MISURA
. 1. Il concetto di "misura" fa parte di quel patrimonio di idee, per così dire, primordiali o elementari, che è comune a tutti gli uomini civili. Così ognuno usa e accetta quotidianamente affermazioni del tipo seguente: una certa strada è lunga km. 3,57; un dato corpo pesa kg. 2,750; le oscillazioni di un certo pendolo hanno la durata di 1″,5, ecc. Ma una più precisa riflessione conduce a riconoscere che la definizione della "misura" dà luogo a varie difficoltà, le une di ordine fisico, le altre di carattere astratto o, più precisamente, matematico.
Per cominciare dalle prime, si osservi che la determinazione della misura di una data grandezza fisica implica il confronto di codesta grandezza con un'altra (della stessa specie o, come si suol dire, a essa omogenea), assunta come unità; e questo confronto si effettua per mezzo dei sensi, i quali hanno un potere di discriminazione, che non va oltre certi limiti di finezza (o soglie di sensazione) e che non è nemmeno uguale per tutti, ma dipende anche dalle condizioni fisiche e psichiche dello sperimentatore. Se poi si ricorre al sussidio di opportuni strumenti, ciascuno di questi aumenta il potere dei sensi, ma - anche in causa degl'inevitabili difetti di costruzione e di funzionamento - dà luogo, per sé stesso, a errori, la cui entità si può bensì valutare e costituisce un dato obiettivo in relazione al problema di misura proposto, ma non per questo codesti errori restano senza influsso sul risultato della esperienza. Insomma, fisicamente, non è possibile per le grandezze se non una misura approssimata: e tutto ciò che si può chiedere si è di raggiungere, col sussidio di strumenti e di dispositivi via via più perfezionati, un'approssimazione sempre meglio soddisfacente.
È lecito pensare che in questo processo di successive approssimazioni si possa procedere indefinitamente? A questa domanda il fisico non può dare che risposta negativa, giacché non soltanto - per le ragioni pocanzi accennate - è impossibile determinare sperimentalmente la misura esatta di una grandezza fisica, ma la stessa espressione di "misura esatta" si deve ritenere, dal punto di vista fisico, priva di significato. Ciò è chiaro anzitutto in relazione al criterio positivo della realtà fisica, per cui il senso di un qualsiasi numero pertinente a un soggetto non può essere definito se non in base a esperienze possibili (si rifletta, ad esempio, che l'esistenza di una lunghezza d'onda per la luce e i conseguenti fenomeni di diffrazione pongono a priori un limite alla visibilità di oggetti troppo piccoli).
Ma la misura di una grandezza, per esempio di un regolo, non si può neppure concepire definita teoricamente, perché, se pur si prescinde dal fatto che il regolo solido non è assimilabile a un segmento geometrico, la concezione cinetica della materia (per cui l'atomo si palesa come un sistema di particelle mobili intorno a un centro) porta di conseguenza che la distanza fra i due atomi terminali del regolo varî da istante a istante. È dunque soltanto per via di convenzione che si possono schematizzare le grandezze fisiche, postulando per ciascuna di esse l'esistenza di una corrispondente grandezza matematica, suscettibile di essere misurata con approssimazione illimitata.
Per il matematico le grandezze sono puri enti di ragione; e - in forza delle stesse proprietà, che si postulano nella loro definizione (v. grandezza) - il giudizio di uguaglianza o disuguaglianza (nel senso del minore o del maggiore) fra due grandezze è, attraverso esperienze ideali, sempre possibile senza incertezze. Così, se, per fissare le idee, si considerano i segmenti rettilinei (che costituiscono la classe più semplice e, per così dire, il tipo delle grandezze geometriche), la misura di un segmento A - rispetto a un altro segmento U, assunto come unità - risulta senz'altro definita in modo univoco tutte le volte che A sia uguale a un certo multiplo pU di U o a un certo multiplo p(U/q) di un certo sottomultiplo U/q di U. La misura di A è, rispettivamente, data dal numero intero p o dal numero fratto p/q.
Ma con ciò non si esauriscono tutte le eventualità possibili. Come per primi rilevarono i pitagorici sull'esempio della diagonale di un qualsiasi quadrato, rispetto al corrispondente lato, esistono segmenti A incommensurabili con l'unità U, vale a dire tali, che né il segmento U, né alcun suo sottomultiplo sia contenuto un numero esatto di volte in A (v. incommensurabile). Per un tale segmento A non è più possibile esprimere la misura con un numero intero o fratto, cioè, come si suol dire, con un numero razionale. Tuttavia di una tal misura si può definire un valore approssimato quanto si vuole - per difetto o per eccesso - partendo dal fatto che prefissato ad arbitrio un segmento ε, sia pur piccolo, si può trovare un segmento commensurabile con U, il quale abbia da A una differenza - in meno o in più - minore di ε. Basta a tale scopo cominciare col scegliere un intero n, abbastanza grande perché risulti U/n 〈 ε, e poi considerare i successivi multipli di U/n
Nessuno di questi multipli può essere uguale ad A, per ipotesi incommensurabile con U; ma, poiché, cominciando con l'essere piccolissimi, finiscono col diventere grandi quanto si vuole, ve ne saranno certamente due consecutivi, comprendenti fra loro A; cioè si avrà, per un certo intero m,
In base a questa doppia disuguaglianza i due numeri razionali m/n ed (m +1)/n si assumono come misure approssimate, a meno di 1/n, di A, rispettivamente per difetto e per eccesso. Il fisico nulla chiederebbe di più, ma il matematico trae profitto dalla possibilità teorica di rendere via via piccolo ad arbitrio il grado 1/n dell'approssimazione per giungere alla determinazione esatta della misura di A mediante l'introduzione di una nuova specie di numeri, che si dicono irrazionali. A tal fine si pensino assegnate a una classe tutte le infinite misure approssimate per difetto di A a meno di 1, di 1/2, di 1/3,..., e con ciascuna di esse, s'includano nella medesima classe tutti i numeri minori; similmente si assegnino a un'altra classe tutte le analoghe misure per eccesso di A e, con ciascuna di esse, tutti i numeri maggiori. In questo modo ogni numero (intero o fratto) resta collocato o nella prima o nella seconda classe. Inoltre la prima classe non ha massimo, né la seconda ha minimo; e se si pensano ordinate la prima per valori crescenti la seconda per valori decrescenti, si può dire che le due classi si vanno incontro, determinando, nell'insieme ordinato di tutti i numeri (interi e fratti, o razionali) una lacuna, la quale, ove si pensi analogamente ripartito e ordinato l'insieme dei segmenti commensurabili con U, corrisponde al posto, che in tale insieme di segmenti spetta al segmento A. È in codesta lacuna dell'insieme ordinato dei numeri razionali che il matematico colloca il numero irrazionale, destinato a dare la misura di A.
