Abstract
Appartenente lato sensu all’area dei «rimedi successivi» contro le indebite misure cautelari personali, l’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione assolve, in chiave solidaristica, alla funzione di compensare la vittima dalle sofferenze personali ingiustamente patite. La tendenza a limitarne la portata, echeggiata dalla timidezza con la quale il tema è stato affrontato nella Costituzione (art. 24, co. 4, Cost.), si è tradotta, a livello di legislazione ordinaria, in una serie di regole restrittive. Una «controspinta espansiva» dell’istituto emerge chiaramente dalla giurisprudenza costituzionale: utilizzando con destrezza le frecce del suo arco, la Consulta ha progressivamente abbattuto gli angusti argini legislativi, costruendo nuove fattispecie di «ingiustizia riparabile».
L’art. 13, co. 1, Cost. proclama l’inviolabilità della libertà personale, quale espressione di un supremo valore inerente alla persona umana, insuscettibile di revisione costituzionale. L’assolutezza del principio è mitigata dalla previsione di due deroghe (art. 13, co. 2 e 3, Cost.), intorno alle quali ruota un fitto reticolo di garanzie procedimentali volte a ridurre il rischio d’indebite limitazioni del diritto e, nel contempo, a tutelare la dignità umana: riserva di legge e di giurisdizione (art. 13, co. 2 e 3, Cost.), divieto di utilizzare violenze fisiche e morali (art. 13, co. 4, Cost.), fissazione di termini massimi di carcerazione preventiva (art. 13, co. 5, Cost.), affermazione del principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (art. 27, co. 2, Cost.). A corredo delle garanzie su esposte va richiamata, poi, la previsione di cui all’art. 24, co. 4, Cost., che attribuisce al legislatore il compito di «determinare le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».
In perfetta armonia col dettato costituzionale, il vigente codice di procedura penale, nel libro IV, dedicato alle misure cautelari, sancisce il principio di legalità (art. 272 c.p.p.), attribuisce una riserva esclusiva della materia in capo al giudice (art. 279 c.p.p.), fissa i presupposti (artt. 273, 274 e 280 c.p.p.), disciplina scrupolosamente le modalità procedurali (artt. 291-298 c.p.p.), prevede un autonomo sistema di controllo – di merito e di legittimità – sugli atti de libertate (artt. 291-311 c.p.p.) e, infine, introduce uno specifico rimedio idoneo a «compensare», in chiave solidaristica (art. 2 Cost.), gli effetti pregiudizievoli che la vittima dell’indebita restrizione della libertà personale patisce: la riparazione per l’ingiusta detenzione, disciplinata negli artt. 314 e 315 c.p.p.
La storia non recente dell’istituto – che, pur previsto nelle Carte internazionali (art. 5, par. 5, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e art. 9, par. 5, Patto internazionale sui diritti civili e politici), trova ingresso ufficiale solo nel codice di rito del 1988, limitandosi quelli previgenti del 1913 e del 1930 a concepire la riparazione a titolo assistenziale, come «soccorso» da apportare al soggetto in stato di bisogno che fosse risultato vittima di errore giudiziario in senso stretto, consacrato, cioè, in una sentenza di assoluzione in sede di revisione – è indice delle presunte difficoltà dogmatiche, preoccupazioni politiche e tecnico-finanziarie che vengono, talvolta, privilegiate rispetto ad istanze di giustizia (Coppetta, M.G., Riparazione per ingiusta detenzione, inEnc. giuridica Treccani, Roma, 2001, 1). Ma è proprio in nome di questo supremo valore che va stigmatizzato l’ordinamento che non si fa carico delle gravose, talvolta inesorabili, ripercussioni sul piano personale, familiare, sociale, professionale, di una ingiusta detenzione, accentuate dalla indifferenza della società, poco incline a ragionare in termini di presunzione di non colpevolezza (Grevi, V., Libertà personale dell’imputato, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 411). D’altronde, se i diritti fondamentali della persona accompagnati da una tutela particolarmente intensa divengono principio di legittimazione dell’ordine democratico, lo Stato – ordinamento non può, a pena di sconfessare se stesso, non assumere su di sé l’impegno di «restaurare» quelli conculcati dalla sua stessa giurisdizione, attutendo, per quanto possibile, le conseguenze dell’«errore» commesso, anche laddove non sia ravvisabile una responsabilità ascrivibile all’organo che ha adottato il provvedimento (cfr. Jannelli, E., La riparazione dell’errore giudiziario, in Chiavario, M.-Marzaduri, E., Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, Torino, 2005, 735-736). Non è un caso che proprio il legislatore del 1988, tutto proteso a riequilibrare i delicati rapporti autorità-libertà, abbia superato l’impostazione restrittiva del passato e, accogliendo l’invito della Corte costituzionale (C. cost., 24.1.1969, n. 1, in Giur. cost., 1969, 1) a conferire concretezza e determinatezza al lapidario e indiretto enunciato contenuto nell’art. 24, co. 4, Cost., abbia esteso la «riparazione» al di là dei confini del giudicato riconosciuto erroneo in sede di revisione. Va, tuttavia, precisato che, sebbene l’istituto di nuovo conio sia stato accolto con entusiasmo, le aspettative sono rimaste deluse: tassativa individuazione delle fattispecie riparatorie, apposizione di ampie condizioni ostative e previsione di un tetto massimo liquidabile si traducono in incongruenze e ristrettezze alle quali il legislatore non ha rimediato neanche quando si è prospettata l’occasione per farlo (il riferimento è alla l. 16.12.1999, n. 479, che ha interpolato, tra l’altro, la normativa in questione). Optando per soluzioni di compromesso tra le preoccupazioni di carattere finanziario e le esigenze di tutela della vittima della ingiusta detenzione – poco accettabili in un sistema, come il nostro, che colloca la persona al disopra di tutto – ha lasciato alla Corte costituzionale la delicata incombenza di portare a compimento l’evoluzione dell’istituto.
