MINORE ETÀ
. L'età è una delle condizioni che modificano la capacità giuridica, nel senso che chi si trova al di sotto di una certa età, pure essendo soggetto di diritti, non ha la facoltà di esercitarli da solo, cioè non ha la capacità di agire e, pure commettendo atti penalmente illeciti, o non ne risponde, o ne risponde limitatamente.
Vario è il limite e vario è il trattamento giuridico della minore età nei diversi luoghi e tempi.
Nel diritto greco e greco-egizio il termine dell'età minore sembra fissato intorno al 20° anno, ma si può anche dubitare se questo termine, che immetteva nella maggiore età (ἡλικία), fosse un termine fisso. Il minore (ἀϕῆλιξ), contrapposto al maggiore d'età (cioè all'ἐνῆλιξ, era sottoposto a un tutore (ἐπίτροπος, κύριος, κηδεμοών, ϕροντιστής) che ne amministrava i beni.
Nel diritto romano antico, incapace di agire era soltanto l'impubere sui iuris (s'intende maschio, ché la donna sui iuris nel diritto classico era sottoposta a perpetua tutela): l'impubere sui iuris era posto sotto la protezione di un tutore e si diceva pupillo. Ma all'epoca delle guerre puniche cominciò a spuntare una distinzione nell'età pubere. Il crescere dei commerci e il rallentarsi dell'antica fides avevano reso pericolosa la piena capacità concessa ai giovani appena puberi e la lex Plaetoria (anno 192-191 a. C.) minacciò di una pena pubblica colui che nei negozî con un minore di 25 anni l'avesse raggirato abusando della sua inesperienza e introdusse un'actio popularis, cioè esperibile da chiunque. Il pretore, proseguendo l'opera, concesse un'exceptio legis Plaetoriae per respingere l'azione esperita dall'altro contraente, sulla base del danno del minore, senza richiedere in quello l'esistenza del dolo. Così venne a costituirsi questa nuova età dei minores viginti quinque annis: compresa, cioè, tra il 14° e il 25° anno.
Ai minori, che avessero superato i 20 anni, si concesse in seguito d'impetrare dal principe la venia aetatis. Nel diritto giustinianeo questa non si concede se non quando il minore sia di buoni costumi e di regolare condotta; inoltre, ai minori che l'hanno conseguita sono pur sempre vietate le donazioni nonché le alienazioni colpite dalla oratio Severi (Dig., XXVII, 9, de rebus eorum,1); e dalle disposizioni posteriori (Cod., II, 44, de his qui veniam, 2 e 3). L'istituto è analogo alla nostra emancipazione. Ottenuta la venia aetatis, cessavano i privilegi, i quali facevano ai minori una posizione difficile rispetto al credito pubblico.
Nelle origini il curatore doveva essere chiesto dal minore e interveniva in atti isolati, perché fosse impedita quell'impugnativa degli atti stessi che il pretore accordava movendo dalla lex Plaetoria. La riforma di Marco Aurelio, riferita da Capitolino (Vita Marci, 10), sembra essere consistita puramente e semplicemente nell'istituire un curatore stabile, non invocato ad singulas causas: ma con questo il curatore non sarebbe diventato un amministratore, né la capacità del minore sarebbe stata limitata. Il curatore non avrebbe fatto che prestare ai minorenni quell'assistenza di fatto che prestava per l'innanzi. Certo è, a ogni modo, che nella generalità dei casi la cura era pur sempre volontaria, costituita desiderantibus minoribus, e applicata non a tutti, ma a quelli che male amministravano (qui idonee negotia sua tueri non possunt).
L'ordinamento della minore età, in cui il minore di 25 anni, in quanto tale, è incapace di agire, è un innesto greco sul tronco romano dell'età minore. L'assimilazione del curatore al tutore, del minore al pupillo, avviene nel diritto romano postclassico ed emerge nel diritto giustinianeo.
I motivi non sembrano da ricercare in un'evoluzione naturale, bensì nelle influenze esterne (P. Bonfante): fuori del mondo romano la distinzione in due uffici e in due stadî della tutela e della cura, dell'età impubere e dell'età minore, non era compresa (v. cura: Cura minorum).