Dei numeri irrazionali così introdotti per via geometrica (mediante il posto che ciascuno di essi deve occupare nell'insieme ordinato dei numeri razionali), si può sviluppare una teoria puramente aritmetica e, in particolare, si perviene a darne anche una rappresentazione sotto forma decimale, analoga a quella consueta per i numeri razionali, con la particolarità caratteristica che le infinite cifre, che si presentano nella scrittura decimale di un qualsiasi irrazionale, si susseguono con legge non periodica. Ma per questi sviluppi rimandiamo alla voce numero. Qui basterà osservare che, dopo l'introduzione dei numeri irrazionali (i quali, insieme con i numeri razionali, costituiscono i cosiddetti numeri reali), non solo ogni segmento ha come misura un ben determinato numero reale (razionale o irrazionale, secondo che il segmento considerato è commensurabile o no con l'unità); ma, viceversa, prefissato ad arbitrio un numero reale, esiste sempre un segmento ben determinato, che ammette il numero prefissato come misura. E in modo perfettamente analogo si può porre in corrispondenza biunivoca con l'insieme dei numeri reali anche ogni altra classe di grandezze, purché si tratti di grandezze continue (v. continuità) e, beninteso, si prefissi, caso per caso, quella grandezza, che si intende assumere come unità.
Va rilevato che la possibilità di una tale corrispondenza biunivoca fra grandezze e numeri reali costituisce il fondamento di tutte le applicazioni dell'algebra e dell'analisi alla teoria delle grandezze e, in particolare, di quel vasto indirizzo matematico, che va sotto il nome di Geometria analitica (v. analitica, geometria; coordinate).
Ma, in relazione a ciò che si è detto dapprincipio, l'applicazione di quest'analisi e di questa geometria al campo della fisica non può avere, a priori che un valore approssimato; in particolare conviene dire esplicitamente che, nella realtà, non esistono affatto grandezze commensurabili o incommensurabili rispetto all'unità di misura, bensì soltanto grandezze la cui misura cade in un certo intervallo (comprendente infiniti numeri razionali e irrazionali); ed è superfluo aggiungere che questo intervallo non può neppure essere definito con precisione.
2. La scelta dell'unità per le grandezze di una qualsiasi classe di grandezze è, come ben si comprende, del tutto convenzionale e arbitraria; ma è ben noto, che, già nel campo delle grandezze geometriche (segmenti rettilinei e, più in generale, archi di linee, angoli, superficie, solidi) si fissa ad arbitrio soltanto l'unità delle lunghezze o lineare (e, tutt'al più, quella degli angoli), mentre, per ciascuna delle rimanenti classi di grandezze, si adotta una unità, che dipende dalla prima (per gli angoli il radiante, cioè l'angolo che sulla circonferenza di raggio 1, col centro nel vertice, intercetta un arco di lunghezza 1: per le superficie il quadrato di lato 1; per i solidi il cubo di spigolo 1). Così, anche quando si passa ad altre specie di grandezze (meccaniche o, più in generale, fisiche), solo talune unità si prefissano per libera convenzione (unità primitive), mentre le rimanenti si definiscono in relazione alle prime (unità derivate). Per più precise notizie su questo argomento, importante anche concettualmente, si vedano le voci metrici, sistemi; unità, sistemi di.
Qui, invece, tornando nel campo fisico, s'illustreranno, in forma rapida ed elementare, i metodi che si seguono per la misura sperimentale (e quindi approssimata) di una grandezza fisica, e i procedimenti sussidiarî cui si ricorre per desumere dai risultati di convenienti serie di esperienze ripetute il valore più attendibile di una tale misura.
3. Per misurare una grandezza fisica si possono seguire tre metodi differenti che s'indicano comunemente coi nomi di misura diretta, misura indiretta e misura con apparecchi tarati.
a) La misura di una grandezza si esegue confrontando la grandezza che si vuol misurare con una grandezza della stessa specie, scelta come campione: tale campione potrà naturalmente essere l'unità di misura. Una misura diretta si fa, p. es., con la bilancia: il corpo, di cui si vuol determinare il peso, viene posto su un piatto della bilancia; sull'altro piatto viene posta della zavorra fino a ottenere l'equilibrio; si toglie poi il corpo di cui si vuol determinare il peso e lo si sostituisce coi pesi della pesiera fino a ottenere di nuovo l'equilibrio; in tal modo si viene a confrontare direttamente il peso del corpo con altri pesi, che sono stati scelti come campioni.