Nel suo originario tessuto normativo, la riparazione per l’ingiusta detenzione non copre ogni indebita restrizione della libertà personale subita da un soggetto, ma, unicamente, quella sub specie di custodia cautelare. Rilevano, dunque, la custodia in carcere (art. 285 c.p.p.) e in luogo di cura (art. 286 c.p.p.), gli arresti domiciliari – equiparati alla custodia in carcere (art. 284, 5º comma, c.p.p.) – e le misure cautelari disciplinate negli artt. 21-23 d.P.R. 22.9.1988, n. 488, comportando, tutte, una limitazione della libertà personale di tipo custodiale. Per espressa previsione legislativa (art. 313, co. 3, c.p.p.), anche le misure di sicurezza illegittimamente disposte in via provvisoria sono riparabili. Sfuggono, invece, dal raggio applicativo del meccanismo in esame le misure coercitive obbligatorie (artt. 281-283 c.p.p.) e le misure interdittive (artt. 288-290 c.p.p.). Forti perplessità si addensano sulla restrittiva scelta del legislatore, soprattutto in riferimento alla misura dell’obbligo di dimora, stante l’assimilabilità, sotto il profilo della carica afflittiva, agli arresti domiciliari, specie ove aggravato dal divieto accessorio di allontanarsi dalla propria abitazione per molte ore della giornata (tra i tanti, Rivello, P.P., Riparazione per ingiusta detenzione, in Dig. pen., XII, 4º ed., Torino, 1997, 335).
La biunivoca corrispondenza tra riparazione e «indebito» esercizio del potere cautelare costruita dal legislatore del 1988 viene presto sgretolata dalla Consulta, la quale, con due pronunce di illegittimità costituzionale dell’art. 314 c.p.p., muovendosi nel solco tracciato dalla dottrina già da tempo (Coppetta, M.G., La riparazione,cit., 161, 167), ha allargato le maglie dell’istituto, includendovi prima la detenzione sofferta in esecuzione di un ordine di esecuzione «erroneo» (C. cost., 25.7.1995, n. 310, in Giur. cost., 1996, 2557) – che «offende[rebbe] la libertà della persona in misura non minore della detenzione cautelare ingiusta» (amplius Lavarini, B., Ordine di esecuzione erroneo e detenzione ingiusta, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, 938) – e, poi, la restrizione della libertà patita in esecuzione di una misura precautelare «ingiusta», entro gli stessi limiti previsti per la custodia cautelare (C. cost., 2.4.1999, n. 109, in Giur. cost., 1999, 953). Con il secondo intervento, la Corte costituzionale ha colmato una macroscopica lacuna legislativa: sebbene arresto e fermo siano provvedimenti adottati a non iudice, appare indiscutibile la natura custodiale degli stessi, «almeno sul piano degli effetti» (cfr. artt. 386, co. 4 e 5 e 297, co. 1, c.p.p.).
Due le fattispecie generatrici del diritto alla riparazione previste dal legislatore del 1988 nell’art. 314 c.p.p.: la prima è disciplinata dal co.1 e raggruppa le ipotesi di cd. «ingiustizia sostanziale», ossia di privazione della libertà personale che, pur imposta legittimamente, risulti ex post non dovuta, perché l’addebito si rivela infondato all’esito del processo. Più precisamente, il diritto in questione è riconosciuto, per la custodia cautelare subita, a chi sia stato assolto, ex art. 530 c.p.p., con una pronuncia irrevocabile, perché «il fatto non sussiste», «per non aver commesso il fatto», «perché il fatto non costituisce reato» o «non è previsto dalla legge come reato» (anche nell’ipotesi in cui il dispositivo sia espressione di una situazione di dubbio, secondo la previsione di cui all’art. 530, co. 2, c.p.p.: tra le tante, Cass. pen., sez. IV, 30.4.2004, n. 22924, in Ced Cass., n. 228791). Le prime due formule risultano qualificate nel senso dell’effettiva innocenza dell'imputato in ordine ai fatti contestatigli; le ultime due, sebbene non siano totalmente liberatorie (l’imputato potrebbe, infatti, essere sottoposto a misure di sicurezza o essere destinatario dell’azione civile per il risarcimento del danno), sono state equiparate alle prime, sottendendo, anche esse, l’accertamento della «insussistenza dei presupposti che legittimano l'esercizio della pretesa punitiva attinenti al fatto ed alla responsabilità penale del suo autore» (così Montaldi, A., sub art. 314 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, in Chiavario, M., III, Torino, 1990, 314).
