MISSANELLA, Nicola Francesco, de
MISSANELLA (Missanello, Messanella), Nicola Francesco, de. – Nacque a Napoli intorno al 1490 da Francesco, barone di Teana e da una Arcella, sorella di Mazeo, gentiluomo di origine piacentina iscritto al seggio napoletano di Capuana.
Tre sue sorelle, di cui si ignorano i nomi, sposarono rispettivamente un Capece Minutolo, un Capece Scondito e un altro Arcella; in tal modo si consolidarono le alleanze con famiglie dello stesso seggio in una rete di rapporti su cui il M. poté in seguito contare.
Nulla si conosce sull’infanzia e la prima formazione del M., che in data imprecisata abbracciò lo stato ecclesiastico. Decisivo per lo sviluppo della sua carriera fu l’appoggio del cugino Fabio Arcella, chierico di Camera di Clemente VII, nunzio e collettore nel viceregno di Napoli a più riprese, tra il 1528 e il 1546; vescovo prima di Bisignano, poi di Policastro; vicario in spiritualibus dell’arcivescovo di Napoli Ranuccio Farnese nel 1544, nonché curatore, tra il 1540 e il 1548, degli interessi della famiglia di papa Paolo III nel Mezzogiorno d’Italia; dal 1549, infine, ordinario dell’arcidiocesi di Capua.
Insieme con Arcella, il M. visse a Napoli, dalla fine degli anni Venti del Cinquecento, in casa di Tommaso Caracciolo, cappellano maggiore del Regno. Del cugino fu, nel 1528, commissario e sub-collettore in Calabria delle spoglie e decime imposte per la liberazione di Clemente VII e, dal 1537, procuratore nella diocesi di Policastro, della quale, nel 1543, fu nominato vescovo, pare sempre grazie all’intercessione di Arcella, al quale in cambio avrebbe corrisposto una rendita vitalizia.
Consacrato solennemente a Napoli il 7 giugno 1543, nella chiesa di S. Sebastiano, soltanto l’anno successivo raggiunse la sede assegnatagli, procedendo quasi subito alla visita pastorale.
Composta da 24 «terre» a cavallo tra la Basilicata meridionale e il Cilento, la diocesi di Policastro abbracciava un territorio nel quale al litorale in parte sabbioso, in parte caratterizzato da alti costoni, insenature e promontori, si contrapponevano un entroterra aspro e montuoso e zone malariche lungo il corso del Bussento. Le frequenti incursioni barbaresche impedivano che in quell’area il mare fosse fattore di sviluppo; la struttura economico-sociale restava essenzialmente agricolo-pastorale, arretrata, caratterizzata da ampie fasce di povertà e soffocata dallo strapotere dei baroni. Il feudatario di quel territorio, Giovan Battista Carafa della Spina, aveva usurpato giurisdizione e beni ecclesiastici senza incontrare soverchia resistenza.
Il M., nonostante le difficoltà nelle comunicazioni, visitò la diocesi. Il suo governo pastorale si distinse per la beneficenza e per le misure di disciplina sul clero locale – riottoso, concubinario, ignorante – e sui fedeli, poco affezionati ai sacramenti e superstiziosi. L’azione a difesa della giurisdizione ecclesiastica lo coinvolse in molteplici conflitti con baroni e università.
Per seguire i numerosi procedimenti giudiziari intentati nei tribunali partenopei e a causa delle condizioni di salute, divenute con gli anni sempre più precarie, il M. abbandonava spesso Policastro per tornare a Napoli. Non partecipò al Concilio di Trento, facendosi rappresentare, durante la prima fase dei lavori, dall’ordinario di Cava Tommaso Sanfelice e dall’amico Girolamo Seripando, generale degli Agostiniani.
Nel giugno 1563 il nunzio pontificio Niccolò Fieschi lo invitò perentoriamente a contrastare la preoccupante diffusione di idee eterodosse nel territorio bussentino con un più efficace impegno pastorale. Benché ormai quasi cieco, il M. diede subito inizio a una «visita», ma di lì a breve fu convocato dal commissario generale del S. Uffizio, il cardinale Michele Ghislieri e, nonostante le strenue resistenze opposte, nell’ottobre 1564 fu costretto a recarsi a Roma, dove fu arrestato e sottoposto a processo.