Già da questo esempio appare che lo sperimentatore, il quale voglia eseguire la misura diretta di una grandezza, deve essere in possesso dei campioni corrispondenti; e questo è un inconveniente tale da far preferire nella maggior parte dei casi la misura indiretta o la misura con strumenti tarati.
b) La misura indiretta (o assoluta) si fa quando la grandezza da misurare è una funzione nota di altre grandezze fisiche: in tal caso dalla misura diretta o con apparecchi tarati di queste ultime, si ottiene la misura della grandezza incognita; così, p. es., il volume di un parallelepipedo rettangolo è eguale al prodotto delle lunghezze dei tre spigoli; si esegue quindi una misura indiretta del volume di tale parallelepipedo se si misurano, p. es. direttamente, i tre spigoli e poi si fa il prodotto dei risultati di queste tre misure. Ciò è vero, naturalmente, nell'ipotesi che l'unità di misura dei volumi sia il cubo di spigolo 1; in caso contrario bisogna introdurre un fattore di proporzionalità che complica un poco le cose.
Le misure indirette richiedono pertanto la conoscenza esatta della funzione che esprime la grandezza incognita in termini di altre grandezze fisiche, le quali si prestino a essere misurate con uno degli altri due metodi indicati.
c) Infine la misura di una grandezza fisica si può fare con apparecchi tarati; e anzi nella pratica la maggior parte delle misure vengono eseguite con questo ultimo metodo, poiché con esso si evita sia l'inconveniente di dover avere a disposizione - come nelle misure dirette - dei campioni con cui confrontare la grandezza che si vuol misurare, come anche la necessità di dover conoscere - come nelle misure indirette - la relazione che lega la grandezza in esame con altre grandezze più facilmente misurabili.
Al giorno d'oggi si eseguiscono continuamente misure con strumenti tarati, sia nei laboratorî sia nella vita pratica: p. es., sono strumenti tarati le bilance, usate in moltissime botteghe, nelle quali un indice mobile su una scala graduata in grammi o chilogrammi indica il peso del corpo posto sul piatto della bilancia: così pure i metri, i termometri, gli amperometri sono tutti esempî di strumenti tarati. La taratura viene compiuta dal costruttore con misure dirette o indirette a seconda dei casi; e l'uso di tali apparecchi è giustificato dalla fiducia che ha lo sperimentatore nell'abilità del costruttore e nella bontà dei campioni che questi aveva a disposizione.
Eseguire una misura con uno strumento tarato è molto semplice, perché vuol dire, almeno nei casi più comuni e tipici, leggere la posizione che assume un indice su una scala graduata. Ma una misura di precisione richiede cure notevoli nella scelta dello strumento, nell'esecuzione della lettura e nella discussione dei dati ottenuti: nel seguito di questo articolo ci occuperemo quindi di tali questioni.
4. Le scale e gl'indici che si trovano in ogni strumento tarato possono essere di tipi assai diversi; descriveremo i tipi che s'incontrano più frequentemente e accenneremo alle caratteristiche che essi debbono avere perché si possano impiegare per misure di precisione.
Le scale possono essere sia rettilinee che circolari: nel primo caso l'indice sarà dotato di un moto di traslazione lungo la scala, come, p. es., la parte mobile di un calibro; nell'altro caso l'indice potrà esser costituito da una lancetta che si muove attorno a un perno, come, p. es., negli orologi. In molti strumenti, tanto a scala rettilinea che a scala circolare, l'indice è costituito da un fine tratto di linea inciso su una piastra metallica il cui orlo scorre lungo la scala (fig. 1). Per fare la lettura bisogna giudicare la coincidenza o meno dell'indice con i tratti della scala. Se l'indice e i tratti della scala sono finissimi si può stabilire a occhio nudo la loro coincidenza con una approssimazione che può giungere a 0,02 mm., ma in molti casi è opportuno fare la lettura con una lente d'ingrandimento, e in tal modo si può arrivare a giudicare la coincidenza dell'indice con un tratto della scala fino al centesimo di mm. Nelle figure 2 e 3 sono riprodotti altri tipi di scale nei quali si può giungere a occhio nudo ad apprezzare la coincidenza al centesimo di mm. Nelle dette figure l'indice è costituito rispettivamente da uno e due tratti molto sottili, incisi su una lastrina di vetro che scorre sulla scala; con questo dispositivo si potrebbe arrivare a giudicare la coincidenza al millesimo di mm., se per la lettura si potesse far uso di un microscopio. Ciò è però impossibile perché l'indice giace in un piano diverso da quello della scala e col microscopio non lo si può mettere a fuoco contemporaneamente ai tratti della graduazione. Perciò con questi dispositivi, si ha, nella precisione con cui si può giudicare la coincidenza dell'indice con un tratto della scala, una limitazione dovuta al fatto che le letture si possono eseguire praticamente solo a occhio nudo.
Un inconveniente che s'incontra in molti strumenti di uso corrente e che va evitato in uno strumento di precisione è dovuto al fatto che l'indice è un po' discosto dalla scala in modo che esso viene proiettato, a seconda della posizione dell'occhio dell'osservatore, in punti differenti. Tale difetto, che si indica col nome di errore di parallasse, rende impossibile valutare con precisione la coincidenza o meno dell'indice con un tratto della scala. Un accorgimento, assai usato negli strumenti di misure elettriche, che permette di ridurre quasi completamente l'errore di parallasse, consiste nel terminare l'indice con una laminetta assai sottile e disposta normalmente al piano della scala (indice a coltello). Per eseguire la misura l'osservatore deve disporre l'occhio nel piano individuato da tale laminetta, ossia in modo da vederne solo l'orlo e non le facce. Un ulteriore miglioramento si ottiene incidendo la scala su uno specchio (fig. 4): per fare la lettura su questi strumenti l'osservatore deve disporre l'occhio in modo che l'indice a coltello copra esattamente la propria immagine.
