importanza pratica per gli usi comuni. Si usano in pratica talvolta per la misura diretta delle elevate tensioni o anche in laboratorio per tensioni modeste alle frequenze elevate (fino a qualche milione di periodi) o dove interessi un consumo minimo.
Gli strumenti a induzione costituiscono un'importantissima categoria di strumenti da quadro solo per correnti alternate e hanno la loro maggiore diffusione nella forma di wattmetri integratori (contatori); sono raramente usati per misure di controllo. Hanno molteplici cause di errore che l'abilità del costruttore riesce a contenere entro limiti industrialmente accettabili, ma che tolgono ad essi il carattere di strumenti di precisione.
Constano nella loro forma più generale di un leggiero disco o di un tamburo di rame o alluminio (fig. 32) imperniato al solito modo e munito di un indice e di una molla antagonista. Il lembo del disco passa negli intraferri di due elettromagneti lamellati posti generalmente uno vicino all'altro. Supponendo che i due magneti siano eccitati da due correnti alternate I1 e I2 di uguale frequenza, ma spostate di fase di un certo angolo β, i flussi da esse prodotti inducono nel disco delle correnti che reagiscono con i flussi stessi dando origine a una coppia espressa da: Cm = kI1 I2 sen β.
Si può anche rendersi conto del funzionamento dello strumento, considerando che i due flussi prodotti dai due elettromagneti si compongano in una specie di campo rotante (meglio scorrente) che trascina il disco: di qui il nome di strumenti a campo Ferraris, dato spesso agli apparecchi a induzione.
Negli amperometri le correnti I1 e I2 possono essere due componenti opportunamente sfasate della corrente I da misurare: o anche la I2 può essere ottenuta per induzione dalla I1.
Tale è anzi la disposizione comunemente adottata. Si ha con essa (fig. 33) un unico elettromagnete eccitato dalla corrente I da misurare.
L'espansione polare è spaccata, formando così due denti: uno di essi porta un anello di rame in cui s'induce una corrente proporzionale a I che con questa crea la coppia motrice.
I voltmetri sono, al solito, amperometri di piccola portata e di elevata impedenza interna. Gli strumenti a induzione si costruiscono e si tarano empiricamente per una data portata. Le variazioni di portata si possono ottenere solo mediante trasformatori di misura. Particolarmente nel caso dei voltmetri si deve notare che, essendo essi dotati di elevatissima reattanza interna, non è possibile aumentare la portata con l'aggiunta di resistenze ohmiche.
Una caratteristica degli strumenti a induzione è che la loro scala, in conseguenza della forma dell'organo mobile (disco imperniato) può svilupparsi quasi su un'intera circonferenza, mentre in quasi tutti gli altri tipi essa abbraccia per lo più un angolo di circa 90° (fig. 34).
Dopo gli ampermetri e i voltmetri, si devono considerare i wattmetri, destinati, come indica il nome, alla misura delle potenze elettriche.
Mentre nei circuiti a corrente continua la potenza P = V I può essere determinata misurando separatamente i valori contemporanei della tensione V e della corrente I, nei circuiti a corrente allternata la relazione: p = v•i che ancora sussiste fra i valori istantanei, si traduce nella nota relazione P = VI cos ϕ, quando con P s'indichi il valore medio della potenza, con V e I i valori efficaci della tensione e della corrente, e con cos ϕ il fattore di potenza del circuito, il quale solo per le grandezze sinusoidali coincide col coseno dell'angolo di spostamento di fase esistente fra V e I.
I wattmetri possono essere elettrodinamici, elettrostatici, termici e a induzione ; ma solo i primi e gli ultimi hanno oggi vera importanza pratica.
Cominciando a considerare i wattmetri elettrodinamici, riferendoci a quanto detto sopra per gli strumenti elettrodinamici in genere, supponiamo di mettere la bobina fissa Bf di uno strumento elettrodinamico in serie col circuito di cui si vuol misurare la potenza P = V I cos ϕ (fig. 35); e colleghiamo la bobina mobile Bm (in serie con una grande resistenza addizionale RM, non induttiva, di manganina) in derivazione fra i due fili che alimentano il circuito. La bobina fissa inserita come un amperometro costituirà il circuito ampermetrico (o bobina ampermetrica) del wattmetro; la bobina mobile con le sue resistenze, inserita come un voltmetro, costituirà il circuito voltmetrico. Le correnti nelle due bobine saranno evidentemente: If = I, Im = V/Z, essendo Z l'impedenza del circuito voltmetrico. Se ammettiamo che la reattanza X della bobina mobile sia trascurabile, la Z coinciderà con la R del circuito voltmetrico e la Im risulterà in fase con la V. Risulterà allora l'angolo β fra la Im e la I uguale all'angolo ϕ e l'indicazione dello strumento sarà:
in grazia dell'inerzia dell'equipaggio mobile, come già osservato; l'apparecchio indicherà dunque la potenza assorbita dal circuito.
Osserviamo subito che avremo qui, come nelle misure di potenza nei circuiti a corrente continua, fatte con voltmetro ed amperometro separati, un errore dovuto al consumo proprio dello strumento. Nel caso infatti della fig. 35 il wattmetro misurerà una potenza uguale a quella assorbita dal circuito, più la potenza perduta nel proprio circuito amperometrico.
Ma una nuova causa d'errore abbiamo per il fatto che la bobina mobile ha sempre una certa induttanza L e quindi una reattanza X = 2 πfL. Per tale fatto, in primo luogo la Im = V/Z risulta funzione decrescente della frequenza, ossia, in altre parole, non essendo la Z costante essa non potrà più conglobarsi con la costante k′ dello strumento. Abbiamo però visto, parlando dei voltmetri elettrodinamici, che questo errore è praticamente sempre trascurabile.
Ma, in secondo luogo, la reattanza X della bobina mobile farà sì che la Im, non sarà più in fase con la V, ma spostata in ritardo di un piccolo angolo ε (fig. 36) definito da: tg ε = X/R. Risulterà quindi: β = ϕ − ε e il wattmetro, anziché la vera potenza V I cos ϕ verrà a misurare una potenza: P′ = V I cos (ϕ − ε) nel caso della figura, maggiore della vera P. L'errore assoluto sarà P′ − P e quello relativo sarà espresso in per cento da:
Essendo ε sempre piccolo si può ritenere cos ε − 1, cosicché l'errore i riduce a: 100 sen ε tg ϕ.
Come si vede, anche se sen ε è piccolo, l'errore relativo può diventare ragguardevole col crescere di ϕ e quindi di tg ϕ. Per ϕ = 90° l'errore diventa infinito nel senso che mentre la potenza è nulla il wattmetro indica il valore V I cos (90° − ε) =V I sen ε.
Gli errori di questo genere si chiamano errori di fase e possono avere anche altre cause. Nel caso ora ricordato l'errore è in pratica spesso trascurabile. In un buon wattmetro ordinario l'induttanza della bobina mobile è dell'ordine di 0,01 henry, con che, se f = 50, X = 3,14. Posto anche una R di soli 3000 Ω risulta
e quindi l'errore percentuale risulta:
Avremo cioè, per ϕ = 45° (cos ϕ = 0,707), tg ϕ = 1, un errore dell'un per mille circa; per ϕ = 60° (cos ϕ = 0,5), tg ϕ = √3, un errore dell'1,8 per mille, ecc.
Errori di fase assai maggiori si possono avere per effetto delle correnti di Foucault che possono essere indotte nelle masse metalliche poste in prossimità delle bobine amperometriche o nella massa stessa dei conduttori che le costituiscono. Esse tendono a diminuire il flusso creato dalla bobina amperometrica e a variarne la fase.
Per renderne trascurabile l'effetto conviene eliminare nella costruzione del wattmetro tutte le masse metalliche in prossimità delle bobine e, per forti intensità, le bobine amperometriche stesse dovranno essere costituite da molti fili in parallelo, fra loro isolati e intrecciati. È in gran parte per questa ragione che oggi in generale non si costruiscono più wattmetri per forti intensità di corrente, ma si ricorre sempre ai trasformatori di misura.
Dovremo infine ricordare che nei wattmetri, usati con corrente alternata, si può avere un altro errore di fase dovuto alla mutua induzione fra le due bobine, e precisamente alla corrente indotta dal flusso amperometrico nel circuito voltmetrico. Però l'errore che ne consegue è, in pratica, sempre del tutto trascurabile.