Le accuse formulate a suo carico – quali risultano dal processo ripetitivo e difensivo – riguardavano fatti accaduti molti anni prima. Gli si imputava, tra l’altro, di aver avuto il vescovado «a pensione» da Fabio Arcella; la «conversatione cum hereticis» (Dublino, Trinity College Library, 1243, c. 12v), il possesso di libri proibiti e l’adesione a dottrine eterodosse, quali la giustificazione per la sola fede o la negazione del Purgatorio e del valore dell’intercessione dei santi. La diocesi di Policastro, in realtà, dagli anni Quaranta del Cinquecento, era stata attraversata da infiltrazioni ereticali di matrice valdesiana e luterana e sul M. ricadde l’accusa di non essersi adoperato abbastanza, durante il suo governo, per bloccarle, ma anzi di averle favorite. Gli fu contestato, in particolare, di aver accolto nella sua residenza bussentina il calabrese Apollonio Merenda, collaboratore di Arcella, vicino prima al circolo valdesiano napoletano, poi alla Ecclesia Viterbensis, e sfuggito abilmente, negli anni Cinquanta, alle maglie dell’Inquisizione romana per riparare, infine, nella Ginevra calvinista. Il M. era accusato pure di aver affidato la predicazione ad alcuni frati sospetti di eresia e al noto apostata carmelitano Scipione Lentulo, che da circa dieci anni era al servizio del M. nella diocesi e aveva distribuito ai sacerdoti con cura d’anime la traduzione della Confession de foi des églises réformées de France (conosciuta come Confessione della Rochelle) con una sua prefazione, in cui erano presenti posizioni contrarie alla fede cattolica e vicine alle posizioni protestanti. Sempre secondo le accuse, alcuni maestri di grammatica erano stati lasciati liberi di insegnare principi eterodossi, mentre nelle residenze vescovili di Policastro, Torre Orsaia e Lauria si era a lungo riunito un piccolo cenacolo, nel quale si leggevano – alla presenza del M. – le Sacre Scritture e le Epistole di San Paolo «modo heretico et iuxta sensum lutheranum» (ibid., c. 96v) e perfino testi come le Postillas di Lutero.
Non è del tutto chiaro perché il processo contro il M. abbia avuto inizio soltanto molti anni dopo i fatti contestati, quando egli era ormai vecchio, malato e cieco, tanto da aver bisogno di essere trasportato a braccia anche da una stanza all’altra della sua abitazione, né si conosce il modo in cui prese avvio.
Sicuramente la vicenda va letta all’interno del clima di repressione inquisitoriale che caratterizzò il Viceregno durante i primi anni Sessanta del Cinquecento e conobbe episodi drammatici come il massacro dei Valdesi in Calabria (1561) e l’esecuzione capitale di Bernardino Gargano e Giovan Francesco Alois (Napoli, 8 marzo 1564). Fu proprio Alois, nelle deposizioni rese al S. Uffizio dall’ottobre 1562, a fare il nome del M., affermando di essere stato in contatto con lui negli anni 1540-47 e formulando la grave accusa di essere autore di uno scritto sulla giustificazione vicino alle teorie valdesiane e di aver insegnato e predicato la dottrina della predestinazione alla maniera luterana. Benché negli atti del processo al M. non si trovi alcun riferimento ad Alois e alle sue dichiarazioni, è plausibile che le affermazioni del casertano ingenerassero forti sospetti negli inquisitori, confermati anche dalle confessioni rese, tra la primavera e l’estate del 1563, da alcuni presunti eretici di Lauria che avevano frequentato, a titolo diverso, il palazzo del vescovo di Policastro. Secondo R. De Maio (Alfonso Carafa, pp. 172-175), che si basa su di una testimonianza fornita da Giulio Antonio Santoro, il futuro cardinale di S. Severina all’epoca dei fatti luogotenente del vicario arcivescovile di Napoli Luigi Campagna, l’arresto del M. sarebbe da collegare agli eventi seguiti all’esecuzione di Gargano e Alois, quando il sospetto che si volesse introdurre l’Inquisizione spagnola nel Viceregno provocò nella capitale un’imponente sommossa popolare, capeggiata, tra gli altri, da congiunti dell’arcivescovo Alfonso Carafa. Costretto ad abbandonare la città, il vicario Campagna avrebbe maturato, in quell’occasione, sentimenti di vendetta nei confronti di Carafa che, a suo avviso, non si era opposto con sufficiente durezza alla rivolta: sentimenti condivisi anche dal pontefice Pio IV, già ostile ai nipoti del suo predecessore. Per condurre alla rovina l’arcivescovo di Napoli, si sarebbe voluto provare, quindi, a ogni costo, che egli era alleato degli eretici e a tal fine «premeva tanto a sua Santità […] che anco fosse inquisito il vescovo di Policastro» (Bibl. apost. Vaticana, Barb. lat., 4592, c. 154).
