Minosse (Minòs; Minoi)
Mitico re di Creta, famoso per la sua giustizia e per aver dato leggi al suo popolo.
D. usa la forma ‛ Minòs ' (per l'accentazione ossitona dei nomi non latini v. Parodi, Lingua 234) e una volta, in rima, ‛ Minòi ' (dai casi obliqui; questa stessa forma si ritrova peraltro anche in testi trecenteschi in prosa).
Secondo alcuni studiosi, ‛ minosse ' sarebbe stato titolo regale - come l'egiziano ‛ faraone ' - donde si parla di ‛ età minoica ', III-II millennio a.C., in cui Creta, dominatrice del mare, svolse un ruolo egemone nell'area mediterranea conoscendo una notevole fioritura economica e culturale. La fama di giustizia di M. deriverebbe pertanto dall'uso di leggi scritte primamente introdotto in Creta; così come il mito del Minotauro trova riscontro nelle tauromachie diffuse nell'isola.
Nella leggenda di M. confluiscono peraltro varie componenti sorte evidentemente in epoche diverse. Il mito narra che M., figlio di Giove e di Europa (alcuni mitografi lo dicono invece figlio del re cretese Asterio), avesse dalla moglie Pasife vari figli, e che uno di questi, Androgeo, fosse ucciso dagli Ateniesi e dai Megaresi per invidia della sua eccellenza di ginnasta. M. intraprese allora una guerra vendicatrice: ma nel rito propiziatorio sacrificò a Giove non il magnifico toro che Nettuno aveva all'uopo fatto uscire dal mare bensì altro bovino, meno bello; e dunque per ira divina avvenne che Pasife, innamoratasi follemente di quel toro, si congiunse con lui, e ne nacque poi il mostro Minotauro cibantesi di carne umana. Risultata la guerra vittoriosa per M. anche per l'aiuto di Scilla figlia del re megarese Niso, gli Ateniesi furono obbligati a inviare a Creta ogni anno sette giovanetti (secondo altri, quattordici fanciulli ogni nove anni) quale premio dei giochi istituiti nell'anniversario di Androgeo; quando poi il Minotauro fu rinchiuso nel labirinto costruito da Dedalo, gli ostaggi venivano uccisi dal mostro; finché Teseo, aiutato dalla figliuola di Minoi (Pd XIII 14), Arianna, non liberò Atene da quel servaggio. Secondo una particolare versione raccolta da alcuni mitografi, M. avrebbe inseguito in Sicilia Dedalo evaso dal labirinto, e sarebbe morto presso Camarino ucciso dalle figlie del re Crocalo.
D. conobbe il mito, oltre che per i numerosi accenni a Pasife, al Minotauro, a Teseo, ad Arianna sparsi un po' in tutti i poemi latini, per la diffusa narrazione della guerra contro Atene e i Megaresi in Ovidio met. VII 456-516; VIII 1-263. Per gli accenni danteschi agli altri personaggi implicati in questo mito v. ARIANNA; dedalo; minotauro; pasife; teseo.
Per la sua fama di legislatore e d'inflessibile giusto i poeti fin dall'età omerica immaginarono M. giudice del regno dei morti (più tardi gli furono affiancati in tale compito ora Eaco ora Radamanto ora entrambi: comunque il ruolo più importante fu sempre attribuito a Minosse). Virgilio descrive M. che esamina e giudica i morti non lungi dall'ingresso dell'oltretomba (Aen. VI 432-433 " quaesitor Minos urnam movet; ille silentum / conciliumque vocat vitasque et crimina discit "; cfr. Theb. IV 530), mentre Radamanto, fratello di M., è giudice del Tartaro (Aen. VI 566-567 " Cnosius haec Rhadamanthus habet durissima regna / castigatque auditque dolos subigitque fateri ").