In un wattmetro dovremo sempre distinguere la portata in volt (o voltmetrica) e la portata in ampere (o amperometrica). La portata in watt risulta dal prodotto delle due e dall'eventuale valore supposto del fattore di potenza. Nei tipi di precisione ordinariamente si ammette un cos ϕ = 1; ma si hanno anche tipi speciali per misure con bassi fattori di potenza dove è ammesso un cos ϕ = 0,1. La costante dello strumento risulterà dalla portata in watt divisa per il numero delle divisioni della scala.
Assai facile riesce variare la portata in volt di un wattmetro elettrodinamico il cui circuito voltmetrico può essere considerato come un vero voltmetro. Basta ricordare quanto si è detto per le variazioni di portata dei voltmetri. La portata in volt del wattmetro risulterà proporzionale alla resistenza totale del circuito voltmetrico, e pure proporzionalmente varierà la portata in watt, ossia la costante dell'apparecchio.
Sia, per esempio, un wattmetro in cui ogni divisione della scala valga c watt, costruito per V volt con una resistenza complessiva nel circuito voltmetrico di R ohm. Mettendo in serie col circuito stesso una resistenza R′, il wattmetro potrà servire per una tensione:
e avrà quindi la nuova costante:
Sola condizione necessaria: che la R′ non sia induttiva e possa sopportare senza scaldarsi la corrente: Im = V/R.
Non altrettanto facile riesce la variazione della portata amperometrica. Non è infatti praticamente possibile l'uso degli shunt, che, prescindendo anche dagli errori di temperatura, dovrebbero essere induttivi, con lo stesso rapporto fra induttanza e resistenza della bobina fissa del wattmetro su essi derivata.
La disposizione più comunemente seguita consiste nel costituire la bobina amperometrica di due bobine identiche (fig. 37) che possano facilmente essere collegate in serie o in parallelo, in modo da variare da 1 a 2 la portata in ampere e, conseguentemente, la costante del wattmetro. La disposizione può dar luogo talora a notevoli errori quando si abbiano portate elevate.
In vista della variabilità della portata amperometrica e, soprattutto, voltmetrica, i wattmetri di precisione hanno generalmente la scala divisa in un certo numero di divisioni non graduate in watt.
La lettura, in divisioni, deve perciò essere moltiplicata per una costante che dipende dalle portate amperometrica e voltmetrica dello strumento e quindi dai trasformatori di misura eventualmente adoperati e dalle resistenze addizionali inserite nel circuito voltmetrico.
I wattmetri industriali da quadro sono invece graduati direttamente in watt o in kilowatt.
In certi wattmetri, particolarmente nei tipi da quadro, si fa chiudere parzialmente il circuito magnetico nel ferro ottenendo un campo più intenso, quindi una coppia maggiore e una minore sensibilità ai campi esterni (fig. 38). Di fronte a questi vantaggi si hanno inconvenienti diversi tra cui principalissimo il notevole errore di fase, che per quanto possa essere compensato per certe condizioni di funzionamento, sconsiglia di usare questi apparecchi per controlli di precisione. Per tale scopo si usano piuttosto, quando si abbiano a temere i campi esterni, i tipi astatici oppure quelli schermati.
I wattmetri elettrodinamici sono di gran lunga i più esatti e sono quelli cui sempre si ricorre per tutte le misure di precisione o comunque di notevole importanza. Consideriamo ora i wattmetri a induzione. Con riferimento al principio generale degli strumenti a induzione già ricordato, se si dispongono (figura 39) i due avvolgimenti dello strumento, uno in serie col circuito di cui si vuol misurare la potenza (avvolgimento amperometrico) e l'altro in derivazione (avvolgimento voltmetrico), nell'espressione generale della coppia motrice agente sul disco: Cm = kI1 I2 sen β, potremo porre I1 = I e I2 = V/Z, essendo tale corrente I2 nel circuito voltmetrico spostata in ritardo di un certo angolo θ rispetto alla tensione. Risulterà quindi:
Per un dato valore costante della frequenza, l'impedenza Z del circuito voltmetrico potrà essere conglobata nella costante dell'apparecchio; ma perché la coppia motrice risulti proporzionale alla potenza da misurare P = V I cos ϕ, si dovrà fare in modo che sia sen (θ − ϕ) = cos ϕ, condizione soddisfatta solo se θ = 90°.
Si dovrà quindi fare in modo che la corrente nel circuito voltmetrico o, più esattamente, il flusso da essa prodotto, sia in quadratura con la tensione. Soddisfatta tale condizione, prescindendo qui dalle cause secondarie di errore (variazione della frequenza, della forma della curva, della temperatura), opponendo al movimento del disco la coppia antagonista di una molla a spirale (fig. 39), si otterrà una deviazione dell'indice proporzionale alla potenza. La scala risulterà praticamente uniforme e potrà svilupparsi quasi su un'intera circonferenza.
Per ottenere l'esatto spostamento di 90° tra il flusso voltmetrico e la tensione che lo produce si sono immaginate via via diverse disposizioni. Oggi, caduti i brevetti relativi, la disposizione generalmente adottata è quella della fig. 40. Con essa solo una parte Φ2 del flusso totale Φ, prodotto dalla bobina voltmetrica, viene utilizzata attraverso il disco D dell'apparecchio e tale parte viene spostata in ritardo di fase rispetto al resto dalle correnti indotte in un anello di rame a che abbraccia l'espansione del nucleo. Tale anello funziona come il secondario di un trasformatore, in cui il flusso concatenato con i due avvolgimenti saretibe Φ2, mentre Φ1 rappresenta il flusso disperso del primario.
Una disposizione meno usata, ma che può essere utile in qualche caso, è basata sullo schema della fig. 41, nel quale B rappresenta la bobina voltmetrica del wattmetro. Essa si trova in parallelo con una resistenza ohmica R0 e viene percorsa da una componente Iv della corrente I totale assorbita dall'intero circuito voltmetrico.
Proporzionando convenientemente resistenze e reattanze delle diverse parti del circuito si può, per una data frequenza, ottenere che la Iv, sia in quadratura con la V.
I wattmetri a induzione, per quanto trovino la loro maggiore diffusione sotto la forma di strumenti integratori (contatori), sono assai usati negl'impianti.
Come i corrispondenti tipi di voltmetri e di amperometri, essi sono assai robusti e relativamente economici; hanno però in sé molteplici cause di errori sistematici (essendo sensibili alle variazioni di tensione, di frequenza, di forma d'onda, di temperatura, ecc.) che tolgono ad essi il carattere di strumenti di precisione.
Per quanto pochissimo usati nel campo industriale, ricordiamo il principio di funzionamento del wattmetro elettrostatico e di quello termico.
Il wattmetro elettrostatico è in sostanza un elettrometro a quadranti di cui i quadranti fissi sono collegati agli estremi della resistenza fissa S in serie nel circuito (fig. 42), mentre l'ago mobile è collegato all'altro filo attraverso una grande resistenza di protezione contro il corto circuito. Detti v0, v1, v2 i potenziali delle tre armature, la teoria dell'elettrometro a quadranti dà senz'altro che la coppia cui è soggetto l'equipaggio è proporzionale a (v1 − v0)2 − (v2 − v0)2 = (v1 − v2) (v1 + v2 − 2 v0); ma v1 − v2 = Si, mentre v1 + v2 − 2 v0 è il doppio della tensione che esiste tra il punto di mezzo di S e l'altro filo, la quale, se S è piccola relativamente all'impedenza del circuito utilizzatore, coincide con la tensione v a questo applicata. Detta coppia è dunque proporzionale al prodotto vi, ossia alla potenza istantanea, e l'indicazione sarà funzione della potenza media, qualunque sia la deformazione delle curve o la frequenza di alimentazione.
Il wattmetro termico, che ha più di un punto comune con quello elettrostatico, è schematizzato nella sua forma più pratica nella fig. 43. S è uno shunt in serie sul circuito, mentre R è un'elevata resistenza voltmetrica ed a e b sono i riscaldatori di due convertitori termici, le cui coppie, isolate da quelli, sono collegate in opposizione su un millivoltmetro. In questi riscaldatori si sovrappongono, a parte termini correttivi dovuti al consumo interno dell'apparecchio, le due correnti i′ ≡ i e iv ≡ v; ma mentre in a esse si sommano, in b esse si sottraggono; ossia abbiamo:
Le indicazioni del millivoltmetro, supposti i due convertitori uguali, sono quindi funzione di:
ossia della potenza. Lo schema richiede alcuni artifici per ridurre l'effetto dei termini correttivi di cui sopra. Se le diverse resistenze sono non induttive, lo strumento si presta egregiamente per le alte frequenze; inoltre è possibile ampliare la portata amperometrica con l'uso di shunt.