Sia l'inconveniente di non poter mettere contemporaneamente a fuoco con un microscopio l'indice e la scala sottostante, sia l'errore di parallasse, vengono eliminati con l'uso di un "indice ottico" che si può realizzare coi seguenti dispositivi.
Un primo metodo consiste nel far uso, in luogo dell'indice, di un cannocchiale o microscopio munito di reticolo. Il reticolo è costituito da uno o più fili sottilissimi, montati su un telaino che è posto nell'interno dell'oculare dello strumento. Nella fig. 5 sono riprodotte alcune delle disposizioni dei fili che s'incontrano più frequentemente. Il piano individuato dai fili del reticolo è disposto normalmente all'asse ottico del cannocchiale e in posizione tale da coincidere col piano in cui l'obiettivo forma l'immagine reale degli oggetti da osservare; e, in generale, i reticoli sono costruiti in modo che l'incrocio dei fili sia sull'asse ottico dello strumento. Immaginiamo ora di puntare un tale cannocchiale su una scala i cui tratti siano molto sottili; l'osservatore vedrà allora nello stesso piano il reticolo e la scala, e, precisamente, l'incrocio dei fili del reticolo apparirà coincidente col punto della scala che si trova sull'asse ottico dello strumento; se si sposta il cannocchiale, il suo asse ottico incontrerà la scala in un nuovo punto e l'incrocio dei fili del reticolo apparirà coincidere con esso. Con un dispositivo di questo tipo si può arrivare a valutare la coincidenza del reticolo con un tratto della scala fino al 0,0001 di mm.
Un altro dispositivo, con cui si realizza un indice ottico privo degli inconvenienti sopra ricordati, prende il nome di metodo di lord Kelvin. Per poter usare tale metodo è necessario che lo strumento di misura, in luogo dell'indice, abbia un piccolo specchio: strumenti di questo tipo sono generalmente i galvanometri. Come si vede nella fig. 6, la lampada A illumina fortemente un filo molto sottile disposto verticalmente; i raggi provenienti dalla lampada si riflettono sullo specchietto dello strumento e cadono sulla scala S; a mezzo di una lente L, opportunamente disposta, si fa in modo di avere sulla scala un'immagine assai netta del filo. Con considerazioni geometriche assai semplici si riconosce che se lo specchietto dello strumento di misura ruota attorno a un asse vertimle di un angolo α, il raggio riflesso su di esso ruota di un angolo 2α e quindi l'immagine del filo si sposta sulla scala.
Analogo al metodo di lord Kelvin è il metodo di Poggendorff: in questo caso la scala viene fortemente illuminata e disposta al di sopra o al di sotto di un cannocchiale munito di reticolo (v. elettriche, misure, XIII, p. 685, figg. 3 e 4); il cannocchiale viene puntato verso lo specchietto dello strumento di misura, in modo che l'osservatore veda l'immagine della scala e possa quindi giudicare quale tratto della graduazione coincida con l'incrocio dei fili del reticolo; se ora lo specchietto ruota attorno a un asse verticale, l'osservatore vedrà spostarsi l'immagine della scala e l'incrocio del reticolo verrà così a coincidere con un nuovo tratto della graduazione.
Fino a ora abbiamo sempre parlato solo del caso in cui l'indice viene a coincidere con un tratto della graduazione; in pratica però, quando si esegue una misura, questo caso si presenta assai di rado e lo sperimentatore deve generalmente fare la lettura della posizione dell'indice sulla scala corrispondente, quando esso non coincide con alcun tratto della graduazione. È quindi necessario valutare una frazione d'intervallo della scala. Tale valutazione si può fare naturalmente a occhio, e con un po' di esercizio si può arrivare ad apprezzare in tal modo anche il decimo d'intervallo. Conviene però ricondurre questo caso a quello della coincidenza di un indice con un tratto della graduazione; e ciò si può ottenere con varî artifici, di cui i più usati sono il nonio e il micrometro oculare.
Nonio (o verniero). - L'indice che serve per fare la lettura è lo zero di una seconda graduazione tracciata su una piastrina metallica scorrevole lungo la scala (fig. 7). Il verso di questa graduazione secondaria è lo stesso della graduazione fondamentale; ma essa è ottenuta dividendo una lunghezza pari a n intervalli della scala in n + 1 parti eguali: per es., dividendo una lunghezza eguale a 9 intervalli di graduazione in 10 parti. Se si indica con a l'intervallo fra due tratti della scala, un intervallo del nonio varrà n/(n +1) di a. La differenza fra un intervallo della graduazione fondamentale e un intervallo del nonio sarà quindi
Nel caso della figura 7 a/10.
Per conoscere la frazione x d'intervallo della scala che separa l'ultimo tratto della graduazione fondamentale dallo zero del nonio, basta leggere il numero d'ordine l del tratto del nonio che viene a coincidere con un tratto della scala, poiché si ha evidentemente
Nell'esempio della fig. 7 x = 7a/10. Questo nonio ci permette quindi di leggere i decimi di a; naturalmente si costruiscono dei nonî che, come si suol dire, dànno 1/20 o 1/50 di graduazione. Se la graduazione è in mm. è illusorio costruire dei nonî che diano più di 1/50 di mm.
Data la grande varietà di nonî che s'incontrano negli strumenti di misura, è opportuno, prima di usarli, studiarne la graduazione in modo da capire quale frazione dell'intervallo della scala si possa leggere.
Micrometro oculare. - L'indice è costituito da un microscopio munito di reticolo; quest'ultimo è montato su un piccolo telaio, spostabile trasversalmente a mezzo di una vite micrometrica la cui testa è divisa, per es., in 100 parti. Ogni giro della vite fa spostare il reticolo di un tratto eguale al passo della vite stessa; nell'interno del microscopio e quasi nello stesso piano del reticolo vi è poi una graduazione che serve a contare il numero di giri interi fatti dalla vite micrometrica.