Se il criterio discretivo assunto per individuare le ipotesi di «ingiustizia sostanziale» è stato fissato nell’«innocenza dell’imputato», è giocoforza prospettare l’esclusione del diritto tanto per il prosciolto con la formula «il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per altra ragione» (che dimora sempre nell’art. 530 c.p.p.) – posto che la sentenza de qua presuppone il perfezionarsi di tutti gli elementi costitutivi del reato e la sua attribuibilità all’imputato, venendo a mancare unicamente l’inflizione della pena –, quanto per il prosciolto ex artt. 529 e 531 c.p.p., prescindendo del tutto, la sentenza di non doversi procedere e la dichiarazione di estinzione del reato, da valutazioni di merito sulla responsabilità penale dell’imputato (v. Cass. pen., sez. IV, 12.11.2008, n. 4107, in Ced Cass., n. 242833). Va, tuttavia, precisato, sotto quest’ultimo profilo, che la Corte costituzionale (C. cost., 23.12.2004, n. 413, in Cass. pen., 2005, 1551), estendendo il diritto a favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per «morte del reo», qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato, ha imposto – in via interpretativa – il superamento del principio secondo cui la sentenza di non doversi procedere preclude sempre l’accertamento dell’«ingiustizia sostanziale». Assolutamente ingiustificabile appare, invece, il vuoto di disciplina nel caso di provvedimento liberatorio per errore di persona (art. 68 c.p.p.), posto che si lascia sfornito di tutela il prosciolto per una causa che, senza dubbio, s’inquadra tra le più eclatanti ipotesi di sostanziale innocenza (in dottrina, diverse le soluzioni proposte per ovviare alla «macroscopica» svista: v. Montaldi, A., sub art. 314 c.p.p., cit., 315; Sodani, P.A., Riparazione per l’ingiusta detenzione, Torino, 1992, 18; Turco, E., L’equa riparazione tra errore giudiziario e ingiusta detenzione, Milano, 2007, 136).
La seconda fattispecie, disciplinata dal co. 2, attiene sia al prosciolto per qualsiasi causa sia al condannato e afferisce ai casi di cd. «ingiustizia formale», riscontrabile quando, con decisione irrevocabile, risulti accertato che il provvedimento dispositivo della custodia cautelare sia stato «emesso o mantenuto» contra legem, ossia in assenza delle condizioni di applicabilità fissate negli artt. 273 e 280 c.p.p.
Come si evince dall’uso del doppio verbo, il legislatore ha creato una simmetria tra l’illegittimità genetica della restrizione – riscontrabile nel momento dell’adozione dell’ordinanza cautelare – e quella successiva, che sopravviene all’esecuzione della misura stessa. Dunque, anche l’omessa revoca della misura, imposta dalla sopravvenienza di elementi favorevoli, tali da far venir meno le richiamate condizioni di applicabilità, costituisce titolo per la riparazione ex art. 314, co. 2, c.p.p., per il «segmento» di custodia illegittimamente «mantenuta».
Dalla lettura della disposizione emerge chiaramente come l’ingiustizia riparabile si configuri solo quando la restrizione sia sofferta in assenza dei gravi indizi di colpevolezza (art. 273, co. 1, c.p.p.) o in presenza di cause di giustificazione, di non punibilità – intese, queste ultime, in senso ampio, comprensive, oltre che delle cause di non imputabilità (Cass. pen., Sez. I, 11.10.1999, n. 5535, in Ced Cass., n. 214576), anche delle cause di non procedibilità (tra le tante, Cass. pen., sez. IV, 19.4.2011, n. 21342, in Ced Cass., n. 250475) –, di estinzione del reato o della pena (art. 273, co. 2, c.p.p.) o, ancora, in presenza di delitti punibili con pena inferiore al limite oggettivo posto dall’art. 280 c.p.p. Escluse dall’area di riparazione sono, invece, le ipotesi di custodia cautelare patita senza che ricorra almeno una delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 c.p.p. o in violazione dei criteri di adeguatezza, proporzionalità e gradualità fissati nell’art. 275 c.p.p. (Cass. pen., S.U., 6.3.1992, n. 1, in Cass. pen., 1992, I, 2035; recentemente Cass. pen., sez. VI, 21.9.2010, n. 37764, in Ced Cass., n. 248245 in motivazione). Sprovviste di tutela appaiono, poi, tutte quelle situazioni di palese ingiustizia «formale» ove lo status detentionis persista sebbene sia configurabile una delle fattispecie di estinzione automatica ex artt. 301, 302, 303, 304, 309, co. 5, 9 e 10, e 27 c.p.p.
La restrittiva scelta del legislatore si presenta alquanto singolare (per tutti, Coppetta, M.G., La riparazione, cit., 156), determinando una ingiustificabile delimitazione del diritto riparatorio che svuota la portata garantista dell’art. 314, co. 2, c.p.p.
A ben vedere, la compattezza dello scenario giurisprudenziale che, per anni, posta la tassatività dei parametri fissati in questa disposizione, ne ha ostacolato su ogni fronte l'interpretazione estensiva (tra le numerose pronunce v. Cass. pen., S.U., 12.10.1993, n. 20, in Cass. pen., 1994, 283), sembra oramai frantumarsi. Valorizzando le fonti normative sopranazionali – artt. 5, par. 5 della Convenzione di Roma e 9, par. 5 del Patto di New York, che riconoscono il diritto in questione in ogni caso di detenzione illegale, senza alcuna limitazione o distinzioni di sorta circa il titolo dell'ingiustizia (cfr. voce Misure cautelari [dir. proc. pen.]. Riparazione per l’ingiusta detenzione 2. Procedimento, § 5) – e i principi espressi dalla Corte costituzionale (v., oltre alle pronunce di incostituzionalità n. 310/1996 e n. 109/1999, le seguenti sentenze interpretative di rigetto: C. cost., 30.7.2003, n. 284, in Cass. pen., 2003, 3777; C. cost., 16.7.2004, n. 230, in Cass. pen., 2004, 4056; C. cost., 16.7.2004, n. 231, in Cass. pen., 2004, 4060), il Giudice di legittimità, in talune recenti occasioni, ha accreditato un'interpretazione capace di superare i limiti letterali della disposizione per giustificare talune soluzioni applicative dell’istituto fondate sulla verifica ex post dell'illegittimità della situazione detentiva. Così, è stata riconosciuta la riparazione nel caso di proroga di una misura cautelare, di cui sia stata accertata la tardività (Cass. pen., sez. VI, 27.5.2005, n. 26873, in Ced Cass., n. 231918) e detenzione protratta oltre il termine di durata previsto dalla legge (Cass. pen., sez. I, 10.10.2000, n. 3346, in Ced Cass., n. 218175). Sempre in quest’ottica espansiva va letta la pronuncia che ha riconosciuto la tutela riparatoria nell’ipotesi di inefficacia del provvedimento de libertate emesso dal giudice incompetente, per effetto dell'inutile decorrenza del termine di venti giorni di cui all'art. 27 c.p.p. (Cass. pen., sez. III, 7.5.2008, n. 25201, in Ced Cass., n. 240388), e quella, a Sezioni Unite, che ha ravvisato la permanenza dell’interesse dell'imputato ad impugnare l'ordinanza applicativa di una misura cautelare personale, ai fini del giudizio di riparazione, pur quando le censure contro il provvedimento, che nelle more era stato revocato, non attenessero alla carenza dei presupposti di applicabilità ex artt. 273 e 280 c.p.p., bensì all'asserita mancanza di una valida domanda cautelare (per il difetto di assenso o per l'espresso dissenso del Procuratore della Repubblica sulla relativa richiesta del magistrato dell'ufficio del p.m. assegnatario del procedimento: Cass. pen., S.U., 22.1.2009, n. 8388, in Guida dir., 2009, 13, 80).