I wattmetri finora considerati servono naturalmente per la misura della potenza nei circuiti monofasi. Ma essi possono servire anche per la misura nei circuiti polifasi, e in particolare nei circuiti trifasi, usandoli secondo i noti schemi. Così, in un circuito trifase simmetrico ed equilibrato, un solo wattmetro, inserito su una fase qualunque e derivato fra essa e il centro del sistema, potrà darci la potenza del sistema, se se ne moltiplicano per 3 le indicazioni. In un circuito trifase a tre fili, comunque dissimmetrico e squilibrato, occorreranno due wattmetri inseriti secondo il noto schema Aron. La potenza del sistema sarà data dalla somma algebrica delle loro indicazioni. In un sistema trifase a quattro fili occorreranno tre wattmetri e così via.
Nella pratica degl'impianti, questi modi di misurare le potenze trifasi servono solo nelle misure di controllo. Occorre in generale poter conoscere la potenza agente in un sistema trifase per lettura diretta di un solo strumento: donde l'uso dei wattmetri trifasi. Questi sono essenzialmente di due tipi: a) wattmetri pseudotrifasi, i quali sono in realtà wattmetri monofasi inseriti e modificati in modo da indicare la potenza di un sistema che sia realmente o si ammetta convenzionalmente equilibrato. Tale può essere, p. es., un wattmetro monofase (elettrodinamico o a induzione) inserito come nella figura 44 e la cui scala sia stata moltiplicata per tre; b) wattmetri trifasi veri e proprî, i quali sono sempre costituiti dall'accoppiamento meccanico di due wattmetri monofasi inseriti in circuito secondo lo schema della fig. 45. Essi sono esatti con qualunque squilibrio e con qualunque dissimmetria del circuito. L'accoppiamento meccanico può essere realizzato in varî modi. In generale, negli strumenti elettrodinamici, le due bobine mobili sono fissate sullo stesso asse. Negli apparecchi a induzione si possono avere analogamente i due dischi dei due wattmetri elementari montati sullo stesso asse, oppure i due sistemi elettromagnetici costituenti i due wattmetri monofasi possono agire su un unico disco.
È opportuno ricordare che per l'esattezza di un wattmetro trifase di questo tipo (detto talvolta wattmetro doppio) devono i due wattmetri elementari essere esatti ciascuno per proprio conto.
Affini ai wattmetri finora considerati sono gli apparecchi misuratori della potenza reattiva e i fasometri.
I primi si chiamano anche varmetri dopo la decisione di chiamare var l'unità di potenza reattiva.
In un circuito in cui una tensione alternativa sinusoidale V mantiene una corrente pure sinusoidale I, spostata in ritardo di un certo angolo ϕ accanto alla potenza reale, o potenza attiva o semplicemente potenza che provoca il flusso dell'energia dall'apparecchio generatore a quello utilizzatore, e il cui valore medio è espresso da P = V I cos ϕ, si considera anche una potenza reattiva la quale presiede invece allo scambio ciclico di energia fra il circuito elettrico e i campi magnetico ed elettrico da esso prodotti. Il valore medio di tale potenza reattiva è nullo, ma essa raggiunge due volte al periodo un valore massimo espresso da Q = V I sen ϕ, che è quello che normalmente si considera.
La grandezza
omogenea con P e Q si dice potenza apparente. Si noti che in un circuito inerte di resistenza r, reattanza x = ωL e di impedenza
risulta anche: P = rI2, Q = xI2, A = Z I2.
Si deducono immediatamente le relazioni: cos ϕ = P/A; tg ϕ = Q/P, che servono entrambe per definire il fattore di potenza cos ϕ. In un circuito monofase le due definizioni si equivalgono. In un circuito complesso, come, p. es., un circuito trifase non equilibrato, solo la seconda è razionale e si deve definire il fattore di potenza con la relazione:
essendo genericamente Q e P le potenze reali e reattive delle singole parti in cui il circuito può essere decomposto.
Fino a pochi anni or sono nella pratica si dava importanza solo al valore del fattore di potenza, mentre la considerazione della potenza reattiva era del tutto insueta e da taluni combattuta. Oggi si riconosce invece da tutti che la considerazione delle potenze reattive accanto alle reali semplifica grandemente tutti i problemi pratici di esercizio degli impianti. Conseguentemente ai fasometri veri e proprî, destinati a indicare direttamente il valore di cos ϕ, vanno sempre più sostituendosi i misuratori di potenza reattiva.
D'altronde, come si vedrà, tutti i fasometri conosciuti non fanno che applicare la formula ultima scritta, ossia misurano in realtà il rapporto fra potenza reattiva e potenza reale, ossia la tg ϕ.
Se in un ordinario wattmetro elettrodinamico facciamo in modo (per es., con l'artificio della figura 41) che la corrente nella bobina voltmetrica sia in quadratura con la tensione, l'apparecchio indicherà, anziché la potenza V I cos ϕ, la quantità V I cos (90° − ϕ) = V I sen ϕ, ossia la potenza reattiva.
Lo stesso risultato si potrà avere con un wattmetro a induzione, quando si faccia in modo che la corrente nella bobina voltmetrica sia in fase con la tensione anziché in quadratura. Infatti, in tal caso (vedi fig. 39), β = ϕ e l'apparecchio misura V I sen ϕ. Simili tipi di strumenti sono generalmente muniti di scala con posizione di riposo centrale.
I fasometri propriamente detti (fig. 46) sono generalmente del tipo elettrodinamico e sono basati sul fatto che una bobina, percorsa da corrente alternata e posta in un campo rotante di uguale frequenza, tende a disporsi in modo che, nell'istante in cui la corrente raggiunge il suo valore massimo, il piano sia normale alla direzione che in quell'istante ha il campo rotante.
Infatti (fig. 47) sia i = I sen (ωt − ϕ) il valore istantaneo della corrente che percorre la spira nell'istante in cui il campo rotante ha la direzione OH. Il piano della spira formi un angolo α con la direzione che il campo ha per t = 0. In tale istante rappresentato dalla figura, la componente del campo nel piano della spira - la sola componente che può dare una coppia - ha il valore H cos (ωt − α), cosicché il valore istantaneo della coppia sarà:
Il valore medio della coppia stessa, in un intero periodo sarà (il valore medio del primo termine è evidentemente nullo):
che si annulla solo se α = ϕ.
Se il campo rotante non è perfettamente uniforme o le grandezze non sono perfettamente sinusoidali, non risulterà esattamente α = ϕ, ma sarà sempre α funzione di ϕ, cosicché un indice solidale con la bobina mobile potrà sempre indicare su apposita scala il valore di ϕ (o di cos ϕ). Costruttivamente la difficoltà di questi apparecchi sta nella necessità di addurre la corrente alla bobina mobile senza ostacolarne la libertà di movimento. Non si possono usare le molle solite, perché lo strumento non ha bisogno di coppia antagonista meccanica. Si adoperano di solito sottilissimi nastrini d'argento senza elasticità apprezzabile.
La costruzione dei fasometri è naturalmente più semplice per i sistemi trifasi che non per i monofasi, potendosi più facilmente realizzare il campo rotante.
Nella forma più generale un fasometro indicatore trifase sarà costituito (fig. 48) da tre bobine fisse disposte a 120° e percorse dalle tre correnti del sistema, e da tre bobine mobili fra loro solidali, alimentate dalle tre tensioni. Si dimostra che il sistema mobile si orienta secondo un angolo che è funzione dell'angolo Φ definito sopra.
Per le note relazioni fra le tre correnti e le tre tensioni dei sistemi trifasi puri (a tre fili) possono bastare in pratica due sole bobine amperometriche e due sole voltmetriche inserite secondo l'ordinario schema dei due wattmetri.
La misura della frequenza che per molti anni fu basata esclusivamente sulle indicazioni dei tachimetri (contagiri) dei generatori sincroni, si può fare direttamente, valendosi dei fenomeni di risonanza sia meccanici sia elettromagnetici, o indirettamente attraverso misure di correnti o di tensioni.