In un micrometro oculare ben costruito, si può fare in modo, cambiando un poco la distanza fra obiettivo e oculare, che un intervallo della scala fondamentale corrisponda a un numero intero di giri della vite micrometrica che sposta il reticolo. Per fare una lettura, si pone sullo zero sia la graduazione che fissa il numero dei giri della vite micrometrica, sia la graduazione segnata sulla testa di questa; dopo avere letto il numero corrispondente all'ultimo tratto della graduazione fondamentale che precede la posizione del reticolo, si fa girare la vite micrometrica, finché l'incrocio dei fili viene a coincidere con esso: il numero di giri e le frazioni di giro fatte dalla vite micrometrica ci misurano la frazione d'intervallo della scala fondamentale che volevamo conoscere.
Negli strumenti di misura s'incontrano moltissimi altri tipi di micrometri oculari; uno dei più semplici e anche dei più frequenti consiste in una lastrina di vetro, sulla quale è tracciata una graduazione, fissata nell'interno di un cannocchiale al posto del reticolo; l'osservatore che punti lo strumento su una scala, vedrà sovrapposta all'immagine della graduazione fondamentale questa graduazione secondaria.
5. Con gli artifici descritti fino a ora si può compiere la lettura della posizione di un indice su una scala con grandissima precisione; si comprende quindi come convenga ricondurre ogni misura (diretta o indiretta o con strumenti tarati) alla lettura della posizione di certi indici su scale corrispondenti. Lo sperimentatore che esegue la misura è avvertito dell'istante in cui deve fare la lettura, da altri indici che si chiamano indicatori; per esempio, in un comparatore con cui si voglia misurare la distanza di due punti, l'indicatore è costituito dal cannocchiale; infatti bisognerà eseguire le letture relative alle posizioni di ciascuno dei due punti, quando il reticolo del cannocchiale coincida con essi. Nella bilancia l'indicatore è costituito dall'indice fissato al giogo; in altri strumenti, anziché a un vero e proprio indicatore, si ricorre a un semplice artificio; così in un galvanometro, montato con la disposizione di lord Kelvin, l'osservatore è avvertito, che è il momento buono per fare la lettura, dal fatto che l'immagine del filo illuminato si è fermata in una nuova posizione sulla scala.
6. Quando si esegue una misura con uno strumento è opportuno conoscere la prontezza e la sensibilità dello strumento, e, una volta fatta la misura, valutarne la precisione.
La prontezza di uno strumento è data dalla rapidità con cui esso è capace di seguire e misurare le variazioni della grandezza in esame.
La sensibilità di uno strumento è legata alla sensibilità della lettura che è necessaria per eseguire la misura. Si chiama sensibilità di una lettura, la minima frazione Δx della graduazione che noi possiamo ancora leggere. Così se la lettura viene fatta su una scala munita di un nonio che dà 1/10 di graduazione, la sua sensibilità sarà appunto i/io d'intervallo della graduazione. La lettura sarà tanto più sensibile quanto più piccolo è Δx e per ciò s'intende talvolta per sensibilità della lettura l'inverso di Δx anziché Δx stesso. Una volta così definita la sensibilità di una lettura si può passare a stabilire che cosa s'intenda per sensibilità di uno strumento. La grandezza y che si vuol misurare è funzione della posizione x dell'indice sulla scala corrispondente:
Si chiama sensibilità del dispositivo di misura la quantità
o il suo inverso.
Come esempio, immaginiamo di avere un galvanometro montato con la disposizione di lord Kelvin, con una scala graduata in mm. e posta a un metro di distanza dallo specchietto; supponiamo inoltre che il minimo intervallo della graduazione che noi possiamo leggere con sicurezza sia 0,25 mm. Dire che la sensibilità del nostro dispositivo è di 10-9 amp. significa che una variazione di 10-9 amp. della corrente misurata dal galvanometro, corrisponde allo spostamento di 0,25 mm. dell'indice ottico sulla scala.
Uno strumento sarà tanto più sensibile quanto più piccola è la quantità ε sopra definita; per ciò è necessario che oltre a esser piccolo Δx (il che si ottiene costruendo le scale e gl'indici coi criterî di cui abbiamo parlato precedentemente), sia molto piccola anche la dy/dx; e ciò si realizza sia costruendo gli strumenti con accorgimenti particolari, come anche con l'introdurre degli artifici, che hanno lo scopo di amplificare lo spostamento dell'indice sulla scala, a parità di variazione della grandezza da misurare. Un esempio di questi artifici si trova nel barometro aneroide. Esso è costituito da una scatola metallica a pareti sottili ermeticamente chiusa; quando varia la pressione esterna, le pareti, deformandosi, subiscono degli spostamenti di qualche decimo di mm.; tali movimenti vengono amplificati a mezzo di un sistema di leve e ingranaggi.
Altri esempî di artifici intesi allo scopo di amplificare gli spostamenti dell'indice sulla scala, sono le disposizioni di lord Kelvin e di Poggendorff, che abbiamo già descritto. Riprendiamo anzi in esame il caso di un galvanometro montato secondo il metodo di lord Kelvin: la sua sensibilità dipenderà non solo dalle caratteristiche costruttive dello strumento, ma anche dalla distanza della scala dallo specchietto del galvanometro, perché, se si porta la scala a una distanza doppia, per una stessa variazione della corrente, si avrà uno spostamento doppio dell'indice ottico. Da tale osservazione si potrebbe essere tratti in inganno, e credere che la sensibilità dello strumento si potesse aumentare a piacere, semplicemente allontanando la scala; ma ciò è errato, perché, se si aumenta la distanza fra lo specchietto del galvanometro e la scala oltre a un certo limite, è pur vero che la dy/dx diminuisce ancora, ma d'altra parte aumenta corrispondentemente Δx in modo che la sensibilità dello strumento resta costante; infatti, quando la scala è troppo lontana, si notano delle piccole oscillazioni della posizione dell'indice sulla scala, le quali fanno crescere la minima frazione di graduazione che noi possiamo leggere con sicurezza. Tali oscillazioni sono dovute sia a imperfezioni inevitabili dello strumento sia anche a disturbi di origine esterna che non si possono mai completamente eliminare.
