MINORANZE NAZIONALI (XXIII, p. 404)
NAZIONALI Il sistema della protezione internazionale delle minoranze, così come era previsto dai varî accordi speciali richiamati dai trattati di pace che conclusero la prima Guerra mondiale, fu ben lungi dall'assolvere ll compito di pacificazione cui era diretto. Di fronte alla tendenza dello stato a svolgere una politica di coesione nazionale, compito naturale della tutela internazionale delle minoranze era quello di attenuare i riflessi di questa politica e segnare ad essa dei limiti, soggetti al controllo della S. d. N., e rappresentati dai diritti fondamentali dei cittadini (libertà di lingua, di religione, di stampa, di associazione e di riunione, ecc.), nei cui confronti non doveva essere applicata alcuna discriminazione. Sennonché, nel dare la possibilità ai cittadini minoritarî di far giungere le loro lagnanze sino ad un foro internazionale come la Società delle Nazioni, si era conferito ad essi una posizione di privilegio rispetto agli altri cittadini, mentre era fortemente diminuito il prestigio dello stato e, localmente, dei suoi organi amministrativi, soggetti a controllo internazionale. Di qui i governi erano indotti a fornire risposte evasive o a non rispondere affatto, per modo che le questioni sollevate, anche se in sé non potevano dirsi esaurite, il più delle volte venivano dichiarate chiuse, senza che i cittadini minoritarî, terminata l'ultima fase della procedura, potessero replicare o tanto meno entrare in discussione col governo. Unico vantaggio rimaneva quello di aver evitato la procedura di accusa da parte di terzi stati, per lo più confinanti, cosa che avrebbe potuto portare a gravi perturbamenti internazionali.
Pesante in ogni caso per i governi, il sistema era addirittura inadeguato alla tutela dei diritti delle singole minoranze. Il suo difetto fondamentale consisteva nel fatto che dalle petizioni inviate alla S. d. N. emergevano soltanto questioni particolari, di singoli cittadini o gruppi esigui, con scarso o nullo contenuto politico; restavano invece in ombra problemi di minoranze intere. Originato infatti da una concezione della vita sociale sostanzialmente liberale, il sistema di protezione internazionale non considerava le minoranze come corpo, ma come singoli individui. Col prender piede poi delle dottrine affermanti una sovranità assoluta dello stato, era inevitabile che non si ponesse limite alcuno all'attività assimilatrice e livellatrice delle autorità statali nei confronti delle minoranze.
In queste condizioni di inefficienza del sistema e di insofferenza da parte dei varî stati di vincoli nella loro azione di politica interna, era naturale che il sistema non venisse osservato e crollasse.
Il primo colpo venne dalla Germania, che dal giorno della sua uscita dalla Società delle Nazioni (ottobre 1933) si rifiutò di rispondere alle domande del Segretariato circa le minoranze dell'Alta Slesia. Ad essa fece seguito la Polonia, per la quale al numero più cospicuo di minoranze corrispondeva un più notevole intralcio alla politica di coesione nazionale, tanto più che i trattati di pace non avevano garantito una tutela internazionale anche alla cospicua minoranza polacca dislocata in Germania, fuori dell'Alta Slesia. Il 13 settembre 1934 il col. J. Beck, ministro degli Esteri polacco, dichiarava che, in attesa dell'entrata in vigore di un sistema generale e uniforme di protezione, il suo governo si sentiva "costretto a rifiutare in futuro ogni collaborazione con gli organi internazionali per quanto riguarda il controllo sull'applicazione da parte della Polonia del sistema di protezione delle minoranze".
Due ordini di tendenze si erano intanto profilati per modificare la situazione venutasi a formare dopo la prima Guerra mondiale: da una parte, la tendenza a generalizzare il sistema di protezione, in modo da togliergli il carattere discriminatorio nei confronti di taluni stati soltanto; dall'altra, la tendenza a risolvere il problema mediante accordi bilaterali anche non formali (di cui vi era un precedente nel trattato di Brno del 7 giugno 1920 fra Austria e Cecoslovacchia) o coll'eliminarne i presupposti materiali, cioè riunendo le singole minoranze allo stato d'appartenenza nazionale, senza spostare i confini, quando non s'intese ricorrere al solito espediente della guerra con le conseguenti modificazioni territoriali o addirittura al criminoso tentativo di sterminio d'un intero popolo (il cosiddetto "genocidio"; v. appresso, per la sua definizione).