Come acutamente rilevato (Balsamo, A., Riparazioneper ingiusta detenzione, in Spangher, G., Trattato di procedura penale,II, Torino, 2008, 634-635), solo il consolidarsi dell'orientamento favorevole ad un’interpretazione estensiva dell’art. 314, co. 2, c.p.p. potrà offrire al diritto riparatorio una tutela corrispondente alle previsioni della Convenzione europea con quel «grado di sufficiente certezza» richiesto dalla giurisprudenza di Strasburgo. Ove, invece, tale risultato non si raggiungesse sul piano del «diritto vivente», resterebbe aperta la strada del giudizio di legittimità costituzionale, utilizzando l’art. 5, par. 5, Conv. europea quale fonte integratrice del parametro ex art. 117, co. 1, Cost. (cfr. C. Cost., 24.10.2007, n. 348, in Foro it., 2008, I, 39-40; C. Cost., 24.10.2007, n. 349, in Foro it., 2008, I, 39-40).
Il diritto riparatorio spetta anche a colui che, «alle medesime condizioni delineate dai precedenti commi 1 e 2», abbia beneficiato di un provvedimento di archiviazione ovvero di una sentenza di non luogo a procedere (art. 314, co. 3, c.p.p.). Evidente la ratio dell’estensione: il grado di sofferenza provocato dall’ingiusta privazione della libertà personale nel corso delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare presenta una medesima consistenza di quello patito nel corso del dibattimento. Al fine di ricostruire l'esatto ambito di operatività del meccanismo in esame, il giudice della riparazione, quanto all’«ingiustizia sostanziale», deve procedere ad una operazione ricognitiva volta ad estrapolare, dalle formule che il provvedimento archiviativo ovvero la sentenza ex art. 425 c.p.p. sottendono, quelle rientranti tra le fattispecie di cui al comma 1; qualora, poi,dal dispositivonon sia desumibile con esattezza la ragione del provvedimento – per es., nel caso di archiviazione che accerti l'infondatezza della notitia criminis ex art. 408 c.p.p. – il giudice è chiamato a svolgere una «indagine cognitiva motivazionale» (Chiavario, M., La riforma del processo penale, II ed., Torino, 1990, 185) al fine di ricostruire l’effettiva portata della pronuncia. Quanto all’«ingiustizia formale», non influendo, la formula liberatoria di ciascuno dei due atti, sull'an del diritto riparatorio, il giudice si deve limitare ad accertare l’illegittimità originaria o sopravvenuta della custodia sofferta ex artt. 273 e 280 c.p.p.
Quella linea di demarcazione tra «ingiustizia sostanziale» e «ingiustizia formale» tratteggiata dal legislatore del 1988, che sembrava assolutamente indelebile, appare, oggi, alquanto sfumata alla luce di quelle significative spinte propulsive subite dall’istituto negli ultimi anni, che, non solo hanno prodotto – come evidenziato – una vasta breccia nel principio di tassatività delle fattispecie di ingiustizia riparabili, ma hanno, talvolta, finito per inquinare la stessa logica della distinzione, mettendo definitivamente in crisi l’intero modello dogmatico che sembrava oramai consolidato in materia (Balsamo, A., Riparazione, cit., 649).