Qui basterà ricordare che, nel campo delle frequenze industriali, i frequenziometri più usati sono quelli a risonanza meccanica. Sono costituiti da una serie di laminette elastiche costruite in modo da avere un periodo proprio di vibrazione progressivamente crescente, fissate su una traversa magnetica mantenuta in vibrazione da un elettromagnete eccitato dalla tensione del circuito di cui si vuole misurare la frequenza. Quella delle laminette il cui periodo proprio di vibrazione è più prossimo a tale frequenza entra in risonanza e poiché le estremità di tutte le laminette si affacciano a una finestrella sui cui bordi sono indicati i diversi valori della frequenza, la lamina in vibrazione viene ad indicare senz'altro il valore cercato della frequenza (fig. 49).
Pure molto usati sono i frequenziometri indicatori, di tipo voltmetrico, che possono essere sia elettromagnetici sia a induzione. Se, p. es., sul disco di uno strumento a induzione agiscono in opposizione due sistemi elettromagnetici analoghi a quelli dei voltmetri (fig. 50), il disco tenderà a girare vincendo l'azione di una molla antagonista nell'uno o nell'altro senso, secondo che prevale l'uno o l'altro dei due sistemi.
Ora in serie con uno di essi si trova una resistenza ohmica R0, con l'altro un'impedenza Z fortemente induttiva. Se la frequenza aumenta, la I2 diminuirà rispetto alla I1 e il disco ruoterà in un senso. Ruoterà in senso contrario, se la frequenza diminuisce. Un indice solidale col disco potrà quindi indicare su una scala, graduata empiricamente, il valore della frequenza.
Gli ohmmetri, misuratori di resistenza a indicazione diretta, sono essenzialmente di due tipi. Il tipo a bobina mobile non fa in sostanza che misurare la corrente assorbita dalla resistenza incognita. Se la tensione di alimentazione è costante, lo strumento può essere graduato direttamente in ohm. La tensione può essere fornita da una piccola batteria di pile, oppure, per tensioni elevate (misure d'isolamento), da una piccola dinamo (spesso incorporata nell'apparecchio) azionata a mano. Apposito tasto di corto circuito permette di verificare se la tensione ha il valore prestabilito; in tal caso infatti l'indice deve portarsi sulla graduazione 0 ohm. Alcuni tipi con alimentazione mediante pile sono muniti di un piccolo shunt magnetico regolabile che permette di variare l'induzione nel traferro e compensare così le variazioni della tensione di alimentazione.
Molto più preciso perché indipendente dalle variazioni della tensione di alimentazione è il tipo a bobine incrociate. Si tratta di uno strumento a magneti permanenti fissi, in cui l'equipaggio mobile è costituito da due bobine solidali tra loro e formanti un determinato angolo; non vi sono molle antagoniste; la corrente viene addotta mediante sottili nastrini che non dànno coppia apprezzabile. Mediante opportuna conformazione delle espansioni polari o del nucleo centrale si ottiene che il campo magnetico invece che essere radialmente uniforme varii con continuità da un massimo a un minimo (fig. 51). L'equipaggio assumerà allora una posizione di equilibrio per la quale:
dove con i1 ed i2 s'indicano le correnti nelle due bobine e con B1 e B2 le induzioni nei punti in cui vengono a trovarsi i lati attivi delle bobine. Il rapporto B1/B2 è funzione solo dell'angolo di deviazione, il quale pertanto risulta funzione del rapporto tra le due correnti. Se ora le due bobine vengono disposte in serie l'una con una resistenza fissa C, l'altra con la resistenza da misurare X (fig. 51), la deviazione è funzione solo di questa e lo strumento può essere graduato direttamente in ohm.
Anche qui la sorgente può essere costituita da una batteria oppure per misure di isolamento da piccole dinamo che dànno anche 500 o 1000 volt. Questo soprattutto allo scopo di assicurarsi che l'isolamento che si determina non cederà neanche a una tensione abbastanza elevata.
Una categoria speciale di ohmmetri è costituita dai misuratori di terra, nei quali la caratteristica essenziale è che la resistenza di terra deve essere percorsa da corrente alternata per evitare i fenomeni di polarizzazione che si presenterebbero con corrente continua. Si hanno apparecchi del genere che non sono in sostanza che ohmmetri analoghi ai tipi visti sopra, ma muniti d'invertitore meccanico.
Strumenti registratori. - Comuni ad ogni ramo della tecnica sono quelli che tracciano un diagramma dei successivi valori assunti dalla grandezza misurata. Teoricamente qualunque strumento indicatore può dar luogo al corrispondente registratore.
Basta pensare (fig. 52) di applicare all'estremità dell'indice una penna o altro organo scrivente, il quale appoggi su una striscia di carta mossa con velocità uniforme da un meccanismo di orologeria. Si otterrà così un diagramma a, sul quale le ascisse (tempi) saranno rettilinee, mentre le ordinate (grandezza misurata) saranno curvilinee (archi di cerchio). Una siffatta disposizione non è in generale praticamente possibile, perché con essa gli attriti dell'organo scrivente sulla carta, che si oppongono al movimento del sistema, assumono un'importanza grandissima. I caratteri particolari degli strumenti registratori derivano pertanto dagli artifici in essi usati per superare gli attriti inerenti alla registrazione e, in molti casi, per ottenere diagrammi a coordinate rettilinee.
In ogni strumento registratore si ha:
a) un meccanismo destinato a mantenere in movimento la superficie su cui si traccia il diagramma;
b) l'apparecchio di misura vero e proprio destinato a far muovere direttamente o indirettamente la penna o l'organo scrivente.
Il movimento uniforme della carta è generalmente affidato a un meccanismo di orologeria a molla, che può essere ricaricato a mano, periodicamente oppure automaticamente, valendosi dell'energia elettrica a disposizione. In questo secondo caso, a regolari intervalli di tempo, determinati dal meccanismo stesso, si viene a eccitare un elettromagnete che rimette la molla in tensione. L'inconveniente di questo sistema è che, in caso d'interruzione del servizio, mancando la tensione, dopo un certo tempo il meccanismo di orologeria si ferma. Poiché è invece spesso importante di poter rilevare dai diagrammi numero e durata di tutti i periodi di arresto, si preferiscono d'ordinario i meccanismi a ricarica a mano, quindicinale o mensile.
Il meccanismo stesso assume forme diverse a seconda del tipo di diagramma che si vuole ottenere. Generalmente, nei migliori registratori moderni si usa il sistema della carta continua, utilizzando una striscia di carta di molti metri di lunghezza, che svolgendosi da un rotolo viene fatta passare sotto l'organo scrivente. La velocità della carta può variare notevolmente a seconda degli scopi prefissi (misure e ricerche di breve durata o registrazioni continue). Negli apparecchi industriali più comuni la velocità della carta è compresa fra 10 e 60 millimetri all'ora.
Si usano però ancora frequentemente registratori a fogli: sia usando fogli rettangolari fissati su un tamburo cilindrico che fa un giro al giorno (o alla settimana o al mese); sia usando fogli circolari (quando non interessi una grande precisione) negli apparecchi registratori a disco (fig. 53), nei quali tanto le ascisse quanto le ordinate del diagramma risultano curvilinee.
Per ottenere invece anche le ordinate rettilinee, nei più importanti tipi di registratori ad azione diretta si sono adottati dispositivi diversissimi.
Uno dei più semplici è quello di obbligare la striscia di carta ad adagiarsi su un segmento di superficie cilindrica su cui scorre la punta dell'indice ripiegata come mostra la fig. 54.
Altra disposizione che ebbe notevole diffusione è quella derivata da un noto artificio cinematico, ed è ricordata nella fig. 55. Ruotando l'asse O dello strumento dell'angolo DO???D′, mentre l'estremità M della leva MA si sposta verticalmente fra due guide fisse, l'altro estremo A - scelte convenientemente le proporzioni del sistema - si muove sensibilmente secondo una retta orizzontale AB. Il dispositivo ha il difetto d'aggiungere nuovi attriti a quelli della penna.
Da quanto precede risulta che si potranno realizzare buoni apparecchi registratori ad azione diretta solo partendo da quei tipi di strumenti indicatori suscettibili di dare coppie motrici sufficientemente energiche entro limiti ragionevoli di consumo.