La prima tendenza non ebbe alcuna attuazione, nonostante gli sforzi fatti da taluni stati e, da ultimo, dalla XV assemblea della Società delle Nazioni, nel 1934. Viceversa, la tendenza alla soluzione radicale del problema ebbe pratica attuazione sia col metodo dello scambio reciproco di popolazioni, sull'esempio avutosi dopo la prima Guerra mondiale nei rapporti tra Grecia e Turchia e tra Grecia e Bulgaria, sia col metodo del trasferimento puro e semplice, cioè del richiamo obbligatorio dei gruppi etnici nello stato di origine. Questi metodi furono adottati non solo da stati a governo totalitario o a interessi nazionali nettamente contrapposti, ma anche nei rapporti tra stati non trovantisi reciprocamente in tali condizioni, e sono riusciti in qualche caso ad eliminare per sempre gravi motivi di controversie internazionali; ma sono stati applicati spesso con brutalità eccessiva, anche quando non è giunta allo sterminio di un intero gruppo etnico.
Germania e Polonia, in condizione di perfetta reciprocità rispetto al comune problema (oltre un milione di Tedeschi in Polonia; circa 800.000 Polacchi in Germania), il 5 novembre 1937 resero nota, alle rispettive minoranze tedesca e polacca, una identica dichiarazione sui principi cui si sarebbe ispirata la loro politica minoritaria "nell'ambito della propria sovranità. Questa fu però una semplice battuta d'arresto. Era infatti omiai giunto a maturazione, per la politica hitleriana, il momento di tradurre in pratica il programma di riunire su territorio germanico tutti gli uomini di sangue tedesco (Blut und Boden), popolo eletto a dominare su uno "spazio vitale" (Lebensraum) da organizzare secondo le proprie esigenze. Da quel momento, fra la fine del 1937 e gli inizî del 1938, prende piede in Europa, soprattutto per iniziativa tedesca, un'artificiosa esasperazione dei problemi minoritarî. A parte l'Anschluss con l'Austria, l'esistenza all'estero di minoranze tedesche diede occasione a Hitler di porre e poi soddisfare quelle precise rivendicazioni territoriali (zona dei Sudeti, Corridoio polacco e Posnania, Memel), che passo passo condussero a successive annessioni - zona dei Sudeti, a Monaco, nel settembre del 1938; Memel il 23 marzo 1939 - e quindi, di fronte all'irrigidimento polacco, alla guerra e alla spartizione della Polonia. Dall'esistenza di minoranze polacche e ungheresi, rispettivamente nel territorio di Cieszyn e nella zona meridionale della Russia subcarpatica, Polonia e Ungheria trassero motivo per occupare, dopo Monaco, le due regioni. Scoppiato il conflitto mondiale, che ebbe nei complessi problemi minoritarî lasciati aperti a Versailles ampio incentivo occasionale, Hitler si dispose a dare all'Europa una sistemazione che eliminasse i conflitti di minoranze sia nell'interno dello "spazio vitale", sia con la zona d'influenza sovietica. Nel suo discorso al Reichstag del 6 ottobre 1939 egli prospettò come programma "la sistemazione di tutto lo spazio vitale in base alle nazionalità, la soluzione cioè di tutti quei problemi delle minoranze che non toccano soltanto questo spazio, ma riguardano anche quasi tutti gli stati meridionali e sud-orientali d'Europa". Un protocollo segreto, annesso al trattato di amicizia del 28 settembre 1939, stabiliva tra Germania e Unione sovietica reciproci scambî di popolazione tra le rispettive zone d'influenza. Così, a seguito degli accordi con l'Estonia 15 ottobre 1939) e con la Lettonia (30 ottobre 1939), venivano accolti nelle nuove frontiere del Reich circa 12.100 Balto-tedeschi dell'Estonia e circa 50.000 della Lettonia, mentre dopo l'annessione delle repubbliche baltiche all'URSS un ulteriore accordo russo-tedesco (Riga, 10 gennaio 1941) stabiliva il trasferimento dai due paesi di altri 16.244 Tedeschi; per la Lituania (accordo di Kaunas, del 10 gennaio 1940) venivano scambiati 50.904 Tedeschi contro 9000 Russi di Memel e Suwalki, annesse alla Germania e, dopo il luglio 1941, 33.600 Tedeschi vennero fatti affluire nel paese occupato dalla Germania e poi si ritirarono insieme alle truppe del Reich.