Anche nel diritto medievale, secondo i luoghi e i tempi, varia il termine in cui finisce la minore età. Finiva a diciotto anni (età in cui il diritto romano considerava raggiunta la plena pubertas) nei territorî bizantini, nell'Italia meridionale, in Sicilia, in Sardegna; a dodici anni finiva presso i Longobardi prima di Liutprando, che la prolungò pure ai diciotto anni: per i Germani in generale valeva il principio che virtus facit legitimam aetatem, quindi cessava l'età minore quando si era ricevuta la solenne vestizione delle armi. Nel determinare il termine della minore età, durante il Medioevo, venne anche seguita una diversa norma per le diverse classi sociali: per i feudi, a cui andò sempre vieppiù congiunto l'obbligo della milizia, si entrava nella maggiore età in un momento diverso da quello in cui si entrava per i rapporti di diritto comune; e, poiché in molti paesi d'Europa ai feudi era inerente la nobiltà, così l'età minore finiva in momento diverso a seconda che uno era, o non era, nobile. Questo diverso trattamento durò in Francia fino al 1780, e, anche fuori della classe dei nobili, il diritto inglese distingueva nuovamente il borghese dal contadino. Gli statuti fissarono varî limiti all'età minore; alcuni tennero fermo il termine di dodici anni; altri fissarono il termine di quattordici o diciotto (Firenze, Lucca, Novara), o venti, o anche venticinque (Milano e Friuli). I giuristi successivamente distinsero due periodi: un periodo che si conchiude al diciottesimo anno e un periodo che sta tra i diciotto e i venticinque anni: in questo periodo si otteneva la piena amministrazione e libera disposizione dei beni, con l'assistenza però dei parenti o del giudice. E così si distinse nuovamente tra pubertà (o, meglio, tra plena pubertas) e maggiore età. L'età minore dava privilegi: rescissione del negozio in favore del minore se risultava immodice laesus, franchigia delle spese dei giudizî accordata commiserationis causa, inappellabilità delle sentenze nelle cause dei minori, privilegio della declinatoria del foro, divieto di fare valere contro essi le lunghe prescrizioni, esenzione dal dolo presunto, dall'essere teste, ecc. L'età immatura attenuava anche, o addirittura toglieva, le conseguenze penali.
Nel diritto romano, imputabile non era l'infante, cioè colui qui fari non poterat, secondo il concetto classico dell'infantia, o che era minor septem annis secondo il concetto dell'infantia giustinianeo. Nell'antico diritto romano, invece, l'impubere che avesse superata l'età dell'infanzia era imputabile per quegli atti che la giurisprudenza classica tecnicamente chiamava delicta (atti illeciti penali generatori di obligatio, riconosciuti nell'ambito del ius civile), e così per il furto e il danneggiamento (Dig., IX, 2, ad l. aquiliam, 5, 2; Dig., XLIV, 7, de oblig. et action., 46): non imputabile era per gli atti illeciti penali disciplinati dal ius honorarium o dal ius publicum. La distinzione, a prima vista sorprendente, è storicamente apprezzabile ove si consideri che la regolamentazione giuridica dei varî atti illeciti non è contemporanea, ma successiva, e più antica per i delicta che non per gli altri atti illeciti penali. Nel sec. II dell'impero, però, sembrerebbe che la giurisprudenza disciplinasse uniformemente l'imputabilità dell'impubere, prescindendo dalla considerazione se l'illecito penale cadesse nell'ambito del ius civile o del ius honorarium o del ius publicum e cominciando a considerare invece se l'impubere fosse proximus pubertati o proximus infanti: sarebbe stato penalmente responsabile nel primo caso, e non nel secondo.
Ma, se si tratti qui di un nuovo orientamento giurisprudenziale, dovuto al grande Giuliano, oppure di un'innovazione del diritto postclassico giustinianeo, è controverso: vi ha chi sostiene che questo regime giuridico nuovo, come del resto la sua stessa base, cioè la distinzione dell'età impubere, oltre l'infanzia, in due distinte fasi (proximus pubertati e proximus infanti) non risalgano, se non per alterazione dei testi, al diritto classico di Roma. Per gli impuberes proximi pubertati, tuttavia, e per i minores viginti quinque annis, suole avere luogo la miseratio aetatis, per cui si attenua la pena: solamente in certi generi di reati tale mitigazione non ha luogo, sicché "fere in omnibus poenalibus iudiciis... aetati... succurritur" (Dig., L, 17, de dir. reg. i. a., 108; cfr. anche Dig., IV, 4, de minoribus v. q. a., 36, 1).