Infatti, per poter rendere trascurabile la coppia di attrito CA nell'equazione generale d'equilibrio dello strumento, CM = CR ± CA, è qui necessario ricorrere a coppie motrici CM da 1000 a 2000 volte più grandi che nei corrispondenti tipi di strumenti indicatori. Pertanto solo con i tipi elettromagnetici a bobina mobile, con i termici, con i tipi a induzione è possibile ottenere discreti registratori ad azione diretta. Con gli strumenti elettrodinamici è necessario far chiudere parzialmente nel ferro (con pregiudizio dell'esattezza) il circuito magnetico delle bobine fisse, per aumentare l'intensità del campo fisso.
Per poter rendere registratori anche taluni dei più delicati strumenti indicatori, come può essere necessario a scopi speciali, si è girata la difficoltà mediante la registrazione discontinua, per punti (cfr. anche la registrazione fotografica adottata, p. es., negli oscillografi, ove l'organo scrivente si riduce a un raggio luminoso).
La punta dell'organo scrivente non tocca normalmente la carta, cosicché lo strumento di misura rimane completamente libero nei suoi movimenti. Solo a regolari intervalli di qualche secondo il meccanismo di orologeria comanda una leva che porta per un istante l'organo scrivente a contatto della carta, su cui esso segna un punto.
La linea del diagramma rimane così costituita da una serie di punti vicinissimi.
Questo sistema di registratori a punti si presta anche alla registrazione di diverse grandezze su uno stesso diagramma; basta che un apposito commutatore, comandato pur esso dal movimento d'orologeria, inserisca sullo strumento di misura, dopo ogni punto, una grandezza diversa. In tal modo si allunga però per ogni grandezza il periodo di registrazione e perciò il sistema è usabile solo per grandezze che variano lentamente e con una certa regolarità.
La soluzione migliore del problema, quando non si tratti di registrare grandezze troppo rapidamente variabili, è fornita dagli apparecchi a registrazione indiretta, che si valgono del noto artificio del relais e del servomotore.
Si consideri, per es., un elettrodinamometro del tipo classico, nel quale non si lascia deviare la bobina mobile, ma la si riporta sempre nella posizione di riposo torcendo a mano la molla antagonista in modo da equilibrare la coppia elettrodinamica motrice: la misura della grandezza misurata viene allora data dall'angolo di cui si è dovuto torcere la molla per mantenere la bobina nella posizione di riposo, bene individuata da un piccolo indice solidale con la bobina mobile, che si sposta davanti a un segno di riferimento. Se il bottone che si deve manovrare per torcere la molla comandasse un indice portante la penna di un sistema registratore, è chiaro che gli attriti di questa sarebbero a carico della mano dell'operatore che manovra il bottone, mentre il sistema elettrodinamico rimarrebbe sempre completamente libero nei suoi movimenti. Si tratta di sostituire all'occhio dell'operatore che osserva gli spostamenti della bobina mobile, un relais, e alla mano che manovra il bottone della molla, un servomotore.
Così, per es., consideriamo un wattmetro elettrodinamico del tipo a bilancia, nel quale le bobine voltmetriche mobili bb, fissate all'estremità di un giogo oscillante intorno all'asse O (figura 56), si trovano fra due coppie di bobine ampermetriche fisse BB. Supponiamo che ad un aumento della potenza che si vuol misurare il giogo tenda a ruotare nel senso della freccia. Basterà fissare al sistema mobile un contatto che si trovi fra due contatti fissi a e d che comandano il servomotore M, azionato, p. es., da una forza elettromotrice continua ausiliaria. Chiudendosi il contatto a, il motore M ruota nel senso necessario per tendere la molla antagonista m, che equilibra la coppia elettrodinamica, ruota in senso contrario quando si chiude il contatto d. Consegue immediatamente che a ogni variazione della potenza misurata nell'uno o nell'altro senso, il motorino M farà variare la tensione della molla in modo da mantenere il contatto mobile a metà fra i due contatti fissi. È facile pensare un sistema di trasmissione meccanica, per es., a ruota dentata e cremagliera, per cui un indice o un organo scrivente con questa solidale venga a spostarsi in linea retta proporzionalmente alla tensione della molla ossia alla potenza da misurare, tracciando così su una striscia di carta a moto uniforme un diagramma a coordinate rettilinee.
Il procedimento, qui solo accennato, è stato applicato in varî modi ingegnosi sia in Italia (Arcioni - C. G. S.) sia in America (Westinghouse-Callender) dando origine ai più perfetti strumenti registratori che la tecnica possieda (fig. 57).
Con ulteriori artifici il sistema del relais e servomotore è applicabile con successo anche a strumenti di misura a coppia relativamente debole.
Strumenti integratori. - Sono quelli che integrano in funzione del tempo i successivi valori di una data grandezza x. Essi indicano cioè il valore raggiunto da ∉ x•dt al momento della lettura. L'artificio fondamentale su cui essi si basano è sempre lo stesso: basta realizzare un motorino la cui velocità angolare ω risulti automaticamente sempre proporzionale al valore della grandezza x da misurare. Con ciò, il numero N dei giri compiuti dal motorino in un dato tempo T risulterà:
ossia ci darà il valore dell'integrale cercato.
Basterà quindi misurare tale numero N: cosa assai facile se si applica al sistema un ordinario rotismo contagiri, costituito, com'è noto, da una serie d'ingranaggi di rapporto 1:10, per modo che gl'indici a ciascuna ruota fissati indicano sui relativi quadranti rispettivamente le unità, decine, centinaia, ecc. Fra la prima ruota della serie (che indica le unità) e l'asse del motorino si avranno in generale ulteriori rotismi, il cui rapporto si potrà scegliere in modo da dare un valore esatto ai numeri letti sul quadrante.
Nel campo dell'elettrotecnica gli strumenti integratori di gran lunga più importanti sono i wattmetri integratori, comunemente detti contatori. I contatori elettrici sono apparecchi destinati a misurare l'energia elettrica fluita attraverso un dato circuito. L'energia W è infatti espressa per definizione da W = ʃ P•dt, essendo P la potenza agente nel circuito.
È superfluo ricordare che un wattmetro registratore dei tipi precedentemente descritti può servire esso pure alla misura dell'energia. Basterà integrare con un planimetro o altrimenti l'area del diagramma da esso tracciato.
Ovviamente, se le ordinate del diagramma sono espresse in kW e le ascisse in ore, l'area ci darà in kWh l'energia trascorsa.
In casi speciali la misura dell'energia si può anche fare con altri tipi di strumenti integratori. Così nel caso speciale di un opificio che richieda una potenza sensibilmente costante, si potrà convenzionalmente assumere senz'altro P = costante, con che:
Basterà quindi misurare il tempo durante il quale l'opificio lavora.
Il risultato si può ottenere con un contatore di ore, meccanismo d'orologeria che muove un rotismo contagiri collegato con un sistema di blocco all'interruttore principale dell'opificio. Quando l'interruttore è chiuso, e l'opificio funziona, l'orologio cammina: esso si ferma quando l'interruttore viene aperto. Moltiplicando il numero delle ore segnate dal contatore per il valore convenzionale costante P (kW) della potenza, si avrà il numero dei kWh consumati.
Nelle reti a corrente continua per cui P = V I, si ammette talora, convenzionalmente, che la tensione V sia realmente costante. Con ciò per la misura dell'energia basterà un amperometro integratore o amperorametro, che ci darà il valore di ʃ I•dt = Q = quantità di elettricità fluita nel circuito.
Tali amperorametri - pochissimo usati in Italia - possono essere di tipo elettromagnetico o anche di tipo elettrochimico, sfruttanti cioè l'azione elettrolitica della corrente continua. In talune reti estere, soprattutto inglesi, sono frequentemente ancora impiegati contatori di tale tipo in cui la corrente dissocia nitrato di mercurio da una soluzione acquosa. Il mercurio raccolto dà la misura degli amperora passati.
Nelle reti italiane a corrente alternata si ricorre invece sempre ai wattorametri, di cui i tipi più importanti sono l'elettrodinamico e quello a induzione.