In seguito agli accordi italo-tedeschi del 21 ottobre 1939 sul trasferimento in Germania degli allogeni dell'Alto Adige, su 179.503 optanti per la Germania 72.749 si erano effettivamente trasferiti al termine ultimo del 31 dicembre 1942 (v. alto adige, in questa App.). Va anche ricordato l'accordo italo-iugoslavo del 1° marzo 1939 per il trasferimento in Italia di oriundi italiani (poche centinaia) della zona di Mahovljani (Banja Luka).
Il 3 novembre 1939 tra Russia e Germania venne concluso un accordo per il trasferimento nel Reich di 128.000 Tedeschi della Galizia, della Volinia e del territorio di Narew, annesse all'URSS, contro il trasferimento a quest'ultima di circa 40-50.000 Ucraini, Biancorussi e Russi, originarî dei territori polacchi annessi alla Germania. Contemporaneamente, il processo di revisione dello statuto territoriale sulla base di argomentazioni minoritarie si trasferiva all'Europa sud-orientale. Nonostante che il 4 agosto 1938 la Romania avesse dato vita a un nuovo e più liberale regime minoritario, essa non poté sottrarsi alla spinta revisionistica generale. Il 28 giugno 1940, sempre con l'argomento dell'esistenza sia in Bessarabia sia nella Bucovina settentrionale di cospicue minoranze ucraine, l'Unione sovietica otteneva dalla Romania la cessione delle due regioni. Immediatamente si iniziavano le trattative per il trasferimento nel Reich della minoranza tedesca: in base all'accordo del 5 settembre 1940, 137.116 Tedeschi complessivamente si trasferirono nei territorî ex-polacchi e nella Prussia orientale. Così 17.600 Ungheresi oriundi delle due regioni venivano trasferiti in Ungheria nell'ottobre del 1941. Il 30 agosto 1940 trovavano soddisfazione le rivendicazioni ungheresi sulla Transilvania appoggiate da motivi minoritarî (arbitrato italo-tedesco di Vienna) e 160.000 Ungheresi venivano scambiati con 218.000 Romeni. Poco dopo, il 7 settembre 1940, la Romania doveva cedere alla Bulgaria la Dobrugia meridionale mentre, in applicazione dell'accordo di cessione, 62.000 Bulgari venivano scambiati con 110.000 Romeni. (Già il 4 settembre 1936 una convenzione turco-romena aveva stabilito il trasferimento dei 117.000 Turchi della regione; di essi ne emigrarono in Turchia 52.000). Il 31 agosto 1941 un accordo italo-tedesco sanciva il trasferimento facoltativo dei Tedeschi dalla provincia di Lubiana (circa 14.800). Il 12 novembre 1941 un accordo tedesco-croato stabiliva il trasferimento in Croazia di 34.000 cittadini austriaci di stirpe croata della Stiria. Il 30 settembre 1942, altro accordo per il trasferimento di 18.302 Tedeschi dalla Bosnia; il 22 gennaio 1943, quello per i 5000 Tedeschi dalla Bulgaria; nel 1944 la Svezia si accordava con la Germania per il trasferimento di 5000 Svedesi dall'Estonia.
Nella seconda metà del 1943 si iniziò, con la progressiva ritirata germanica dall'URSS, il trasferimento in massa di Volksdeutsche dai territorî sovietici del Mar Nero. Insieme ai 25.000 trasferiti dalle zone settentrionali nel 1942 e agli inizî del 1943, ad oltre 350.000 ammontano i Tedeschi (discendenti dai coloni chiamati in Russia da Caterina II) che lasciarono tali zone e le regioni intorno al Mar Nero, dirigendosi verso la Posnania.