Significativa, in proposito, la pronuncia della Corte costituzionale (C. cost., 20.6.2008, n. 219, in Giur. cost., 2008, 2456) che, dichiarando illegittimo l’art. 314, co. 1, c.p.p., nella parte in cui condiziona il diritto riparatorio al proscioglimento nel merito dalle imputazioni e lo preclude nel caso in cui la custodia cautelare patita risulti superiore alla misura della pena definitivamente inflitta ovvero oggetto di una preclusione processuale che la sottragga a riforma nei successivi gradi di giudizio, induce a ridisegnare la ratio dell’istituto: la riparazione, piuttosto che imperniarsi sulla discrasia tra sottoposizione alla custodia cautelare e successivo riconoscimento dell’innocenza dell’imputato, trova, adesso, il suo fondamento nel riscontro di una «oggettiva lesione della libertà personale, ingiusta alla stregua di una valutazione ex post», che può riguardare non solo l’esistenza ma anche il grado di responsabilità penale (Balsamo, A., Riparazione, cit., 650). Secondo la Corte, dunque, ove la durata della custodia cautelare soverchi la pena inflitta, l'ordinamento, al fine di perseguire le finalità del processo e quelle di tutela della collettività, impone al reo un sacrificio direttamente incidente sulla libertà che – sebbene giustificato da tali esigenze – ne travalica il grado di responsabilità personale e, dunque, si rivela palesemente ingiusto e meritevole di riparazione. La netta distinzione tra prosciolto e condannato, irrilevante, alle condizioni su esposte, ai fini dell'an debeatur, torna, tuttavia, a manifestarsi in sede di determinazione del quantum debeatur: il giudice, nell’esercizio dei suoi poteri equitativi, non può ignorare che il grado di sofferenza cui è esposto chi, innocente, subisca la detenzione è, in linea di principio, amplificato rispetto a quello di chi, colpevole, sia ristretto per un periodo eccessivo rispetto alla pena (v. voce Misure cautelari [dir. proc. pen.]. Riparazione per l’ingiusta detenzione 2. Procedimento, § 4).
Come ha rilevato recentemente il Giudice di legittimità (Cass. pen., sez. IV, 19.2.2009, n. 15000 in Ced Cass., n. 243210), la nuova prospettiva tracciata dalla Corte costituzionale che recide il legame tra fattispecie di «ingiustizia sostanziale» e pronuncia di assoluzione non implica un generalizzato riconoscimento del diritto in tutti i casi di proscioglimento non «qualificato» ex art. 314, co. 1, c.p.p.: solo ove sia in concreto accertato che, quand’anche fosse intervenuta condanna, questa avrebbe avuto durata inferiore alla custodia cautelare sofferta, residua spazio per la tutela, rispetto alla parte di detenzione subita in eccedenza.
Infine, tra gli effetti prodotti dalla pronuncia della Consulta, vi è anche l’operatività della disciplina riparatoria nei casi in cui la custodia cautelare sia seguita da condanna a una pena esclusivamente pecuniaria o ad una pena detentiva sottoposta a sospensione condizionale (così anche Balsamo, A., Riparazione, cit., 651).
La privazione della libertà personale disposta per un’imputazione infondata – rectius, inidonea a giustificare la misura, secondo i recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale – configura una «ingiustizia» riparabile solo se la sentenza assolutoria con una delle formule contemplate nell’art. 314, co. 1, c.p.p. – nonchè quella di proscioglimento o condanna, nei limiti posti dalla pronuncia n. 219/2008 – sia contrassegnata dal crisma dell’«irrevocabilità»; analogamente, l’illegittimità ex artt. 273 e 280 c.p.p. della custodia cautelare deve essere accertata con «decisione irrevocabile» (come anche l'erroneità dell'ordine di esecuzione: Cass. pen., sez. IV, 24.11.2005, n. 8117, in Ced Cass., n. 233647).
Sebbene il concetto di «irrevocabilità» mal si attagli ai provvedimenti concernenti le restrizioni della libertà personale – stante la fluidità della vicenda cautelare e la necessità di un costante adeguamento dello status custodiale alle situazioni di fatto e di diritto emergenti dal procedimento –, la giurisprudenza di legittimità riconosce ad alcuni di essi una, sia pur limitata, efficacia preclusiva di natura endoprocessuale fondata sul principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. (Cass. pen., S.U., n. 20/1993): un ulteriore esame dell'ordinanza è precluso a meno che non sopravvengano elementi nuovi modificativi della situazione iniziale in base alla quale è stato emesso il provvedimento de libertate. In questa prospettiva, tra le decisioni «definitive» idonee ad attestare l’«ingiustizia formale», rientrano, per costante giurisprudenza, l’ordinanza, non impugnata, adottata dal Tribunale in sede di riesame o appello avverso il provvedimento de libertate e la sentenza emessa dalla Corte di Cassazione contro tale ordinanza o in sede di ricorso per saltum contro lo stesso provvedimento applicativo della misura custodiale (Cass. pen., S.U., n. 20/1993; Cass. pen., sez. IV, 7.2.2003, n. 18237, in Ced Cass., n. 224506).
Per quanto concerne, in particolare, il provvedimento definitivo in materia di revoca della custodia cautelare ex art. 299 c.p.p., per difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., va precisato che la revoca sancisce l’illegittimità ex tunc della misura solo nel caso in cui derivi da una rivalutazione degli stessi elementi di prova apprezzati dal giudice in sede applicativa; viceversa, ove postuli la modificazione del quadro probatorio, essa certifica l’illegittimo mantenimento della condizione custodiale per il periodo successivo al momento in cui il novum sia stato portato a conoscenza del giudice o dallo stesso percepibile ex officio a norma dell’art. 299, co. 3, c.p.p.