I contatori elettrodinamici sono costituiti da un piccolo motore con collettore a lamelle, costruito senza ferro. Il campo, formato da poche spire, è messo in serie col circuito di cui si vuol misurare l'energia; l'indotto, di filo sottile, di elevata resistenza e con eventuale resistenza addizionale esterna, è alimentato in derivazione dalla linea (fig. 58) che supporremo a corrente continua. La coppia motrice di un motore a corrente continua (come del resto di qualunque macchina elettrica) è proporzionale alla corrente i nell'indotto e al campo Φ in cui questo si muove. Nel caso nostro, non essendoci ferro, il flusso Φ sarà rigorosamente proporzionale alla I nel circuito. La corrente i nell'armatura sarà data da (V − E)/R, essendo E la forza controelettromotrice generata nell'armatura stessa per effetto della rotazione. Mentre nei motori ordinarî si fa in modo che la E sia prossima a V per avere un elevato rendimento, nel caso del contatore si deve fare in modo che la E sia trascurabile: data la debolezza del flusso e la piccola velocità angolare risulta in generale E ???39??? 0,01 V.
Potremo così ritenere i = V/R; e pertanto scrivere per la coppia motrice del nostro motorino l'espressione:
ossia la coppia motrice è sensibilmente proporzionale alla potenza agente nel circuito. Sull'asse del motore è fissato un disco di rame o di alluminio che viene a ruotare fra le espansioni di una calamita permanente. Le correnti indotte nel disco, per la solita legge di Lenz, creano una coppia frenante Cf proporzionale alla velocità angolare (Cf = k2ω). Trascurando per il momento le altre resistenze che possono opporsi al movimento del sistema, questo assumerà pertanto quella velocità angolare per cui la coppia motrice uguaglia la coppia frenante; ossia per cui: k′P = k2ω, donde ω⊄P. Risulta cioè soddisfatta, sia pure approssimativamente, la condizione necessaria per ottenere un contatore: velocità angolare proporzionale alla potenza agente nel circuito. Il rotismo contagiri applicato al motorino potrà quindi indicare i kilowattora fluiti nel circuito.
Ma al moto del sistema si opporranno anche le resistenze di attrito dei perni e delle spazzole sul collettore con una coppia resistente CA sensibilmente costante. L'equazione di equilibrio dinamico sarà pertanto Cm = Cf + CA, donde ω = (k2P − CA)/k2, ossia il motorino girerà più adagio del giusto: il contatore segnerà meno del vero. L'errore relativo sarà tanto maggiore quanto più piccola sarà la potenza del circuito e, al limite, ci sarà un valore minimo P0 per tale potenza, al disotto del quale il contatore non riuscirà a girare. È pertanto necessario compensare gli attriti, e perciò si aggiungono al sistema induttore alcune spire in serie con l'indotto e percorse quindi dalla corrente voltmetrica i = V/R. Il dehole campo ϕ da esse prodotto genera una coppia motrice ausiliaria: Cm ≡ ϕi ≡ i2 ≡ V2 che, per un dato valore della tensione V, potrà rendersi uguale alla coppia resistente CA dovuta agli attriti. Così l'equazione di equilibrio dinamico, che diventa: CM + Cm = Cf + CA si riduce ancora alla forma prima considerata Cm = Cf.
La compensazione degli attriti sarà necessariamente solo approssimata, sia perché gli attriti stessi possono variare col tempo, sia perché la tensione V non è in pratica realmente costante. Accade di solito che a vuoto (I = 0) la tensione è sempre un po' maggiore che a carico, mancando le cadute di tensione dovute alle linee; facilmente può allora accadere che, la coppia compensatrice eccedendo quella di attrito, il contatore giri a vuoto. Molti artifici furono escogitati per eliminare questo grave inconveniente (errore in più); ma il più comune è oggi quello di fissare al disco un pezzettino di ferro. Quando il disco gira lentissimamente, come nel caso di marcia a vuoto, l'attrazione del magnete permanente sul pezzettino di ferro basta a fermarlo quando gli passa vicino. Invece, alle velocità normali di funzionamento, tale azione attrattiva non solo non riesce a fermare il contatore ma non ne modifica neppure la velocità media.
Non è qui il luogo di studiare le ulteriori cause di errore di simili contatori. Essi sono ormai riservati esclusivamente alle correnti continue. Il costo notevole, il peso del sistema mobile e il notevole valore degli attriti (specialmente per la presenza delle spazzole, anche se ridotte a semplici fili d'argento poggianti su collettori di pochi millimetri di diametro) fanno sì che il contatore elettrodinamico non può competere, nei circuiti a corrente alternata, col contatore a induzione.
Parlando del wattmetro a induzione abbiamo visto come si possa ottenere che la coppia motrice agente sul disco sia sensibilmente proporzionata alla potenza elettrica agente nel circuito (CM − k1P). S'immagini ora di togliere la molla antagonista e di aggiungere il rotismo contagiri ρ e un magnete permanente M, per frenare il disco (figg. 59 e 60). Il flusso Φ, costante, di questo originerà, quando il disco ruota con velocità angolare ω, una coppia frenante Cf ≡ ωΦ2. In più, il disco venendo a cogliere nel suo movimento anche i flussi voltmetrico ΦV e ampermetrico ΦA del sistema elettromagnetico motore, dovrà vincere due coppie frenanti rispettivamente proporzionali a ωΦ²V e ωΦ²A (in sostanza il sistema elettromagnetico motore induce nel disco due tipi di correnti: quelle dovute alla pulsazione dei flussi, che reagendo con questi originano la coppia motrice e si producono anche a disco fermo; e quelle dovute solo alla rotazione del disco che per la legge di Lenz si oppongono al movimento). Poiché i flussi voltmetrico e ampermetrico si possono ritenere rispettivamente proporzionali alla tensione V e alla corrente I agenti nel circuito, la coppia frenante complessiva (prescindendo per il momento dagli attriti) potrà esprimersi: CF = ω {k2 Φ2 + k3 V2 + k4 I2} e, poiché all'equilibrio dinamico deve essere CM = CF, risulterà:
Ossia, in generale, la velocità angolare non sarà proporzionale alla potenza P da integrare. Perché tale condizione si possa raggiungere, come è necessario, almeno approssimativamente, bisognerà fare in modo che, nel denominatore, i termini variabili k3 V2 e k4 I2 siano trascurabili rispetto al termine k2 Φ2 costante. In altre parole, si dovrà rendere l'azione frenante del magnete permanente assolutamente prevalente sulle altre due. E così si fa in pratica.
Pur con questa prima approssimazione fondamentale, il contatore può dare soddisfacenti risultati per la piccolezza dei suoi attriti, dovuta all'assenza di spazzole e alla grande leggerezza del sistema ruotante. Tuttavia occorre anche qui una compensazione, ottenuta provocando una piccola dissimmetria nel flusso voltmetrico in modo da ottenere una coppia ausiliaria proporzionale a V2; e si deve per conseguenza ricorrere al pezzettino di ferro, fissato al disco, allo scopo di impedire la marcia a vuoto.
Nonostante le numerose cause di errori sistematici insite nella natura stessa dello strumento, il contatore a induzione è oggi forse l'apparecchio di misura elettrico più diffuso (fig. 60). I costruttori sono riusciti a contenerne gli errori entro limiti normalmente tollerabili e a ridurne il prezzo a poche decine di lire.
Il contatore a induzione non deve però mai essere considerato strumento di precisione, e per le forniture di energia di grandissima importanza è preferibile oggi ricorrere all'integrazione dei diagrammi di buoni wattmetri registratori a relais, o ad altri più complessi dispositivi.
Fra le ragioni che giustificano la diffusione del contatore a induzione sta il suo basso consumo d'energia nel circuito voltmetrico, inferiore in taluni tipi a un watt. L'importanza economica della cosa bene appare considerando che in una città in cui siano installati 100.000 contatori, a un watt per contatore, sono 100 kW dissipati continuamente nei circuiti voltmetrici, ossia oltre 800.000 kilowattora all'anno. Le società distributrici si fanno largamente pagare tale energia con i noli dei contatori; ma dal punto di vista dell'interesse generale è ovvia la convenienza di ridurre tale consumo.
Nei circuiti trifasi la misura dell'energia, analogamente che per la potenza, si può fare o con due contatori monofasi separati, inseriti in circuito secondo il solito schema dei due wattmetri, oppure per mezzo di contatori trifasi. Questi alla loro volta si potranno distinguere in contatori pseudotrifasi, che sono in realtà apparecchi monofasi inseriti e regolati in modo da indicare l'energia trifase ritenendo convenzionalmente che il sistema sia sempre equilibrato e simmetrico; e in contatori trifasi propriamente detti, risultanti cioè dall'accoppiamento meccanico sullo stesso asse di due contatori monofasi.