Il ritiro dei Tedeschi non fu però ovunque compiuto, perché in determinati stati facenti parte dello spazio vitale tedesco (Ungheria, Romania, Protettorato di Boemia e Moravia, ecc.) la Germania intese che tali minoranze rimanessero a perpetuarvi l'influenza tedesca, protette da speciali garanzie. I Tedeschi non mancarono, nemmeno, di sollevare o risvegliare anche movimenti nazionalistici nei paesi occupati: in Francia essi diedero aiuti al movimento per l'indipendenza brettone (tuttora in vita); in Belgio, al nazionalismo fiammingo; dopo l'8 settembre 1943, infine, nella Venezia Giulia, essi favorirono piuttosto l'elemento slavo che non quello italiano, accentuando così la crisi dell'italianità nella regione.
Dopo la pace russo-finnica del 12 marzo 1940, circa 420.000 Finnici dei territorî ceduti della Carelia optarono per la Finlandia e vi si trasferirono; 310.000 tornarono di nuovo fra il '42 e l'aprile del 1944 nei territorî riconquistati e si ritirarono nuovamente dopo la riannessione della Carelia da parte dell'URSS.
Assai rigida fu l'occupazione bulgara della Tracia occidentale e della Macedonia egea. A parte le pressioni dirette e indirette per far accettare la cittadinanza bulgara, a oltre 300.000 - secondo fonti turche - sembra ammontare il numero dei Greci deportati in Bulgaria o espulsi in altre parti della Grecia, e 122.000 furono i coloni bulgari inviati nelle provincie egee. Una analoga politica di colonizzazione venne fatta nella Macedonia appartenente alla Iugoslavia. Con la sconfitta della Bulgaria e il suo rientro nei primitivi confini, queste spinte colonizzatrici vennero fatte rientrare.
Il problema delle minoranze nazionali era così aspro e vivo, tale da condizionare lo stesso sviluppo pacifico della convivenza internazionale, che lo stesso pontefice Pio XII, nel suo discorso natalizio del 24 dicembre 1939, lormulò la necessità di tener conto delle giuste richieste delle minoranze etniche, perché si venisse loro incontro in via pacifica e, se necessario, con la stessa revisione dei trattati. Tuttavia, il processo di assestamento delle minoranze nazionali atiraverso mutamenti territoriali e trasferimenti di popolazioni, non esaurì il problema la cui soluzione parziale e unilaterale promossa sotto l'egida della Germania era troppo legata alle sorti della guerra, per potersi considerare in certo modo definitiva. Così, la sconfitta del Reich e degli stati satelliti doveva necessariamente riproporre, esasperati, i varî problemi di minoranze e quindi territoriali, di cui si era tentata una soluzione. Tuttavia, se Hitler aveva dato l'avvìo a trasferimenti di popolazioni, questa rimase l'idea centrale, atta a risolvere il problema in modo radicale. "Dopo questa guerra, scrisse Beneš (Foreign Affairs, gennaio 1942), sarà necessario procedere al trasferimento di popolazioni su scala molto più ampia dell'altro dopoguerra. Questo deve essere fatto nel modo più umano possibile, organizzato internazionalmente e internazionalmente finanziato". Se queste erano le intenzioni (condivise fra l'altro anche da Churchill il 15 ottobre 1944) nei confronti di un espediente che non doveva andar disgiunto anche da modifiche di frontiera, la realtà fu ben diversa laddove si trattò di effettuare il trasferimento dei Tedeschi (che assunse nei Sudeti e altrove l'aspetto di una cacciata), riconosciuto necessario dalla conferenza di Potsdam (par. XII).