Nei diritti dei popoli barbarici dell'alto Medioevo l'età, per quanto immatura, non valeva a escludere la responsabilità penale, sia che si trattasse di pena pecuniaria, sia che si trattasse anche (come sembra) di pena corporale. Ma i diversi principî del diritto romano ultimo e i principî che professava la Chiesa, incominciarono presto a esercitare la loro benefica influenza. Così alcune leggi ammisero l'irresponsabilità penale di chi si trovava sotto i dieci anni, altre di chi si trovava sotto i dodici: altre rimettevano al perito di giudicare di volta in volta l'irresponsabilità del fanciullo sotto i quattordici anni. Nondimeno le tracce delle antiche costumanze germaniche non scomparvero interamente: in via eccezionale anche chi si trovava sotto quei limiti di età era punito, non però con pena corporale, per i delitti più gravi.
Oltre quei limiti che chiudevano la cosiddetta infanzia penale, a cui andava congiunta generalmente l'irresponsabilità penale, stava la cosiddetta minore età penale, che aveva anch'essa limiti varî, facendola le varie leggi variamente oscillare dal tredicesimo al venticinquesimo anno. Entro questo periodo si aveva una mitigazione della pena: almeno in molti casi e per molti delitti. La varietà delle dottrine dei giureconsulti, a proposito del regime della minore età penale, non poteva non tradursi in una grande varietà di disciplina legislativa.
Quanto al regime giuridico della minore età nel diritto nostro, v. per ciò che attiene alla capacità giuridica nel diritto privato e pubblico le voci: capacità giuridica; cura: La cura dei minori emancipati; tutela; per ciò che attiene alla responsabilità penale, la voce reato: Reato circostanziato. Sul problema medico-sociale della delinquenza dei fanciulli e degli adolescenti, v. infanzia: Delinquenza infantile.
Bibl.: L. Mitteis, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, I, Lipsia 1912, p. 248 segg.; P. Bonfante, Corso di diritto romano, Roma 1905, I, p. 403 segg., e biblografia ivi citata; C. Ferrini, Diritto penale romano, Milano 1899, p. 128 segg.; C. Tumedei, Distinzioni postclassiche riguardo all'età, Bologna 1922; E. Albertario, Studi di diritto romano, I, Milano 1933, p. 79 segg.; A. Pertile, Storia del diritto italiano, III, 2ª ed., Torino 1894, p. 244 segg.; V, 2ª ed., Torino 1892, p. 136 segg.; G. Salvioli, Storia del diritto italiano, 9ª ed., Torino 1930, pp. 342-43, e bibliografia ivi citata.
Corruzione dei minorenni.
Tutte le legislazioni moderne, nel regolare le norme intorno ai delitti contro il buon costume e l'ordine delle famiglie, sono d'accordo nel ritenere che vi è un'età nella quale, pur non essendo completamente manchevole la capacità del consenso, questo è, per ragioni fisiologiche e psichiche evidenti, sempre necessariamente viziato.
Rientra, quindi, nei compiti della tutela giuridica data dalla legge penale e costituisce insieme una necessità della morale sociale la repressione di tutti quegli atti lascivi che abbiano la potenzialità d'intaccare il senso morale, l'ingenuità e l'inesperienza di chi, ancora giovanissimo, non può avere cognizione e comprensione sicura dei limiti del bene e del male, del lecito e dell'illecito, in un campo estremamente delicato come quello sessuale. La tutela che dà il legislatore penale ha, certamente, dei limiti insopprimibili nelle finalità e nella natura stessa del magistero punitivo, e s'ispira alle necessarie differenze tra le zone del semplice illecito morale e quelle dell'illecito giuridico che forma materia d'incriminazione.
Nel codice penale vigente il delitto di corruzione di minorenni è così formulato nell'art. 530: "Chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli 519, 520 e 521, commette atti di libidine su persona o in presenza di persona minore degli anni sedici, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Alla stessa pena soggiace chi induce persona minore degli anni sedici a commettere atti di libidine su sé stesso, sulla persona del colpevole o su altri. La punibilità è esclusa se il minore è persona già moralmente corrotta".