Si può ragionevolmente ipotizzare, dunque, che il processo contro il M. – il quale aveva anche perso, nel frattempo, l’importante protezione di Arcella, morto intorno al 1560 – abbia avuto origine a Roma, nelle alte sfere ecclesiastiche e all’interno del S. Uffizio come è testimoniato dalla stessa sentenza, la quale non fa riferimento ad alcuna denuncia precisa nei confronti del presule. È innegabile, peraltro, che il procedimento trovò terreno fertile in territorio bussentino, all’interno di quella conflittualità che il M. stesso aveva scatenato, tentando di riaffermare con più rigore le prerogative della giurisdizione ecclesiastica. L’accusa, infatti, riuscì ad acquisire diverse testimonianze a carico, nonostante il pesante clima di intimidazione creato dal nipote del M., il barone Camillo Arcella, accorso a Policastro insieme a numerosi uomini armati in concomitanza con l’inizio degli interrogatori.
A favore del M. si presentarono a deporre, intanto, a Napoli, altri parenti degli Arcella, nonché persone legate a loro da vincoli di gratitudine o di consuetudine, dimostrando quanto, per le importanti casate napoletane del seggio di Capuana e per i loro alleati, la vicenda giudiziaria del M. si presentasse come uno scomodo problema di famiglia da risolvere al più presto e nel migliore dei modi.
Dal 1566 apparve, peraltro, evidente anche la volontà del S. Uffizio di chiudere la questione. Scomparsi, infatti, dalla scena due dei principali attori, papa Pio IV e il cardinale Alfonso Carafa, il M. – che pure aveva reso, sin dal 29 dic. 1564, una parziale e contraddittoria confessione – non interessava più a nessuno. Così, giudicato «de heresi vehementer suspectus» (Dublino, Trinity College Library, 1224, c. 69v), fu assolto, ma soltanto dopo aver abiurato insieme con Mario Galeota e altre otto persone, in una solenne cerimonia svoltasi a Roma alla presenza di ventidue cardinali e di un’immensa folla, il 22 giugno 1567 (secondo De Frede, p. 323). Fu anche sospeso per dieci anni dal suo ufficio, con l’obbligo di non rientrare, durante lo stesso periodo, nella diocesi; delle rendite ecclesiastiche, gli fu lasciata soltanto la metà, mentre il resto fu assegnato a un vicario inviato dal S. Uffizio a Policastro, per debellare definitivamente i fermenti ereticali.
Il M. morì a Roma, nel 1577, a circa 87 anni, senza essere reintegrato nel suo incarico.