Usando due contatori monofasi separati, uno di essi deve poter girare all'indietro, quando il fattore di potenza del sistema scende sotto 0,50 (ϕ 〈 60°). In tal caso l'indicazione ai quadranti di detto contatore andrà naturalmente diminuendo; donde la possibilità di qualche inconveniente. Per contro i contatori trifasi veri e proprî sono di costruzione più delicata per la possibile mutua influenza dei due sistemi elettromagnetici che li compongono.
Riguardo ai contatori pseudotrifasi, oggi sempre meno usati, si deve notare che essi possono essere costruttivamente più semplici dei monofasi. Infatti un contatore pseudotrifase potrebbe essere un ordinario contatore monofase inserito come in a (fig. 61), in maniera da integrare la potenza EI cos ϕ, agente sulla fase 1, e dare il risultato già moltiplicato per 3. La corrente iV nel circuito voltmetrico di tale contatore dovrebbe, con uno degli artifici già ricordati, essere spostata di 90° in ritardo rispetto alla E. Ma evidentemente una simile corrente si può facilmente ottenere, senza nessuno speciale artificio, inserendo il contatore (come in b), ossia ricorrendo alla tensione V3-1, che è già in ritardo di 30° sulla E, e regolando la reattanza del circuito voltmetrico del contatore in modo da ottenere un ulteriore spostamento di 60°. Naturalmente si dovrà tenere conto nella taratura del contatore che la tensione usata è √3 volte quella di fase.
Per l'uso pratico di questo tipo di contatori, non conoscendosi in generale il senso ciclico delle fasi del sistema, basta collegare l'estremo libero del circuito voltmetrico a quello delle altre due fasi, per cui il contatore gira più velocemente.
Trasformatori di misura. - Questi apparecchi sono oggi parte integrante di qualsiasi sistema di misura negl'impianti a corrente alternata. Per le note ragioni di superiorità economica delle costruzioni in serie si tende oggi infatti a costruire tutti gli amperometri industriali (e gli avvolgimenti amperometrici dei wattmetri, fasometri, ecc.) per 5 ampere, e tutti i voltmetri (e i circuiti voltmetrici) per 100 volt, riportandone poi la portata al valore voluto con l'intermediario di trasformatori di misura. Questi trasformatori, che si chiamano abitualmente anche riduttori di tensione o di corrente, devono però la loro grande diffusione essenzialmente ai vantaggi che essi arrecano nei riguardi della sicurezza, della comodità e dell'economia.
È noto che quando un ordinario trasformatore funziona a vuoto, il rapporto fra tensione primaria e secondaria coincide sensibilmente col rapporto teorico del trasformatore stesso (rapporto del numero delle spire)
e che, correlativamente, nel funzionamento in corto circuito il rapporto fra le correnti primaria e secondaria coincide sensibilmente col rapporto inverso del numero delle spire
Si comprende quindi come alimentando con il secondario un voltmetro che rappresenti un carico trascurabile per il trasformatore usato (fig. 62) si possa praticamente risalire dalle sue indicazioni ai valori V1 = KV2 della tensione applicata al primario; e come inserendo nel corto circuito un amperometro (fig. 63) la cui impedenza si possa ritenere trascurabile, si possa analogamente valerci delle sue indicazioni per la misura della I1 = I2/K.
I vantaggi nei riguardi della sicurezza sono in entrambi i casi evidenti. Usando, come d'ordinario, un trasformatore col secondario per 100 volt, il circuito in cui è inserito il voltmetro della fig. 62 rimane completamente a bassa tensione e può essere avvicinato senza pericolo, qualunque sia la tensione primaria. A maggior ragione non può essere pericoloso il circuito su cui è inserito l'amperometro della fig. 63 nel quale la massima tensione agente sarà data dai pochi decimi di volt necessarî a vincere l'impedenza interna dell'amperometro. Ovviamente, invece, un voltmetro o un amperometro direttamente inserito in un circuito ad alta tensione assume il potenziale del circuito stesso e rappresenta un pericolo per chi si avvicina per leggere le indicazioni, tanto che nei primi impianti ad alta tensione, quando ancora non si usavano i trasformatori di misura, gli strumenti erano racchiusi entro campane di vetro per sottrarli al contatto accidentale del personale. Un grado ancora maggiore di sicurezza si consegue collegando direttamente a terra un punto del circuito secondario, come è indicato nelle figure 62 e 63. Con ciò in nessun caso (difetto d'isolamento nel trasformatore o simili) può il potenziale verso terra di qualsiasi punto del circuito secondario eccedere i valori sopra indicati. Tale messa a terra è necessaria anche per i riduttori di corrente, potendo diversamente indursi nel secondario, per induzione elettrostatica del primario, potenziali elevati anche se non pericolosi per le piccole quantità di elettricità messe in giuoco.
I pregi di comodità dei riduttori derivano dalla possibilità di poter portare e collocare lo strumento indicatore relativamente lontano dai circuiti ad alta tensione su cui si fanno le misure, semplicemente allungando le connessioni fra morsetti secondarî del trasformatore e strumento. Nel caso dei riduttori di corrente, ci si allontana così dalle condizioni di corto circuito su cui si basa il funzionamento del sistema e si dovranno in conseguenza usare connessioni di piccola resistenza, ossia connessioni di notevole sezione.
Anche per i riduttori di tensione, quando gli strumenti alimentati siano molto discosti, bisogna badare che le cadute di tensione nelle connessioni siano realmente trascurabili.
I vantaggi di economia offerti dall'uso dei riduttori bene risultano da un esempio. Così volendo misurare una tensione dell'ordine dei 100.000 volt con un voltmetro a inserzione diretta (si prescinde qui dalle difficoltà pratiche di tale inserzione), anche se questo consumasse solo 0,1 A, occorrerebbe sempre una potenza di 10.000 watt per effettuare la misura. Lo stesso voltmetro inserito nel secondario di un riduttore a 100 volt consumerà 10 watt. Anche tenendo largo conto delle piccole perdite nel ferro e nel rame del riduttore, si sarà sempre enormemente al disotto della cifra precedente.
Correlativamente, per misurare una corrente di 20 ÷ 30 mila ampere, quale può occorrere negl'impianti di forni, inserendo direttamente, a mezzo di shunt, un amperometro che richiedesse anche solo 0,1 volt, si avrebbe sempre un consumo di 2000 ÷ 3000 watt. Lo stesso amperometro, fatto per 5 A e inserito sul secondario di un riduttore di corrente, consumerà 0,5 watt, a cui si dovranno aggiungere i pochi watt perduti nel ferro e nel rame del riduttore. Quest'ultimo esempio giustifica appunto l'uso dei riduttori di corrente negl'impianti a bassa tensione (dove più non sussistono preoccupazioni di pericolo), quando siano da misurare notevoli intensità di corrente. Viceversa, si usano per soli motivi di sicurezza i riduttori di corrente negl'impianti ad alta tensione, anche quando si debbano misurare correnti di pochi ampere, per cui sarebbe possibile ed economica l'inserzione diretta.
Le relazioni fondamentali sopra ricordate relative ai rapporti a vuoto o in corto circuito sono solo approssimate. Considerando dapprima i riduttori di tensione,che s'indicano spesso con TV (trasformatori voltmetrici), sappiamo infatti che anche a vuoto, cioè anche se lo strumento o gli strumenti, alimentati in parallelo dal secondario, non assorbissero alcuna corrente (I2 = 0), rimarrebbe sempre, nel primario, la caduta di tensione dovuta alla corrente di eccitazione I0; sarà sempre cioè:
Se la corrente di eccitazione I0 variasse proporzionalmente con la tensione applicata V1, il rapporto V1/V2, pure essendo diverso da m1/m2, rimarrebbe costante; ma ciò non essendo, il rapporto effettivo del trasformatore varierà lievemente col variare della tensione. In secondo luogo, anche la corrente - comunque piccola - assorbita dagli strumenti alimentati provoca una caduta di tensione che contribuisce ad alterare il rapporto del trasformatore. In particolare tale effetto muterà col mutare del tipo e del numero degli strumenti stessi. Possiamo quindi concludere che un riduttore di tensione avrà in generale un errore di rapporto (nel senso che il rapporto effettivo fra la tensione applicata al primario e quella disponibile al secondario sarà diverso da quello che gli viene attribuito), il quale errore sarà una funzione complessa del valore della tensione misurata e della prestazione del riduttore, indicando così il complesso degli strumenti alimentati.
