CAVALORI, Mirabello
Figlio di Antonio Pacini de' Cavalori detto Salincorno, soprannome con cui anche il figlio è talora indicato, la sua data di nascita veniva indicata tradizionalmente, ma senza riscontri obbiettivi, tra il 1510 e il 1520, ed è stata legittimamente posta in dubbio (Colnaghi; Venturi) sia perché il pittore sembra dover appartenere culturalmente alla generazione successiva al Vasari, sia perché apparirebbero inspiegabili e la sua immatricolazione all'arte dei medici e degli speziali solo nel 1567 e la scarsità eccezionale delle opere in un momento in cui giovani e meno giovani artisti trovavano nei numerosi rifacimenti e trasformazioni degli altari delle chiese della Firenze granducale e dei suoi dintorni occasioni continue di lavoro. Il C. dovette dunque vedere la luce, come quasitutti coloro che operarono sotto la direzione sia pure formale del Vasari nel celebre studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio, fra il 1530 e il 1540 e morì certamente nel 1572, lasciando ben poche opere a testimonianza di un'attività breve, ma qualitativamente assai significativa nell'ambito dell'ultimo manierismo fiorentino.
Il Vasari, che lo ricorda insieme con Girolamo Macchietti "amicissimo e compagno" tra gli accademici del disegno da cui si può "sperare onoratissima riuscita" (altra indiretta testimonianza della giovane età del C.), lo dice allievo di Ridolfo del Ghirlandaio. Invero la presenza giovanile del C. nella bottega del vecchio Ridolfo, rappresentante sopravissuto del primo classicismo fiorentino, coetaneo e amico di Raffaello nei suoi giovani anni fiorentini e per sempre legato a quel decisivo momento artistico, non contrasta affatto con i suoi raggiungimenti maturi, anzi ne facilita in qualche modo l'intendimento. Di fatto proprio il vecchio Ridolfo poteva essergli direttamentei o indirettamente attraverso le opere più valide e più antiche, buon mentore in quell'operazione di ricupero di valori formali del primo Cinquecento che caratterizza l'opera del C. e la collega a certe nuove istanze della cultura artistica dei suoi anni.
È inspiegabile che il Borghini, così buon testimone del mondo artistico a lui contemporaneo, non citi neppure il C., nonostante la menzione del Vasari, e che lo dimentichi completamente il Baldinucci. Sicché dopo un accenno del Lanzi bisogna attendere la monumentale Storia del Venturi, e più in particolare il moderno apprezzamento per il tardo manierismo e l'individuazione dello studiolo di Francesco I come documento fondamentale dell'evoluzione del manierismo italiano, nel momento in cui sta per diventare linguaggio internazionale, per trovare un concreto interessamento alle tavolette che per lo "studiolo" aveva preparato il C. e da qui alla sua superstite e, come si è detto, scarsa attività.
Insieme con il Macchietti il C., che fin dal 1563 risulta consigliere dell'Accademia del disegno, aveva collaborato ai grandiosi lavori diretti dal Vasari per le esequie di Michelangelo con un chiaroscuro rappresentante Lorenzo il Magnifico che accoglie Michelangelo fanciullo, per il quale esiste un disegno a penna degli Uffizi (n. 7286 F. r.), già riferito al Macchietti e poi, dalla Marcucci (1951), al C., il cui nome appare in calce al disegno accanto a quello del Macchietti. L'impostazione semplificata, neoquattrocentesca della scena, attenta soprattutto a valori spaziali, non contrasta con il precedente di Ridolfo del Ghirlandaio; ma il disegno non è ovviamente sufficiente a dare la misura della prima attività del C. esplicatasi anche in certi affreschi della chiesa dei cappuccini, ancora insieme con il Macchietti, già citati nelle Vite del Vasari e poi perduti nel rifacimento dell'edificio. Perduta è anche la Nunziata, datata 1565 e firmata, che il Lanzi citava presso i Baldovinetti; mentre il Banchetto di Erode, che in passato aveva per qualche tempo portato alla Galleria palatina di Firenze il nome del C., è stato riconosciuto (Giglioli) come opera di Andrea Vicentino.
