Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Da problema legato generalmente alla differenziazione religiosa, la questione delle minoranze si è trasformata, con l’affermazione degli Stati nazionali, in una questione di gruppi di persone che vogliono o non riescono a identificarsi con lo Stato o che da questo sono oppresse, si sentono emarginate o non sufficientemente rappresentate. La garanzia di ampie autonomie sembra presentarsi come l’unica strada percorribile, mentre l’indipendenza degli Stati non sembra risolvere le carenze di diritti umani, le difficoltà di convivenza, i conflitti e le rivendicazioni fatte in nome di appartenenze collettive.
Il concetto di minoranza compare nel mondo occidentale a partire dal Medioevo. Si tratta, agli inizi, di materia di stampo religioso, ma Minderheit (minoranza nazionale) non significa Minderwertigkeit (sentimento di inferiorità), ossia minoranza non si rifà a minori diritti e non allude a qualità inferiori. Con l’avvento dello Stato-nazione, alla differenziazione religiosa si lega la questione delle minoranze etniche e nazionali: gruppi di persone che non vogliono o non riescono a identificarsi con lo Stato nazionale o che da questo non si sentono rappresentate. Si inizia a parlare di regioni demograficamente pure, da redimere in quanto irredente. L’irredentismo dapprima è un moto italiano, promosso da chi auspica l’unione delle genti italiane dell’Impero asburgico al Regno d’Italia. L’Austria-Ungheria è un impero multinazionale e deve fronteggiare irredentismi di varia origine: quello serbo, in particolare, è la causa scatenante della prima guerra mondiale, alla fine della quale si ha l’esplosione del problema delle minoranze. Nascono nuovi Stati nazionali che recriminano per le proprie genti rimaste fuori dai nuovi confini, ma che non sono disposti a riconoscere le minoranze etniche al proprio interno. Alcuni governi tentano un assorbimento graduale, altri l’assimilazione forzata e sistematica, altri ancora attuano progetti di eliminazione (come nel caso delle nazionalità di frontiera dell’URSS) o di espulsione forzata (come nel caso greco-turco). Nei nuovi Stati plurinazionali accanto al gruppo maggioritario vi sono gruppi minoritari, diversi per lingua, cultura e religione: nuove minoranze si ritrovano prigioniere dalla parte sbagliata della frontiera, i Tedeschi nei Sudeti divenuti cecoslovacchi e nel Sudtirolo divenuto italiano, gli Ungheresi della Transilvania e del Banato spartiti tra Rumeni e Jugoslavi. Le conseguenze più drammatiche si hanno dove nazionalità dominante e minoranza appartengono a eredità culturali differenti. Fenomeni di assimilazione forzata caratterizzano anche l’Asia centrale e il Caucaso orientale, dove popolazioni d’origine turca legate all’islam vengono unite alla Russia prima slava e poi sovietica.
Assillati dall’esigenza d’unità nazionale, i nuovi governanti trovano difficile tollerare minoranze, poiché tali gruppi sembrano indebolire la sovranità del loro nuovo Paese: il conflitto diviene lo scontro fra “nazione-Stato” e “minoranza-identità”. Le tradizioni delle minoranze sono considerate sgradevoli e pericolose. I tentativi di sterminio e le espulsioni forzate diventano prassi durante e dopo la seconda guerra mondiale, il problema si estende al resto del mondo e nel 1966 l’Assemblea dell’ONU deve affermare che “nei Paesi in cui esistono minoranze etniche religiose e linguistiche, le persone appartenenti a queste minoranze non possono essere private del diritto d’avere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la propria vita culturale, di professare e praticare la propria religione o di usare la propria lingua”. Nonostante ciò negli ultimi decenni del XX secolo alcune minoranze, anche in Europa occidentale, mostrano segni di forte insoddisfazione (baschi, catalani, corsi); la divisione di Stati plurietnici quali l’URSS, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia propone intanto nuove minoranze da soddisfare.