Ciò che si è detto per il caso del galvanometro è vero in generale per qualsiasi altro strumento; cioè la sensibilità non si può aumentare oltre un certo limite con soli artifici di amplificazione; tali artifici debbono essere sempre proporzionati da una parte alla sensibilità per così dire intrinseca dello strumento, dall'altra alle condizioni di protezione dai disturbi esterni. Si tenga infine presente che per ogni dispositivo esiste un limite teorico della sensibilità, che non può evidentemente essere superato, e che solo in casi particolari è stato possibile raggiungere. Per i galvanometri, per es., tale limite teorico è dovuto al fatto che, anche in condizioni ideali di protezione dai disturbi esterni, esistono sempre le vibrazioni dell'equipaggio mobile dovute ai moti browniani. Al giorno d'oggi si costruiscono dei galvanometri che in condizioni particolari di protezione hanno la sensibilità teorica.
7. La sensibilità ε sopra definita, rappresenta dunque la più piccola variazione della grandezza da misurare, di cui ci possiamo accorgere con un determinato dispositivo; essa viene con ciò a stabilire un limite massimo, in pratica irraggiungibile, della precisione delle misure, nel senso che una volta data la sensibilità del dispositivo, resta fissato il numero delle cifre con cui possiamo ottenere il risultato. Queste cifre non sono poi tutte esatte, perché, anche nelle misure più accurate, l'ultima o le ultime due sono sempre affette da un certo errore. Non parliamo naturalmente degli errori grossolani, dovuti a ben determinate influenze di origine esterna all'apparecchio oppure a trascuratezza da parte dello sperimentatore, come neppure degli errori dovuti al metodo particolare con cui vengono eseguite le misure e che possono venire impiccoliti o addirittura eliminati usando un altro dispositivo. Errori di tal genere, detti errori sistematici, non possono mai in pratica essere completamente eliminati; un buon sperimentatore cercherà sempre di ridurli al minimo e, ogni qual volta sia possibile, ne valuterà l'entità per correggere poi corrispondentemente i risultati della misura. Comunque, noi supporremo in tutto ciò che segue che gli errori sistematici siano stati completamente eliminati; ma anche in queste condizioni si nota che i risultati di più misure di una stessa grandezza non sono mai tutti eguali, ma presentano delle piccole differenze fra loro. Tali differenze sono dovute ai cosiddetti errori casuali, aventi la loro origine nell'inevitabile e incontrollabile imperfezione degli strumenti e dei sensi umani. Le cause che li provocano sono numerosissime e così piccole che non si riesce mai a eliminarle e non si può neppur prevedere in qual senso (se in + o in −) sia l'errore corrispondente.
Ora ci vogliamo appunto occupare dei metodi con cui si riesce a pervenire a un risultato il più preciso possibile nell'ipotesi che le misure da cui partiamo siano affette solo da errori casuali.
La teoria matematica di ciò che esporremo è svolta nella voce errori d'osservazione; ci limiteremo quindi a riportare le formule e le considerazioni che interessano per l'esecuzione pratica delle misure, rimandando al suddetto articolo per un'esposizione completa delle basi matematiche della teoria.
In ciò che segue parleremo assai spesso del "vero valore X" di una grandezza fisica. Tale espressione in realtà non ha un senso esatto, perché è vero che con mezzi più precisi di quelli impiegati si può valutare la grandezza incognita con una maggiore approssimazione, ma, come si è osservato fin dapprincipio, in tale approssimazione non si può procedere indefinitamente, sia per le imperfezioni degli strumenti, sia per l'indeterminazione oggettiva della grandezza incognita stessa. Comunque noi supporremo che si possa immaginare una misura molto più esatta delle nostre e chiameremo vero valore della grandezza in esame il risultato X di tale misura.
a) Ciò premesso, cominciamo dal considerare il caso più semplice in cui si cerca di conoscere il vero valore X di una grandezza fisica a partire da un certo numero n di misure aventi tutte la stessa precisione; con ciò s'intende che le n misure devono essere affette da errori dello stesso ordine di grandezza; se, per esempio, le n misure sono state eseguite da un solo sperimentatore con il medesimo apparecchio e nelle stesse condizioni, si può a buon diritto ritenere che esse soddisfino a questa condizione, per quanto gli errori da cui esse sono affette siano incogniti.
Indichiamo dunque con x1, x2,...., xn, i risultati delle n misure; esse differiscono fra loro, sia pure, in genere, per piccole quantità, e quindi differiscono anche dal vero valore X della grandezza che si vuol misurare. Si chiamano "veri errori" delle n misure le differenze
le quali sono incognite, poiché è incognito X. Nell'ipotesi che noi abbiamo fatto che le misure siano affette solo da errori casuali, le quantità (1) saranno in parte positive e in parte negative.
Ciò che si cerca di fare è di determinare, a partire da x1, x2,...., xn, un valore ξ il quale si approssimi all'incognito X in modo tale da rappresentare il suo valore più probabile. A tale scopo s'introducono gli errori apparenti
Secondo la teoria di Gauss la quantità ξ soddisfa alla condizione da noi imposta di essere il valore più probabile di X quando rende minima la somma dei quadrati degli errori apparenti; per ciò questo metodo prende il nome di metodo dei minimi quadrati.