Fonti e Bibl.: Arch. segreto Vaticano, Archivio Concistoriale, Acta Miscellanea, 18, c. 366v (atto di nomina a vescovo di Policastro); Arm. XXX, 229, cc. 2v-3r (lett. del cardinale Vitellio Vitellonzio al M., Roma, 21 genn. 1567); Bibl. apost. Vaticana, Barb. lat., 4592: Persecuzione eccitata al signor Santorio che fu poi cardinal et fu detto il cardinale di Santa Severina, c. 154; Città del Vaticano, Archivio della Congregazione per la dottrina della Fede, Stanza Storica, Q.4.q, cc. nn. (lett. di Ghislieri a Santoro, 23 ottobre, 4 dic. 1563, 28 ott. 1564); Dublino, Trinity College Library, 1224, c. 130 (sentenza pubblicata in P. Lopez, Clero, eresia e magia nella Napoli del Viceregno, Napoli 1984, pp. 244 s.); 1243 (processo ripetitivo e difensivo); E. Bohemer, Le cento e dieci divine considerazioni di Giovanni Valdesso, III, Halle in Sassonia 1860, pp. 599-603; P. Villani, Origine e caratteri della nunziatura di Napoli (1523-1569), in Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, IX-X (1957-58), docc. 181, pp. 497 s. 190, p. 505; 207, p. 512; 216, p. 518; M. Firpo, Il Processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, I, Il «Compendium», Roma 1981, pp. 227, 376-378; M. Firpo - D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi (1557-1567), I, Città del Vaticano 1998, pp. 316 s.; II, ibid. 2000, pp. 857-860; M. Cassese, Girolamo Seripando e i vescovi meridionali (1535-1563), II, La corrispondenza. Edizione critica, Napoli 2002, pp. 288 s., 316 s., 424 s.; P. Scaramella, Le lettere della congregazione del S. Ufficio ai Tribunali di Fede di Napoli: 1563-1625, Trieste-Napoli 2002, pp. LXXIII, 3, 6; C. Cantù, Gli eretici d’Italia. Discorsi storici, III, Torino 1866, pp. 29, 31; F.H. Reusch, Der process Galileis und die Jesuiten, Bonn 1879, p. 332; K. Benrath, Atti degli Archivi romani della biblioteca del Collegio della Trinità di Dublino, in Rivista cristiana, VIII (1880), p. 138; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Napoli 1892, pp. 256, 269 s.; P. Sposato, I vescovi del Regno di Napoli e la bolla «Ad ecclesiae regimen» (29 novembre 1560) per la riapertura del Concilio di Trento, in Archivio storico per le provincie napoletane, XXXV (1956), p. 388; G. Alberigo, I vescovi italiani al Concilio di Trento, Firenze 1959, p. 201; M. Rosa, Alois, Gian Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma 1960, pp. 515 s.; G. De Caro, Arcella, Fabio, ibid., III, ibid. 1961, pp. 750-752; R. De Maio, Alfonso Carafa cardinale di Napoli (1540-1565), Città del Vaticano 1961, pp. 175-180; N. Laudisio, Sinossi della diocesi di Policastro, a cura di G.G. Visconti, Roma 1976, pp. 78 s.; P. Lopez, Clero, eresia e magia nella Napoli del Viceregno, Napoli 1984, pp. 14 s., 244 s.; M. Miele, Presenza protestante a Salerno durante l’episcopato di Seripando, in Girolamo Seripando e la Chiesa del suo tempo nel V centenario della nascita. Atti del convegno di Salerno … 1994, a cura di A. Cestaro, Roma 1997, pp. 283-289; C. De Frede, Religiosità e cultura nel Cinquecento italiano, Bologna 1999, p. 323; A.L. Sannino, N. F. M. vescovo di Policastro ed il suo processo dinanzi al Tribunale romano dell’Inquisizione (1564-1567), in Ricerche di storia sociale e religiosa, XXVIII (1999), 56, pp. 35-82; M. Cassese, Girolamo Seripando e i vescovi meridionali (1535-1563), I, Saggio Storico e profili dei corrispondenti, Napoli 2002, pp. 35, 42, 129-131, 145, 155, 198, 230 s.; G. Caravale, Il processo inquisitoriale del vescovo N. F. M. e un «confessionario» censurato dell’eretico Scipione Lentolo, in Studi in ricordo di Armando Saitta, Milano 2002, pp. 72-101; S. Adorni Braccesi, Lentulo, Scipione, in Dizionario biografico degli italiani, LXIV, Roma 2005, p. 380; A. Del Col, L’Inquisizione in Italia dal XII al XXI secolo, Milano 2006, p. 420; Hierarchia Catholica, III, p. 277.