In secondo luogo la tensione secondaria, anziché essere esattamente in opposizione di fase con la primaria, forma con essa un angolo di 180° ± εv; il valore del piccolo angolo εv dipendendo ancora dalle cadute di tensione dovute alla corrente di eccitazione e di carico. Da ciò deriva un errore di fase, quando il riduttore alimenta i circuiti voltmetrici di wattmetri o di contatori per misure di potenza o di energia.
Considerando solo le misure di tensione per le quali ha importanza solo l'errore di rapporto, è chiaro che per un dato riduttore e per una data prestazione, comunque varii, col variare della tensione applicata, la corrente di eccitazione, ad ogni valore della tensione primaria corrisponderà univocamente (per una data frequenza) un valore della tensione secondaria. Si potrà quindi tarare empiricamente il voltmetro (o i voltmetri) alimentato dal secondario per confronto con un voltmetro di precisione direttamente inserito sul primario. Per tal via si possono realizzare riduttori di piccolissima potenza e quindi assai economici; ma essi rimangono vincolati per l'uso allo strumento e alle condizioni per cui furono tarati e non possono servire assolutamente per misure di potenza. Il sistema è perciò raramente usato, solo quando la questione economica sia assolutamente prevalente.
Un altro mezzo è quello di rendere così piccoli gli errori di rapporto che le loro ulteriori variazioni si mantengano entro limiti accettabili. Perciò è necessario rendere minime le correnti di eccitazione, usando un circuito magnetico molto permeabile e poco saturo, e rendere pure relativamente assai piccole la resistenza e la reattanza degli avvolgimenti e specialmente del primario.
Il risultato si può ottenere usando riduttori di potenza relativamente grande, con molto rame, pesanti e costosi; cosicché si può dire che la bontà dei risultati è in relazione diretta con il costo dei riduttori. Si possono per tal modo realizzare dei riduttori di tensione che dal 75% al 125% della loro tensione normale, variando anche notevolmente il numero e tipo degli strumenti alimentati, non dànno mai errori di rapporto maggiori di qualche unità per mille. Anche gli errori di fase possono così essere ridotti entro limiti accettabili. Tali riduttori non sono più vincolati per l'uso a determinati apparecchi e bene rispondono a tutte le esigenze della pratica.
Con riduttori di tensione così concepiti (che sono quelli oggi generalmente usati) spesso il rapporto nominale del trasformatore può essere leggermente diverso dal rapporto teorico m1/m2 appunto per tenere conto del valore medio dell'errore residuo. Il rapporto nominale è quello che il costruttore indica, sempre, scrivendo il valore delle due tensioni. Così, p. es., con "TV 50.000/100 volt" si indica un riduttore che, alimentato con 50.000 volt al primario, dovrebbe dare esattamente 100 volt al secondario (pure potendo essere m1/m2 ≠ 500).
Passando ai riduttori di corrente, indicati spesso abbreviatamente con TA (trasformatori ampermetrici), avremo anche qui un errore di rapporto dovuto essenzialmente alla corrente di eccitazione I0, per quanto questa possa essere piccola in regime di corto circuito. E anche qui la I2, anziché essere in perfetta opposizione di fase con la I1, forma con essa un angolo di 180° ± εa; donde un errore di fase nelle misure wattmetriche, su cui torneremo più avanti.
Entrambi gli errori rimarrebbero costanti se la I0 variasse proporzionalmente con la I1; ma ciò non è, e tenendo conto della bassa saturazione a cui funziona il ferro, risulta anzi che la I0 è relativamente tanto più grande quanto più piccola è la I1, ossia che gli errori sono tanto più gravi quanto più bassa è la corrente che si vuol misurare con quel dato trasformatore. Va notata al riguardo la condizione assai diversa in cui si trovano in pratica i TV e i TA. I riduttori di tensione sono destinati a funzionare a una tensione generalmente poco diversa da quella per cui sono previsti, sicché la variazione relativa della I0 con la tensione applicata ha poca importanza. Un riduttore di corrente deve funzionare invece con qualunque valore della I, da zero al massimo per cui fu previsto, e si trova quindi in condizioni assai peggiori. E quando la corrente scende al disotto di 1/5 ÷ 1/10 della normale, gli errori dei riduttori diventano notevoli e in generale inaccettabili per misure di precisione.
Per quanto concerne la prestazione, anche un TA può alimentare col suo secondario più di un apparecchio (per es., ampermetro, bobine ampermetriche di wattmetro, relais, ecc.). Naturalmente tutti gli apparecchi alimentati devono essere qui collegati in serie, in modo che la corrente sia per tutti la stessa. Con ciò, aumentando la prestazione, aumenta l'impedenza complessiva del circuito secondario, e quindi, a pari I2, aumenta la forza elettromotrice E2 che si deve generare nel secondario e quindi il flusso e quindi la corrente di eccitazione I0. Pertanto, aumentando la prestazione (ossia allontanandosi dalle condizioni ideali di corto circuito), aumenteranno errori di rapporto e di angolo.
Quando si tratta di semplici misure di corrente, per le quali l'angolo di fase non interessa, si può ancora, come per i TV, vincolando l'uso del riduttore a quello di un determinato ampermetro, in determinate condizioni, procedere a una taratura empirica del complesso, perché ad ogni valore della I2 corrisponderà sempre un unico valore della I1, pur potendo variare sensibilmente il rapporto delle due. Sarà questa una soluzione molto economica del problema consentendo l'uso di riduttori assai piccoli e di poco costo. Quando invece interessi di variare il numero e il tipo degli strumenti alimentati e, in generale, per le misure wattmetriche, si dovrà cercare di rendere sensibilmente costante il rapporto del riduttore e trascurabili gli angoli ε. Il risultato si potrà ottenere usando riduttori con ferro ottimo, pochissimo saturo, e con avvolgimenti di molte spire in modo da ridurre la I0 necessaria per ottenere il richiesto numero di amperspire magnetizzanti: aumenteranno quindi potenza, peso e costo del riduttore. Come per i TV potrà anche qui il rapporto nominale del riduttore (che s'indica sempre con i valori della I1 e della I2) essere lievemente diverso dal teorico e dovranno allora riferirsi gli errori al rapporto nominale.
Recentemente per formare i circuiti magnetici dei riduttori di corrente di precisione ha trovato grande successo l'uso di lamiere ad alto tenore di nichelio che, alle basse induzioni, hanno permeabilità elevatissime e permettono perciò di ridurre notevolmente le dimensioni o di aumentare la precisione dei riduttori stessi.
L'importanza degli errori di fase si desume facilmente dalle figure 64-65, che considerano un wattmetro monofase inserito in circuito mediante TV e TA. Anziché considerare nel TV il vettore V2 che forma con la V1 l'angolo 180° − εv, si può considerare il vettore rovesciato, che sarà in anticipo di εv, sulla V1 (ciò equivale a incrociare le connessioni secondarie). Analogamente per il TA, in luogo della I2 che forma con la I1 l'angolo 180° − εa, si potrà considerare il vettore −I2 opposto, che è in anticipo di εa sulla I1. Si vede allora che, mentre la potenza da misurare è espressa da V1I1 cos ϕ, sul wattmetro agiranno la −V2 e la −I2 rispettivamente proporzionali a V1 e I1 ma formanti fra loro un angolo (ϕ − εa + εv), cosicché il wattmetro, tenuto conto del rapporto dei riduttori, misurerà una potenza V I cos (ϕ − εa + εv).
Dopo quanto si è detto circa l'errore di fase nel wattmetro, risulta senz'altro che la misura sarà affetta da un errore di fase, il cui valore percentuale sarà espresso da 100 sen (εa − εv) tg ϕ, che potrà diventare assai grave per grandi valori di ϕ (bassi valori di cos ϕ). In questa formula si assumono come positivi gli angoli di anticipo della grandezza secondaria invertita rispetto alla primaria, secondo le vigenti convenzioni.
Nel campo delle misure di controllo, i TA e Tv sono usati solo per variare, a norma del bisogno, le portate degli strumenti di precisione adoperati. Nel campo delle misure industriali, invece, si tiene conto del rapporto dei riduttori adoperati nel graduare la scala degli strumenti, che si chiamano "a scala fittizia", in quanto costruiti generalmente per 5 A e 100 V possono indicare centinaia e migliaia di ampere, di volt e di kilowatt.