Proprio la necessità di precostituirsi una decisione irrevocabile sulla illegittimità della misura, spendibile ai fini riparatori, ha indotto le Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 13.7.1998, n. 21, in Cass. pen., 1999, 465) a ridisegnare il concetto di «interesse ad impugnare» e a riconoscerne l’esistenza anche quando l’ordinanza applicativa o confermativa della misura custodiale sia revocata o perda efficacia nelle more del procedimento e l'imputato venga rimesso in libertà. In particolare, secondo il Supremo Collegio, con l’accertamento, «in via definitiva», da parte del Tribunale della libertà o della Corte di Cassazione, dell’illegittimità del provvedimento custodiale, l’impugnante si ripromette di conseguire, in forza del titolo esecutivo così ottenuto, «l’utilità pratica» dell’equa riparazione per l’ingiusta detenzione subita. Seguendo questo crinale interpretativo, deve ritenersi insussistente l’interesse a coltivare il gravame se, nelle more del procedimento di impugnazione de libertate, venga revocata una ordinanza non idonea ad integrare il titolo per una eventuale domanda di riparazione (v. Cass. pen., sez. VI, 10.11.2009, n. 9479, in Ced Cass., n. 246523, in tema di revoca di misura interdittiva; Cass. pen., sez. VI, 26.5.2004, n. 37894, in Ced Cass., n. 230235 e Cass. pen., sez. III, 19.5.2006, n. 21506, in Ced Cass., n. 235526, in tema di revoca della custodia cautelare impugnata per violazione degli artt. 274 e 275 c.p.p.; v. anche Cass. pen., sez. VI, 9.11.2006, n. 40769 in Ced Cass., n. 235441, che ha escluso l’interesse ad impugnare l’ordinanza di custodia cautelare revocata a seguito di patteggiamento della pena condizionatamente sospesa posto che, per gli effetti di cui all'art. 314 c.p.p., l'imputato ha rinunciato con la richiesta ex art. 444 c.p.p. a dedurre qualsiasi questione circa la colpevolezza).
Appartiene al genus della «decisione irrevocabile» anche la sentenza diretta a definire il giudizio sulla responsabilità dell'imputato da cui risulti implicitamente – ma in maniera evidente –, l'illegittimità ex artt. 273 o 280 c.p.p. della cautela eseguita (Cass. pen., S.U., n. 20/1993): per esempio, per la ritenuta diversa qualificazione giuridica del fatto, che preclude l’adozione della misura (Cass. pen., sez. IV, 16.4.2009, n. 44596, in Ced Cass., n. 245437), o per la ravvisata sussistenza di una scriminante, di una causa estintiva o di non punibilità. Al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci ermeneutici pare opportuna una precisazione. Se si vuole dare un senso, tanto alla selezione, operata nel comma 1, delle formule di proscioglimento che generano tout court il diritto alla riparazione, quanto alla congiunzione con valore condizionale «quando», che compare nel co.2, posto che il proscioglimento per cause diverse da quelle elencate nel co. 1 certificherebbe sempre per definizione l'attuale assenza delle condizioni di applicabilità di cui all'art. 273, co. 2, c.p.p., deve ritenersi che la sentenza irrevocabile attestante la mancanza di una condizione di procedibilità o l'estinzione del reato legittimi la pretesa riparatoria ai sensi del co. 2 solo quando le cause proscioglitive in esame siano diagnosticabili sin dal momento di applicazione o conferma della misura stessa: una differente interpretazione, che consentisse di dare rilievo anche alla «sopravvenuta» mancanza di una condizione di procedibilità ovvero alla «sopravvenuta» estinzione del reato, condurrebbe ad un generalizzato riconoscimento del diritto riparatorio al prosciolto per qualsiasi causa (v. Cass. pen., sez. IV, 9.4.2008, n. 23896, in Ced Cass., n. 240333, la quale precisa come «decisione irrevocabile» sia anche quella emessa all'esito del giudizio di merito, «sempre che, naturalmente, da essa si evinca la mancanza, sin dall'origine, delle condizioni di applicabilità della misura»: nella specie si trattava di misura applicata in difetto di una condizione di procedibilità).
Infine, occorre precisare che il provvedimento di archiviazione e la sentenza di non luogo a procederecostituiscono titolo idoneo a fondare il diritto alla riparazione sebbene non siano contrassegnati dal crisma dell'«irrevocabilità» (arg. ex artt. 414 e 434 c.p.p.). Appare evidente come, nell’eventualità in cui il procedimento penale si rimetta in moto dopo che la procedura per la riparazione sia stata già avviata, o, addirittura, sia giunta al suo epilogo, si concretizzi il rischio di una situazione di asincronia processuale, potendosi verificare, in una sede, l’accoglimento della domanda di riparazione e, nell’altra, il rinvio a giudizio ovvero la pronuncia di una decisione comunque incompatibile coi presupposti di cui all’art. 314 c.p.p. che, in quanto tale, scardina il titolo su cui poggia l’istanza riparatoria. Per ovviare a simile inconveniente si potrebbe ipotizzare l’obbligatorietà della sospensione del procedimento riparatorio sino alla definizione del procedimento penale, ma sarebbe necessaria una esplicita indicazione legislativa in tal senso (per tutti Coppetta, M.G., Riparazione per ingiusta detenzione, cit., 2). Nell’eventualità, invece, che la somma sia stata già erogata, andrebbe senz’altro ipotizzato un obbligo restitutorio a carico del beneficiario, ravvisandosi, nella circostanza delineata, una fattispecie di «pagamento dell'indebito» ex art. 2041 c.c. (Cass., sez. I, 3.4.1991, n. 1553, in Ced Cass., n. 187237; contra, Sodani, P.A., Riparazione, cit., 21).
L’ambito operativo dell’istituto riparatorio è delimitato dall’accertamento di un ulteriore requisito, di carattere negativo, collocato topograficamente nell’art. 314, co. 1, c.p.p.: l’instante non deve aver «dato o concorso a dare causa» con «dolo o colpa grave» alla detenzione patita. Il principio solidaristico sotteso all'istituto trova, così, il suo naturale contemperamento nel dovere di responsabilità che incombe in capo a tutti i consociati, i quali evidentemente non possono invocare benefici tesi a ristorare pregiudizi da essi stessi colposamente o dolosamente cagionati. È proprio sul generale dovere di responsabilità che fa leva la dominante dottrina e la giurisprudenza più recente per superare il dato letterale e reputare simile condizione efficace anche in relazione alle ipotesi di custodia cautelare illegittima ex art. 314, co. 2, c.p.p. (per tutti, Coppetta, M.G., La riparazione,cit., 188; Cass. pen., S.U., 27.5.2010, n. 32383, in Cass. pen., 2011, 499).