Problemi di stabilità, reali o fittizi, sono una caratteristica degli Stati con religioni differenti, dato che la religione ha forte peso per la costruzione delle identità, anche etniche, delle minoranze, alimentando convinzioni e sentimenti di fedeltà verso valori tradizionalmente riconosciuti. I capi religiosi si sono spesso dimostrati in grado di tenere testa ai funzionari governativi. I terribili eventi della Shoah, i drammi jugoslavi di fine Novecento, la soppressione delle Chiese cattoliche di rito orientale in Russia e Romania, le questioni dell’Ulster, dell’Armenia, dell’Azerbaigian, dell’Ucraina e degli Stati baltici, non sono che gli echi di lungo periodo delle scomode e molteplici problematiche che le minoranze hanno dovuto fronteggiare. Il problema è ancora vivo a più di mezzo secolo di distanza e rischia d’esasperarsi, sempre più presente perché riguarda tanto l’organizzazione della vita sociale e civile all’interno di ciascun Paese, quanto la vita della comunità internazionale. A oggi conosciamo circa 3600 nazionalità e altre minoranze in tutto il mondo, dislocate all’interno di 200 Paesi, nessuno di questi puro per lingua, cultura o religione.
In assenza di un sistema d’autogoverno costituzionalmente regolato, la garanzia dei soli diritti di cittadinanza individuali si rivela insufficiente a proteggere le minoranze. Gli accordi internazionali di garanzia spesso non sono trasferiti alla pratica legislativa e ai codici dello Stato, la loro implementazione nella pratica quotidiana è insufficiente, spesso contraddetta dalle ordinanze e dalle direttive locali, spesso sconfessata da tentativi di assimilazione palesi o nascosti. Alla discriminazione legale si aggiunge la discriminazione economica (fisco e credito iniquo, mancata distribuzione dei benefici della crescita economica, danneggiamento in caso di riforme agrarie) e quella professionale (impiego di lavoratori di preferenza della maggioranza, scolarizzazione non garantita, ascesa sociale ostacolata, epurazioni). La colonizzazione selvaggia dei territori abitati dalle minoranze porta a emigrazione, riduzione del tasso di natalità, decremento della popolazione minoritaria, tensioni sociali e impoverimento economico. In alcuni casi, come per i territori della frontiera sovietica prima della seconda guerra mondiale, si blocca la strada verso la stessa sopravvivenza.
In ambito culturale la discriminazione verso le minoranze assume le forme del boicottaggio della lingua, dell’abolizione della stampa minoritaria, della diminuzione delle istituzioni formative, della sospensione dei sussidi alle strutture educative, dell’introduzione dell’istruzione bilingue in sostituzione di quella nella madrelingua della minoranza, spesso sfociante nell’imposizione dell’istruzione nella lingua ufficiale dello Stato. Si aggiungano i salari più alti per i funzionari e gli insegnanti immigrati dalla zona maggioritaria del Paese, il trasferimento degli intellettuali della minoranza nella zona della maggioranza, la sostituzione dei capi delle istituzioni culturali ed educative e l’utilizzo del numero chiuso per le ammissioni alle università. A meno che non abbiano organizzazioni culturali e sociali comunitarie molto forti che possano controbilanciare quelle della maggioranza, i gruppi minoritari si trovano in una situazione di palese svantaggio. Il passaggio da una sovranità all’altra è un momento chiave: la discriminazione politica si palesa in cancellazione della cittadinanza, riorganizzazione amministrativa, rimozione dei funzionari pubblici, restrizione del diritto di voto. Se il passaggio di sovranità si ha in seguito a una guerra, il livello di violenza e di radicalità delle misure è più alto, fino ad arrivare all’adozione di misure estreme, come il tentativo di genocidio (degli Armeni nell’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale o, nella seconda guerra mondiale, di ebrei e zingari nella Germania nazista) o l’espulsione forzata (come i 12 milioni di tedeschi dall’Europa centro-orientale). Manipolare le votazioni in favore della maggioranza etnica, cui vanno assegnati i posti di funzionari legislativi nelle aree di minoranza, garantire alle unità amministrative locali autorità e sussidi minimi, rendere la vita dei partiti politici della minoranza impossibile e intimidire la minoranza con arresti e accuse di vario genere sono tutte pratiche assai diffuse nel corso del XX secolo; censimenti fraudolenti, trasferimenti di massa di abitanti della maggioranza nelle zone di confine, deportazione di quelli della minoranza, proibizione dell’uso dei nomi delle persone e delle comunità e loro modifica ne sono stati spesso il triste corollario. Gli individui sottoposti all’assimilazione, esiliati dal gruppo che ne rappresentava l’originaria identità linguistico-culturale e religioso-morale, rispetto alla popolazione media denotano una più larga incidenza di difficoltà d’adattamento, svantaggi economici, scarsi risultati scolastici, disoccupazione, alcolismo, suicidi e crimine: cosa che comporta tensioni sociali e richiede l’istituzione di una rete di organizzazioni, con costi sociali enormi, e senza garanzie di successo nel fronteggiare i problemi generati.