Per semplicità di notazioni introduciamo il simbolo [ ] comunemente usato nella teoria degli errori, il cui significato è il seguente:
Dovremo quindi imporre che sia
da cui si ottiene
Il valore più probabile ξ della grandezza incognita X è quindi la media aritmetica delle n misure x1, x2, ..., xn.
Per avere ora una misura dell'errore da cui sono affette sia le x1, x2, ..., xn, come la loro media ξ, s'introduce l'errore quadratico medio; comunemente per calcolare l'errore medio da cui è affetta una singola misura xi, si usa la formula
L'errore quadratico medio relativo alla media ξ delle n misure si ottiene dalla (5) dividendola per √n ossia
Questa formula è interessante, poiché ci mostra come diminuisce l'errore medio M di ξ col crescere del numero n delle osservazioni.
La giustificazione dell'uso dell'errore quadratico medio come indice della precisione del valore medio ξ di n misure, sta nel fatto che la probabilità che ξ differisca dal vero valore X più dei primi multipli di M è molto piccola.
Nella pratica, quando le misure x1, x2, ..., xn, sono numeri piuttosto grandi s'introduce per comodità di calcolo un valore approssimato N di ξ e si pone
per modo che si ottiene
Come esempio, s'immagini di volere conoscere il peso di un corpo: si supponga di ripetere la misura 10 volte e che i risultati di queste misure siano i numeri scritti nella prima colonna della seguente tabella; nella seconda colonna sono dati i valori delle yi definite a mezzo delle (7), avendo assunto come valore approssimato N = 1,360
Dalla seconda e terza colonna si calcolano rispettivamente [y] = o,060, [yy] = o,0013, [εε] = 940 • 10-6, in modo che a mezzo delle (8) si ottiene
b) Consideriamo ora il caso un po' più complicato, in cui le n misure x1, x2,..., xn della stessa grandezza non abbiano tutte la stessa precisione: ciò si esprime nelle formule, come vedremo fra poco, attribuendo a ciascuna di esse un peso differente nel calcolo della media ξ.
Περ γομπρενδερε γθιαραμεντε λε γοσε, συππορρεμο περ ιλ μομεντο γθε x1, x2, ..., xn, siano a loro volta le medie aritmetiche di n gruppi di osservazioni aventi tutte la stessa precisione: si avrà allora, se xi, è la media di pi osservazioni,
Il valor medio di tutte le osservazioni fatte sarà:
che si può anche scrivere
I numeri p1, p2, ..., pn, si chiamano pesi delle misure x1, x2, ..., xn. Il peso relativo al valor medio ξ delle n misure è dato dalla somma dei pesi delle singole misure ossia
Conoscendo ora l'errore quadratico medio μ di una singola osservazione, alla quale evidentemente compete il peso 1, si potrà a mezzo della (6) calcolare l'errore quadratico medio relativo alla misura xi = [xi]/pi e precisamente si otterrà
In modo analogo l'errore quadratico medio della media ξ delle n misure sarà dato da
Le cose però non si presentano in generale in una forma così semplice, perché non è sempre detto che si possa assumere come peso della media di un gruppo di osservazioni semplicemente il loro numero. Potrebbe darsi, per es., che le n misure x1, x2, ..., xn, fossero i risultati di osservazioni eseguite da varî sperimentatori con differenti dispositivi.
In questi casi si opera al modo seguente: essendo noto l'errore quadratico medio mi della misura xi si assume come peso pi corrispondente il rapporto
dove μ viene scelto momentaneamente in modo arbitrario: esso rappresenta l'errore medio della unità di peso in analogia al caso precedente. Si deve ora imporre che sia minima la somma pesata o ponderata dei quadrati degli errori apparenti, ossia
che equivale a scrivere
Dalla (12) si vede come la scelta arbitraria di μ nella determinazione dei pesi non influisca sul risultato.
Anche in questo caso conviene assai spesso introdurre un valore approssimato N legato dalle (7) alle xi e a ξ. Le relazioni che servono in tal caso sono le seguenti:
Come esempio supponiamo di voler determinare il volume di una grammomolecola di un gas alla pressione di 760 mm. di Hg e a 0 gradi.
Nella seguente tabella sono dati i risultati in litri, di tre misure fatte, per esempio, da differenti sperimentatori: nella seconda colonna sono dati gli errori medî di queste misure. Assumiamo come valore approssimato della nostra incognita N = 22,400 litri, e per il momento poniamo μ = o,010: nella terza colonna sono dati i valori delle yi e nella quarta i pesi pi delle misure calcolati a mezzo della (11). Dalla quinta e sesta colonna si ottiene applicando le (13)
Possiamo ora calcolare l'errore quadratico medio dell'unità di peso a mezzo della (5) e si ottiene
L'errore medio M relativo al risultato si ottiene dividendo μ per la radice quadrata del peso totale della misura P, mentre gli errori relativi alle singole misure si ottengono dividendo per le radici dei pesi corrispondenti (vedi ultima colonna)
c) In molti casi la grandezza che si vuol misurare non è ottenuta direttamente dalle osservazioni, ma è funzione di altre grandezze fisiche che si prestano a essere misurate più comodamente. Allora, come si è visto al principio di questo articolo, si esegue una misura indiretta della grandezza incognita. È quindi assai spesso interessante poter calcolare l'errore quadratico medio relativo alla misura di una grandezza che è funzione di altre, le quali vengono misurate, per es., direttamente. Indichiamo con Y la grandezza incognita, la quale è funzione di certe altre grandezze X1, X2, ..., Xn,
Se m1, m2,..., mn, sono gli errori quadratici medî relativi alle misure di X1, X2, ..., Xn, l'errore quadratico medio relativo a Y è dato dalla espressione
Come esempio supponiamo di voler misurare l'intensità di una corrente a mezzo della bussola delle tangenti; si ha allora
dove k è una costante strumentale, H è il campo magnetico terrestre e α è l'angolo di cui devia l'ago dello strumento. Per conoscere l'intensità della corrente bisogna quindi misurare H e α. A mezzo della (14) si ottiene come espressione dell'errore quadratico medio relativo a i
Se si considera il campo magnetico terrestre H come dato in modo da poter trascurare l'errore quadratico medio corrispondente mH, la formula precedente si riduce a
Si vede così che l'errore percentuale M/i che si commette in questa misura di i è 2 mα/sen 2α; e quindi a parità di errore medio mα nella misura dell'angolo, esso è minimo quando α = 45°. In questo caso si ha M/i = 2 mα. Da questo esempio si vede come possa assai spesso essere importante la scelta del metodo di misura della grandezza incognita in relazione al suo valore assoluto qualora si voglia ottenere il risultato con un piccolo errore percentuale.