Ciò premesso non può sfuggire come l’estrema vaghezza della regolamentazione abbia lasciato all’elaborazione giurisprudenziale l’arduo compito di delimitare i contorni della causa ostativa, ulteriormente sfocati dal riferimento alla figura del «concorso» causale all’ingiusta detenzione, assente, invece, nella corrispondente disposizione dettata per l’errore giudiziario (art. 643 c.p.p.) (in senso critico, Coppetta, M. G. La riparazione,cit., 189). Compito che, com’era prevedibile, non sempre è stato assolto in maniera ortodossa, utilizzandosi, spesso, la clausola negativa quale comodo strumento per misconoscere il diritto alla riparazione (Coppetta, M. G., Riparazione per ingiusta detenzione, cit., 5).
Con riguardo alla ricostruzione strutturale dell’elemento psicologico che sorregge il comportamento dell’interessato, il «dolo» appare di agevole individuazione e di rara concretizzazione: la giurisprudenza di legittimità, prendendo in prestito la nozione civilistica, reputa rilevante «non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei termini fattuali», ma anche quella cosciente e volontaria che, valutata col parametro dell’id quod plerumque accidit, abbia deliberatamente sviato il corretto esercizio del potere cautelare creando «una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell'autorità giudiziaria a tutela della collettività ragionevolmente ritenuta in pericolo» (Cass. pen., S.U., 13.12.1995, n. 43, in Cass. pen., 1996, 2146). Nell’ambito della «colpa» – la cui nozione risulta sostanzialmente unitaria nei vari rami dell’ordinamento giuridico –, la Cassazione fa, invece, ricadere ogni condotta dell’interessato, endo o extra processuale, anche proveniente da un soggetto non imputabile (Cass. pen., sez. IV, 12.11.2009, n. 45324, in Ced Cass., n. 245467), antecedente o successiva alla perdita della libertà e, più in generale, alla legale conoscenza della pendenza di un procedimento a carico (Cass. pen., S.U., 26.6.2002, n. 34559, in Cass. pen., 2003, 57 e, più recentemente, Cass. pen., S.U., 32383/2010), che, pur tesa ad altri risultati, sia contrassegnata da una negligenza, imprudenza, trascuratezza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline così macroscopica da ingenerare nell’autorità giudiziaria la falsa apparenza della configurabilità di un illecito penale e da indurla prevedibilmente (il giudizio sulla prevedibilità, con criterio ex ante, è di natura squisitamente individuale, dovendo essere rapportato alle particolari conoscenze, per condizioni o professione, del soggetto: Cass. pen., sez. IV, 22.6.1994, n. 924, in Cass. pen., 1996, 1928) ad adottare o a non revocare il provvedimento restrittivo (Cass. pen., S.U., n. 34559/2002). L’eventuale condotta colposa «non grave» non rimane insignificante, dovendo essere valutata, in applicazione del principio generale di autoresponsabilità, nell'ottica della taxatio sul quantum debeatur (Cass. pen., sez. IV, 20.5.2008, n. 27529, in Ced Cass., n. 240889).
Variegato si presenta il panorama giurisprudenziale (tra le più recenti pronunce, v. Cass. pen., sez. IV, 25.11.2010, n. 45418, in Ced Cass., n. 249237; Cass. pen., sez. IV, 3.11.2010, n. 3099, in Ced Cass., n. 249333; Cass. pen., sez. IV, 29.4.2010, n. 31973, in Ced Cass., n. 248195), dal quale si coglie appieno l’adesione ad una nozione troppo lata di «colpa grave» che non solo rischia di paralizzare l’operatività dell’istituto, ma che, attirando nei suoi confini finanche il «comportamento strategico non collaborativo», proiezione del diritto di difesa – si pensi alla vittima che, in sede di interrogatorio, abbia serbato una condotta silenziosa, reticente o mendace su specifiche circostanze, non note all’organo inquirente, idonee a inficiare il valore indiziante degli elementi posti a sostegno del provvedimento cautelare (per tutte, Cass. pen., sez. IV, 9.12.2008, n. 4159, in Ced Cass., n. 242760; per la condotta silenziosa, da ultimo, Cass. pen., sez. III, 9.11.2011, n. 44090, in Ced Cass., n. 251325), oppure abbia confortato le dichiarazioni accusatorie rese nei suoi confronti, giustificando l’intervento restrittivo dell’autorità giudiziaria (Cass. pen., sez. IV, 10.6.2008, n. 40291, in Ced Cass., n. 242755) –, finisce per comprimere anche altri valori di rango costituzionale (per l’irrilevanza del silenzio, inteso quale diritto assoluto dell’imputato, v. Cass. pen., Sez. IV, 17.10.2007, n. 39528, in Ced Cass., n. 235390; in dottrina, nello stesso senso, Turco, E., L’equa riparazione, cit., 242; su un fronte ancora più avanzato, Cass. pen., sez. IV, 12.1.2006, n. 14439, in Ced Cass., n. 234026, per la quale anche la menzogna, al pari del silenzio o della reticenza, è espressione di un diritto riconosciuto all’indagato e, in quanto tale, sfugge alla forza centripeta della nozione di «colpa grave»).