Attualmente possiamo assistere a numerosi approcci alla questione delle minoranze nell’Europa occidentale. La rappresentanza nei Parlamenti, come emerge dai casi legati a Corsica, Sudtirolo e all’intera Gran Bretagna, è garanzia insufficiente: testimonianze migliori provengono dal sistema d’autogoverno locale. In aree a popolazione mista può servire da esempio la scelta finlandese: gli insediamenti in Finlandia sono divisi su base linguistica. Un insediamento è bilingue, finnico e svedese, nel caso in cui uno dei gruppi linguistici raggiunga l’8 percento della popolazione o un numero superiore alle 8000 unità. Se in una contea c’è un insediamento bilingue, l’intera contea è considerata tale. La proporzione tra i gruppi linguistici è determinata in base a un censimento decennale in cui ogni cittadino può dichiarare la propria preferenza linguistica. In Finlandia gli Svedesi hanno un’università autonoma, nonostante siano solo il 6 percento della popolazione. Gli Islandesi sono diventati ufficialmente indipendenti dalla Danimarca nel 1944, dopo aver ottenuto l’autogoverno nel 1918; le Isole Faerøer hanno ottenuto l’autogoverno nel 1948 e la Groenlandia nel 1979; la Groenlandia attuale è tanto indipendente da poter istituire nel 1985 un proprio referendum per decidere di ritirare la propria adesione alla CEE. L’autonomia territoriale del Sudtirolo è garantita da accordi internazionali intercorsi tra Italia e Austria; la Valle d’Aosta è un territorio autonomo di lingua francese. I 200 mila romanci svizzeri finanziano la propria cultura grazie ad un fondo predisposto dai membri della Confederazione Elvetica e dal 1996 tutte le decisioni parlamentari e governative devono essere pubblicate anche in romancio. In Belgio Fiamminghi e Valloni godono di autonomia territoriale e anche la minoranza tedesca ha i propri ministri. In Francia, l’Alsazia Lorena utilizza un sistema legale differente da quello francese; la Corsica gode di una parziale autonomia, anche se al momento Parigi non distingue tra cittadinanza e nazionalità. In Spagna la Costituzione del 1987 ha suddiviso lo Stato in 17 parti autonome all’interno delle quali le minoranze hanno uno status ufficiale; dal 1994 il catalano, il basco e il galiziano possono essere utilizzati in parlamento. Nei Paesi Bassi i Frisoni godono d’autonomia culturale. In Slovenia la stessa cosa è concessa a Italiani e Ungheresi. In Ungheria c’è una legge del 1993 che garantisce diritti collettivi per le minoranze in pericolo. La pulizia etnica nell’ex Jugoslavia ha comportato che 2 milioni di persone abbandonassero le proprie terre natie. Gli eventi susseguenti alla fine dell’era sovietica hanno portato all’esistenza di 25 milioni di Russi, sparpagliati in differenti Paesi, che ora vivono nella condizione di minoranza. Fuori dall’Europa, limitandoci ai casi più conosciuti, il destino di 20 milioni di curdi è ancora irrisolto, così come quello di un milione di tibetani.
Il XX secolo insegna che guardare ai diritti individuali e collettivi delle minoranze etniche e nazionali come a una parte dei generali diritti umani, come a libertà fondamentali, può garantirne la coesistenza pacifica, a tutto vantaggio della sicurezza interna e internazionale.