Molto probabile è anche la partecipazione del C. alle decorazioni per le feste solenni in occasione del matrimonio di Francesco con Giovanna d'Austria (1565), benché non testimoniata dai documenti pur abbondanti sull'argomento specifico. A questa occasione è forse riferibile un disegno della Graphische Sammlung di Monaco con la scritta "Mirabello pitt/fiorentino", dalla Marcucci collegato con altri della stessa raccolta di Monaco e del Gabinetto dei disegni degli Uffizi, pur essi di mano del C., tutti contenenti schizzi di figurini teatrali che sembrano alla studiosa eseguiti, come i molti altri di altra mano facenti parte della raccolta fiorentina, per la celebre mascherata della "Genealogia degli Dei" che attraversò Firenze l'ultimo giorno di carnevale del 1566 a coronamento delle feste per le nozze. Disegni la cui destinazione per altro esclude un impegno che vada oltre la puntuale descrizione dei particolari del costume bizzarro. D'altra parte anche la prima opera firmata e superstite del C., il quadro dell'oratorio di S. Tommaso d'Aquino a Firenze (1568), mal si presta a una chiarificazione del più antico aspetto del pittore per la sua impostazione strettamente condizionata dal tema; si tratta di un quadro commemorativo dei primi iscritti della Compagnia di S. Tommaso, appena formatasi, raggruppati convenzionalmente in preghiera intorno al patrono, dove solo la perspicuità di qualche più lucido ritratto può aprire uno spiraglio verso le ricerche più valide del pittore.
Indubbiamente sono i pannelli preparati per lo studiolo di Francesco I, in cui si cimentano tra il 1570 e il 1572, accanto al C., l'amico Macchietti e quasi tutti ipiù e meno noti pittori del momento a Firenze, che meglio lo rappresentano.
È del resto ormai opinione largamente documentata che tutta la generazione dello studiolo, formatasi all'ombra della dittatura artistica vasariana e premuta tra l'insofferenza per l'ormai generica cifra dei suoi grandi cicli celebrativi di Palazzo Vecchio e l'insorgente esigenza devozionale e pietistica della pittura per altari cui la fantasia riusciva assai raramente a rispondere, diede il meglio di sé proprio in occasione della decorazione minuta dello studiolo profano del principe, destinato a raccogliere entro armadi, di cui i pannelli dipinti erano gli sportelli, i frutti più preziosi della sua passione di raccoglitore di gioie, medaglie, pietre intagliate, cristalli lavorati e poi balsami, rimedi di veleni, cioè quanto di più raro la natura produce e l'uomo con la sua arte lavora ed utilizza. Ma entro quel complesso caratterizzato dall'incontro della più libera astrazione manieristica di cui erano eredi Maso da San Friano, Naldini, Poppi, ecc., con il puntiglio naturalistico del fiammingo Stradano, ormai fattosi fiorentino e punto di riferimento di parecchi giovani pittori come lo Zucchi, Alessandro del Barbiere, il C. emerge insieme con il Macchietti per un carattere particolare e diverso che fa leva su altri problemi posti in quegli anni nell'ambiente artistico fiorentino.
Sia il pannello con il Lanificio che quello con Lavinia all'ara appaiono sottrarsi alle tendenze fantastiche, irrazionali della spazialità e dell'elaborazione formale manieristiche per cercare una classica definizione di corpi dinamicamente eppur naturalisticamente articolati entro uno spazio prospetticamente assestato ed agibile. Un gestire sciolto, naturale, condizionato dall'azione compiuta rileva i muscoli guizzanti dei giovani addetti alle operazioni di preparazione della lana richiamando alla memoria i bei disegni di studi anatomici di Andrea del Sarto; la luce li avvolge e li ferma nella loro situazione spaziale con una sottigliezza di passaggi chiaroscurali del tutto sorprendente. Nella Lavinia all'ara vesti seriche e stracci acquistano nel gioco luminoso una verità oggettiva, palpabile; ritratti schietti occhieggiano tra le colonne dell'imponente architettura che accoglie la scena.
È noto come la ricerca di una eccezionale lucidezza dell'immagine avesse a Firenze precedenti più e meno immediati e certo ben noti ai pittori dello studiolo negli stessi grandi manieristi da Pontormo al Bronzino, sia pure in forma di contrasto dialettico e fortemente intellettualistico tra il frammento di verità acutissima e la sofisticata trasfigurazione fantastica della forma in cui è inserito e come sospeso. Ma il C. invece sembra rifarsi più indietro ancora, ai disegni "senza errori" di Andrea del Sarto, come si è detto, all'andamento narrativo di opere come le Storie del chiostro della SS. Annunziata, e soprattutto all'obbiettività visiva, all'attenzione luministica che il Franciabigio aveva portato nei suoi Ritratti in opere come La lettera di Uria di Dresda. Inseriti nel tempo cui appartengono, questi pannelli singolari per l'evidenza nitida e circostanziata del fatto figurato, per la lucida impostazione prospettica sembrano equilibrarsi sottilmente fra le esigenze di una riforma in senso naturalistico proposta e sostenuta proprio in quegli anni da Santi di Tito, che si richiamava agli ideali formali del primo Cinquecento, e una preziosità di materia artificiata fino all'illusionismo che ben rispondeva allo spirito raffinato, eccentrico dello studiolo e del suo principe committente ed era in definitiva ancora un prodotto del più sensazionale mamerismo.