Si può, in sintesi, affermare che il delitto di corruzione di minorenni sorge per differenza dal delitto di violenza carnale e di atti di libidine violenti. Il delitto di violenza carnale ha come suo presupposto la violenza o la minaccia effettiva o presunta, fissandosi per quest'ultima il limite di anni quattordici non compiuti o di anni sedici non compiuti, quando il colpevole è l'ascendente, il tutore, ovvero altra persona a cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, istruzione, vigilanza e custodia; configurandosi inoltre le altre due ipotesi di violenza presunta di cui ai numeri 3 e 4 dell'art. 519. Il delitto di atti di libidine violenti, salvo l'assenza del fine del congiungimento carnale, che costituisce l'elemento distintivo tra le due figure di reato, presenta gli stessi estremi del delitto di violenza carnale. Quando nessuna violenza, né effettiva, né presunta, si sia verificata, e ci si trovi di fronte a un soggetto passivo minore degli anni sedici, ha luogo la figura di reato prevista e punita dall'art. 530. Gli elementi costitutivi di questo delitto sono quattro: 1. un soggetto passivo, minore degli anni sedici; 2. atti di libidine sulla sua persona, o in sua presenza, o che il minore sia stato indotto a compiere su sé stesso, sulla persona del colpevole, o su altri; 3. conseguente perturbamento del senso morale del minore; 4. dolo nell'agente, inteso non nel significato di una specifica intenzione di corrompere il minore, ma in quello di avere compiuto scientemente gli atti libidinosi o avere consentito e voluto che si compiessero, con tutte le conseguenze deleterie di indole morale che si riallacciano all'obbiettività di tali atti in relazione alle speciali condizioni fisiologiche e psichiche del soggetto passivo. Data l'intrinseca attitudine corrompitrice degli atti di libidine, chi li ha voluti, ha voluto anche l'effetto inerente a essi. Certo, si deve trattare di atti che possano, per così dire, immettere nel minore uno stimolo libidinoso vero e proprio, conturbante i sensi e lo spirito in maniera univoca e sicuramente valutabile: un semplice discorso, la lettura, la mostra di un quadro, anche se di carattere licenzioso, pure essendo fatti moralmente deplorevoli, non costituiscono atti di libidine nel senso determinato dalla legge, oltreché nel senso comune dell'espressione.
La legge dice atti di libidine, per indicare le loro diverse qualità; ma per aversi il reato basta anche un atto solo: per ciò si può configurare il reato continuato. Il tentativo non è giuridicamente configurabile, perché la corruzione non costituisce un evento materiale, ma essenzialmente un'alterazione morale. Il reato si esaurisce in un unico contesto di fatto con l'effetto della corruzione.
Una questione che, durante l'impero del codice abrogato, tenne aperta viva disputa nella dottrina e nella giurisprudenza, fu quella se il congiungimento carnale si potesse e si dovesse considerare atto di libidine a sensi dell'art. 335 del suddetto codice. Con il codice vigente la questione si deve ritenere decisa nel senso affermativo.
Che cosa si debba intendere per corruzione, ai sensi e per gli effetti dell'art. 530, non è difficile enunciare. Il minore è corrotto quando in lui, che non è capace di tutto valutare e di resistere pienamente, attraverso le pratiche lascive di cui ha avuto diretta o indiretta esperienza, si siano destati impulsi di concupiscenza non ancora, per avventura, completamente e consapevolmente delineati e sorti nella sfera della propria sensibilità, con le comprensibili conseguenze deleterie di natura morale. La corruzione, alla quale viene condotto il minore, deve essere essenzialmente intesa come alterazione della coscienza morale attraverso il turbamento dei sensi.
Un'altra questione, che pure venne agitata nell'interpretazione dell'art. 335 del codice abrogato, fu quella relativa al minore già corrotto. Il vigente codice detta, nella disposizione di cui all'ultimo cap. dell'articolo 530, una regola precisa in proposito: "La punibilità è esclusa se il minore è persona già moralmente corrotta".
Relativamente, infine, alla scienza dell'età, è certo, per i principî generali sulla volontarietà, che, per aversi il reato, l'agente deve avere avuto conoscenza dell'età del minore; ma anche il dubbio e il mancato accertamento dell'età, insieme con ragionevoli presunzioni, si devono reputare equivalere alla scienza dell'età medesima. L'art. 539 cod. pen. (disposizione comune per i delitti contro la moralità pubblica e il buon costume), in cui, in deroga dei principî generali, è sancito che non si può invocare a propria scusa l'ignoranza dell'età dell'offeso, riguarda solo i minori degli anni quattordici, e, quindi, non rientra nei limiti obiettivi del reato in esame.
Bibl.: L. Maino, Commento al cod. pen., 3ª ed., Torino 1911; V. Manzini, Trattato di diritto penale, Torino 1908-1919, VI, 548 e 561; B. Alimena, Principi di diritto penale, Napoli 1910-12; C. Saltelli, E. Romano-di Falco, Commento teorico-pratico del nuovo codice penale, Roma 1931, II, pp. 772-885.