D. ha tenuto presenti questi versi e ha unificato nel suo M. (forse sulla scorta di una chiosa errata) quel che Virgilio dice dei due. L'identificazione dell'Averno nell'Inferno operata dalla mentalità medievale non poté non declassare M. da giudice dei morti a giudice dei dannati; di qui la deformazione del M. dantesco che, pur rimanendo strumento della superiore volontà divina in quanto giudice inflessibile e infallibile (If XXIX 120 Minòs, a cui fallar non lece) preposto a cotanto offizio (V 18) e pur conservando perciò un che di maestoso per cui egli troneggia nella grandiosità del quadro, acquista tratti dichiaratamente demoniaci, estranei alla figurazione classica (cfr. tuttavia Theb. VIII 23 " iratusque omnibus umbris "); all'ingresso del secondo cerchio (in quanto le anime del Limbo, prive di colpe, sono sottratte al suo giudizio e alla sua giurisdizione: Pg I 77; cfr. Aen. VI 426-429) stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: / essamina le colpe ne l'intrata; / giudica e manda secondo ch'avvinghia. / Dico che quando l'anima mal nata / li vien dinanzi, tutta si confessa; / e quel conoscitor de le peccata / vede qual loco d'Inferno è da essa; / cignesi con la coda tante volte / quantunque gradi vuol che giù sia messa (If V 4-12): il primo verso (giustamente tra i più famosi della Commedia), chiuso entro i due verbi, pare allargarsi su quel terribile orribilmente (" orribile a vedersi "), che prepara e spiega il successivo mostruoso e minaccioso ringhio, il quale dichiara immediatamente la natura demoniaca e bestiale di quel Minòs che ciascheduno afferra (If XX 36) consegnandolo (cfr. Pg I 77) per l'eternità alla dannazione. In un gesto di rabbia bestiale il giudice infernale è ancora ritratto dal poeta in altro episodio: attorse / otto volte la coda al dosso duro; / e poi che per gran rabbia la si morse / disse: " Ouesti è d'i rei del foco furo " (If XXVII 124-127; nulla aggiunge l'altro accenno in If XIII 96 Minòs la manda a la settima foce).
La natura demoniaca di M. risulta anche dall'avvertimento minaccioso che egli rivolge a D.: sotto forma di consiglio apparentemente ragionevole e giusto (allusivo addirittura a sentenze evangeliche) esso tende in realtà a ravvivare in D. i dubbi che già tanto l'avevano turbato e insinuargli il sospetto verso la guida; ché a M. non sta certo a cuore la salvezza di D. quanto impedire quel fatale andare da cui le potenze del male non potranno avere che danno. I tratti grotteschi (ma - si badi - non comici) della rappresentazione dantesca di M. culminano nel particolare della coda (un'innovazione dell'Alighieri di cui non è facile rendersi ragione, a fronte del virgiliano, e generalmente classico, " urnam movet "), che M. attorce intorno a sé per tanti giri quanti cerchi il colpevole deve scendere nell'abisso: gesto forse di per sé inutile, se la sentenza è pronunciata anche a viva voce (come parrebbe, almeno per la precisazione del girone o della parte del cerchio cui l'anima è destinata: cfr. If XXVII 127). Non sono mancati studiosi moderni che, preoccupati della lunghezza spropositata della coda (i cerchi essendo nove), hanno pensato a un gesto ripetuto più volte, piuttosto che a una successione vera e propria di giri di coda: il che può anche essere; sta di fatto comunque che, mentre anche la coda di M. fa parte di una rappresentazione demoniaca ove la realtà umana è stravolta e contaminata con elementi bestiali, una tale preoccupazione rimase assolutamente sconosciuta agli esegeti più antichi: alcuni dei quali, indicando in M. presunti valori allegorici (la divina giustizia, la coscienza) che ben poco aggiungono alla potente drammaticità della scena dantesca, vogliono che la coda significhi allegoricamente l'ultima parte della vita in cui non è avvenuto quel pentimento che avrebbe salvato il peccatore (l'osservazione potrebbe forse trovare un certo avallo nel morso alla coda per la dannazione di Guido da Montefeltro). Non di maggior momento è la questione che insorge in If XXI 29-45: le anime dei barattieri giungono a destinazione portate da diavoli, mentre la presenza di questi è ignorata nella descrizione del giudizio e le anime dopo la sentenza sono giù volte (cfr. anche If XIII 96).