d) Vogliamo in fine considerare il caso di due grandezze che siano l'una funzione dell'altra e che possano venir misurate entrambe direttamente: ciò che si tratta in tal caso di determinare è la funzione che le lega. Noi ci limiteremo ad esporre il procedimento relativo al caso in cui la funzione incognita è lineare: in modo analogo si procede nel caso in cui le due grandezze sono legate da funzioni più complesse (v. per es. F. Kohlrausch). Per es., si voglia conoscere la legge con cui varia la lunghezza L di una sbarra metallica in funzione della temperatura t: noi sappiamo che L è una funzione lineare di t, ma non conosciamo i coefficienti di tale equazione. Per parlare in generale, indichiamo con X e Y le due grandezze legate dalla relazione
e immaginiamo di avere misurato n coppie di valori corrispondenti di X e Y; x1, y1; x2, y2;....; xn, yn: n dovrà essere maggiore del numero delle incognite: nel nostro caso quindi n > 2. Si tratta di determinare i coefficienti A e B in modo che tutte le osservazioni soddisfino, nel modo migliore possibile, l'equazione (15). A causa degli errori di osservazione, le coppie di misure non potranno soddisfare tutte contemporaneamente la (15) ma si potrà porre
Per ottenere A e B s'introducono due loro valori approssimati, che indicheremo con A0 e B0, determinati o da una particolare coppia xr, yr, scelta opportunamente oppure tracciando su un piano quadrettato tutte le coppie di valori xi, yi, e conducendo una retta in modo che passi il più vicino possibile a tutti i punti.
Una volta ottenuti A0 e B0 si determinano le quantità
le quali differiranno poco dalle yi.
Ponendo ora
si ottiene dalle equazioni (16) e (17)
Le nostre incognite sono ora ξ ed η che si determinano imponendo che la somma dei quadrati degli errori ξi sia minima rispetto ad esse′ ossia
Esplicitando queste equazioni, si ha
Ottenuti in tale modo i coefficienti A e B, ci si può porre il problema di determinare l'errore quadratico medio che affetta Y, calcolato a mezzo della (15) in corrispondenza di un certo valore della x; tale errore è dato dalla formula
Come esempio, supponiamo di avere un metro che deve servire a varie temperature. La sua lunghezza L sarà quindi funzione della temperatura t e precisamente
Immaginiamo di avere misurato in un modo qualunque L per quattro differenti valori di t e di volere determinare a partire da queste osservazioni i coefficienti A′ e B′. della (22). Nella prima e seconda colonna della seguente tabella sono date le quattro coppie di valori di t e L. Allo scopo di eseguire i calcoli con numeri piccoli, anziché operare su L e t, operiamo su due grandezze y e x legate a L e t dalle relazioni lineari
Evidentemente x e y sono legati da una nuova relazione lineare
di cui vogliamo determinare i coefficienti A e B.
Nella terza e quarta colonna della tabella sono dati i valori delle x e y; nella quinta e sesta i valori delle ki ed li, calcolati a mezzo delle (17) e (18) assumendo come valori approssimati di A e B
da questa tabella si ottiene applicando le (20)
Si possono ora calcolare a mezzo della (18) le εi che sono riportate nella penultima colonna della tabella. Per avere A′ e B′ basta osservare che per t = 0 si ha x = − 4, y = − 19,6, e, quindi A′ = 999,804; per t = 20, x = − 2 si ha y = 22,8, L = 1000,228 = 999,804 + B′ 20, da cui B′ = 0,0212. Si trova così in definitiva
8. Daremo qui da ultimo la precisione, con cui sono determinati i campioni nazionali di alcune unità di misura rispetto ai corrispondenti campioni internazionali, per dare un'idea della massima precisione con cui si riesce al giorno d'oggi a eseguire il confronto di due grandezze della stessa specie.
I campioni nazionali del metro differiscono dal campione internazionale per una parte su 107.
Nei laboratorî si riesce a stabilire l'eguaglianza di due lunghezze con un errore di poche unità per 106 cm.
I campioni nazionali del kg. differiscono dal campione internazionale per una parte su 2.108; nei laboratorî si può eseguire il confronto di due pesi eguali con la precisione di una parte su 106. Per ciò che riguarda le misure di tempo, i migliori cronometri commettono un errore di qualche secondo all'anno. I campioni nazionali di resistenza elettrica sono precisi entro una parte su 106; i sottocampioni commerciali di tale grandezza hanno una precisione variabile fra una parte su 2.104 e una parte su 5.104. In laboratorio il confronto fra due resistenze eguali si eseguisce fino a una parte su 106.
Bibl.: E. Perucca, Fisica generale e sperimentale, Torino, 1932; F. Kohlrausch, Lehrbuch der praktischen Physik, Lipsia 1930; O. Werner, Empfindliche Galvanometer, Berlino 1928.