Risultati analoghi il C. ricerca e ottiene anche in un'altra tavoletta di più piccole proporzioni della collezione Loeser in Palazzo Vecchio con la Benedizione di Isacco. Fra le attribuzioni della critica recente la più importante è quella della tavola con la Pentecoste nel coro della chiesa di Badia a Firenze (Berti, 1952), già riferita a G. B. Naldini dalle vecchie guide, probabilmente solo per una casuale estensione anche a questo quadro del nome del pittore che dipinse la vicina Salita al Calvario. Benché i confronti rendano il riferimento al C. molto probabile, la Pentecoste, per la quale si conoscono anche alcuni disegni conservati agli Uffizi, è lontana dalla brillante qualità delle tavolette di cui si è detto in precedenza e delle quali è forse un poco più antica: convenzionale nell'impostazione compositiva, ligia alle consuetudini iconiche dello spirito della Controriforma, più opaca nell'invenzione cromatica, conferma la scarsa propensione degli artisti più raffinati dello studiolo a misurarsi con i grandi quadri da altare e tuttavia presenta parti di forza non trascurabile. Più vicina alle opere più note è la S. Barbara di casa Vasari ad Arezzo che gli è stata attribuita (Berti, 1952), insieme con una tavoletta con la Circoncisione della stessa galleria, dove però la materia pittorica è così sciolta, alla veneta, da lasciare incerta la sua effettiva appartenenza al Cavalori. Di una attività di ritrattista del C. parla già il Vasari, precisando che fece "molti ritratti e particolarmente quello del Principe più di una volta". Su questa base è stata avanzata l'ipotesi (Berti, 1967) che siano suoi un ritratto di Francesco de' Medici del Museo Stibbert di Firenze, caratterizzato da un sostrato alloriano, ma più umano e tenero di carne, e quello assai famoso del Suonatore di liuto del Museo Jacquemart-André di Parigi che ha portato attribuzioni del tutto insostenibili al Pontormo, al Salviati, ma che, pressoché concorde, la critica più recente è incline ad accostare al nome del lucchese Lorenzo Zacchia, quantunque i quadri certi di questo pittore siano di qualità molto più scarsa. Per qualche altra recente considerazione sul C. e l'attribuzione di un ritratto di ignota collocazione e di un frammento con una testa femminile, si veda l'intervento di V. Pace (1973).
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite..., a cura di G. Milanesi, VII, Firenze 1881, p. 613; L. Lanzi, Storia pittor. della Italia, a cura di M. Capucci, I, Firenze 1968, pp. 128, 157; H. Voss, Die Malerei der Spätrenaissance in Rom und Florenz, Leipzig 1920, p. 356; O. H. Giglioli, Una pittura sconosciuta di Andrea Vicentino ed il suo disegno, in Riv. d'arte, XI (1929), p. 364; A. Venturi, Storia dell'arte ital., IX,s, Milano 1932, p. 302; Mostra del Cinquecento toscano... (catal.), Firenze 1940, pp. 130, 192 s.; U. Baldini, Mostra vasariana (catal.), Firenze 1950, p. 67; L. Marcucci, Nota sulla pitt. fiorentina intorno al 1560 a proposito di un disegno ined. del C., in Belle Arti, 1951, pp. 63-70; L. Berti, Note brevi su ined. toscani, in Boll.. d'arte, XXXVII(1952), p. 353; L. Marcucci, Appunti per M. C. disegnatore, in Riv. d'arte, XXVIII (1953), pp. 77-98 (ma v. Forlani, in Arte ant. e moderna, 1961, pp. 239, 241); L. Berti, La casa del Vasari in Arezzo e il suo museo, Firenze 1955, pp. 20 s.; G. Briganti, La maniera ital., Roma 1961, p. 62; F. Sricchia, L. Lippi nello svolgimento della pittura fiorentina..., in Proporzioni, IV(1963), p.242; A. Forlani, Il disegno ital. Il Cinquecento, Venezia s.d. (ma 1962), pp. 246-248; Fondatori della Accademia delle arti del disegno (catal.), Firenze 1963, p. 41; F. Sricchia Santoro, Per il Franciabigio, in Paragone, XIV(1963), 163, p. 19; A. M. Petrioli, Mostra di disegni vasariani... per la genealogia degli dei (1565) (catal.), Firenze 1966, p. 15; L. Berti, IlPrincipe dello Studiolo, Firenze 1967, p. 35; G. Gaeta Bertelà-A. M. Petrioli Tofani, Feste e apparati medicei da Cosimo I a Cosimo II (catal.), Firenze 1969, pp. 13 s.; Dessins ital. du Musée du Louvre, Paris 1972, ad Indicem; V. Pace, Contributi al catal. di alcuni pittori dello studiolo di Francesco I, in Paragone, XXIV(1973), 285, pp. 69-84 passim; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VI, p. 226; D. E. Colnaghi, A Dict. of Florentine Painters, p.68.