Due ulteriori cause ostative dimorano nell’art. 314, co. 4, c.p.p.: il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della ingiusta custodia cautelare (o precautelare) che sia computata in detrazione della pena legittimamente irrogata nello stesso o in un altro procedimento, a norma dell’art. 657 c.p.p., ovvero per il periodo in cui la limitazione conseguente all'applicazione della misura custodiale sia stata sofferta anche in forza di altro titolo ai sensi degli artt. 297 e 298 c.p.p. Evidente la ratio delle preclusioni. Nel primo caso, il riconoscimento del ristoro per la detenzione subita ingiustamente si tradurrebbe in una «duplicazione» del diritto, avendo il soggetto già ottenuto una «riparazione» in «forma specifica», ossia la determinazione di una pena di entità inferiore a quella che sarebbe stata eseguita laddove non si fosse concretizzata una delle fattispecie di ingiustizia riparabile (Coppetta, M.G., La riparazione,cit., 173). Nel secondo caso, l'interessato, in concreto, non ha patito alcun danno «meritevole di riparazione», giacché, anche in assenza dell'indebita misura coercitiva, sarebbe stato comunque sottoposto ad una restrizione della libertà personale in forza di un titolo legittimo (Spangher, G., Riparazione pecuniaria, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1022). Come hanno precisato di recente le Sezioni Unite, dalla disposizione contenuta nella prima parte del co. 4 non può desumersi il principio speculare secondo cui l’avvenuta corresponsione della riparazione è idonea a precludere il beneficio della fungibilità per la carcerazione subita sine titulo – ferma restando la possibilità per lo Stato di esercitare l'azione giudiziaria per l’eventuale indebito arricchimento – stante l’inderogabilità della disciplina dettata dall’art. 657 c.p.p. e «dovendosi escludere l'esistenza di una facoltà di scelta, da parte dell'interessato …, tra il ristoro pecuniario di cui all'art. 314 c.p.p. e lo scomputo dalla pena da espiare della custodia cautelare ingiustamente sofferta» (Cass. pen., S.U., 10.7.2008, n. 31416, in Corr. Mer., 2008, 1293).
L’art. 314 c.p.p. si chiude con la previsione di un ultimo fattore ostativo, riferibile esclusivamente alle fattispecie di «ingiustizia sostanziale»: il diritto alla riparazione è escluso nel caso di sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice per la parte di custodia cautelare sofferta prima dell’intervento ablativo. Il legislatore ha avvertito l'esigenza di esplicitare il principio a scanso di equivoci: posto che la sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere o il provvedimento di archiviazione a seguito di abolitio criminis si esprime con la formula «il fatto non è previsto dalla legge come reato», indicata nel co. 1 dell’art. 314 c.p.p., il silenzio sul punto avrebbe potuto legittimare prassi fuorvianti, risultando, invece, più che evidente come, in siffatta ipotesi, non possa disquisirsi di una «ingiusta restrizione della libertà personale», in quanto, prima dell'abrogazione, la custodia cautelare è stata imposta (e mantenuta) legittimamente sulla base di una norma vigente nell'ordinamento giuridico (in senso critico v. Bellucci, A., Ingiusta detenzione (riparazione per la), in Dig. pen.. Agg., Torino, 2010, 482-483).
Secondo l’orientamento interpretativo prevalente in giurisprudenza, alla sopravvenuta abrogazione prevista dall’art. 314, co. 5, c.p.p. va equiparata l’intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale (ex plurimis, Cass. pen., sez. IV, 22.11.2000, n. 2651, in Ced Cass., n. 218479; quanto al fenomeno della successione di leggi nel tempo, la giurisprudenza è divisa: in senso favorevole all’operatività della norma, v. Cass. pen., sez. IV, 20.9.2001, n. 40270, in Cass. pen. 2003, 2761; in senso contrario cfr. Cass. pen., n. 2651/2000).
Art. 13 Cost.; art. 24 Cost.; art. 27 Cost.; art. 5 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 484); art. 9 Patto internazionale sui diritti civili e politici (reso esecutivo con l. 25.10.1977, n. 881); art. 2, n. 100, l. 16.2.1987, n. 81 art. 314 c.p.p.; art. 315 c.p.p.
Balsamo, A., Riparazioneper ingiusta detenzione, in Spangher, G., Trattato di procedura penale,II, Torino, 2008; Bellucci, A., Ingiusta detenzione (riparazione per la), in Dig. pen., Agg., Torino, 2010; Coppetta, M.G., La riparazione per ingiusta detenzione,Padova, 1993; Coppetta, M.G., Riparazione per ingiusta detenzione, inEnc. giuridica Treccani, Roma, 2001; Jannelli, E., La riparazione dell’errore giudiziario, in Chiavario, M.-Marzaduri, E., Giurisprudenza sistematica di diritto processuale penale, Torino, 2005; Montaldi, A., sub art. 314 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, in Chiavario, M., III, Torino, 1990; Rivello, P.P., Riparazione per ingiusta detenzione, in Dig. pen., XII, 4º ed., Torino, 1997; Scomparin, L., La riparazione per ingiusta detenzione, in Chiavario, M., Libertà e cautele nel processo penale, Torino, 1996; Scomparin, L., sub art. 314 c.p.p., in Chiavario, M., Commento al nuovo codice di procedura penale, III Agg., Torino, 1996; Scomparin, L., sub art. 314 c.p.p., in Chiavario, M., Commento al nuovo codice di procedura penale, IV Agg., Torino, 1998; Spangher, G., voce Riparazione pecuniaria, in Enc. dir., XL, Milano, 1989; Turco, E., L’equa riparazione tra errore giudiziario e ingiusta detenzione, Milano, 2007; Zanetti, E., La riparazione dell’ingiusta custodia cautelare, Padova, 2002.