Nell'immediato dopoguerra, fra nuovi mutamenti territoriali e trasferimenti di popolazione, la situazione (con una certa approssimazione, data l'incertezza delle cifre) era la seguente:
Polonia. - A parte i 2-3 milioni di Tedeschi di varia origine che lasciarono il paese volontariamente nel 1945 seguendo la ritirata delle armate tedesche, 2.300.000 completarono il trasferimento ai primi del novembre 1947. Vi sono rimasti 21.000 tecnici e 35.000 Volksdeutsche. Garantitosi, con la creazione del comitato di Lublino, un atteggiamento favorevole da parte della Polonia circa la questione dei territorî orientali polacchi nuovamente rivendicati, nel settembre del 1944 il governo sovietico promosse accordi fra tale comitato e le repubbliche sovietiche ucraina, bianco-russa e lituana per il reciproco scambio di popolazioni, in modo da risolvere la causa fondamentale del conflitto di frontiera russo-polacco, attraverso la creazione di una linea etnica definita. Lo scambio avrebbe dovuto comportare uno spostamento verso est di circa 700.000 Ucraini, ecc. e un trasferimento di almeno 5.000.000 di Polacchi. Spostamenti ne sono avvenuti, ma non si sa se abbiano raggiunto tali proporzioni.
Cecoslovacchia. - Ricondotte le frontiere entro i limiti del 1938, la Cecoslovacchia provvide al trasferimento dei Tedeschi dai Sudeti, dalla Moravia e dalla Slovacchia: complessivamente sui tre milioni. Solo 310.000 Tedeschi (operai specializzati, minatori, persone imparentate con Cechi e Slovacchi, vecchi, e antinazisti provati) sono stati autorizzati a rimanere su suolo cecoslovacco. Circa la minoranza polacca (vedi cieszyn, in questa App.) il problema dei 42.000 Polacchi (cifre secondo le fonti ceche) della Slesia è stato praticamente messo a tacere, nell'ambito di una rinnovata solidarietà slava. L'esistenza nella Russia subcarpatica di una compatta nazionalità ucraina ha dato occasione alla Russia sovietica di richiedere la cessione della regione, avvenuta il 29 giugno 1945. Un protocollo annesso al trattato previde lo scambio di 33.000 Cechi e Slovacchi contro 91.000 Carpato-ucraini.
Ungheria. - Previsto a Potsdam uno scambio della minoranza ungherese in Cecoslovacchia contro la minoranza slovacca in Ungheria, il 27 febbraio 1946 fra i due paesi venne raggiunto un accordo per lo scambio di 150.000 Ungheresi contro altrettanti Slovacchi. In territorio ungherese minoranze slovacche non ne sono rimaste, mentre in Slovacchia lungo tutta la fascia di frontiera, sono rimasti almeno 250.000 Ungheresi. Circa i Tedeschi, compresi gli ebrei di lingua tedesca, un decreto del 24 aprile 1946 ne stabiliva l'espulsione verso la Germania.
Iugoslavia. - Il governo di Tito, attraverso la trasformazione dello stato iugoslavo, sinora centralizzato, in una repubblica federativa ha cercato di condurre una volta per sempre ad una pacifica convivenza le varie nazionalità. Come in Russia, l'ideale cui si tende è quello di una cultura nazionale nella forma, marxista-leninista nel contenuto, con conseguente sviluppo di scuole, librerie, organi di stampa, ecc. per tutte le nazionalità e minoranze. Senonché, mentre il dissidio serbo-croato rimane tuttora aperto, questione controversa è sempre quella della Macedonia, in quanto l'autonomia e lo sviluppo nazionale consentito nella repubblica federale macedone irrita i Bulgari che pensano sempre a una grande Macedonia.
Romania. - Il ritorno della Transilvania alla Romania (art. 2 del trattato di pace romeno del 10 febbraio 1947) ha riproposto il problema della minoranza ungherese e l'Ungheria ha sin qui inutilmente richiesto una estensione di territorio di frontiera della Transilvania pari a 22.000 kmq. Unici mutamenti fatti nel corso della guerra su motivi minoritarî che non siano stati toccati dalla nuova sistemazione del dopoguerra, sono stati quelli della Dobrugia meridionale, rimasta alla Bulgaria e della Bessarabia e Bucovina settentrionale, rimaste all'URSS (art. 1).
Austria. - Il 18 febbraio 1946, la Iugoslavia rimetteva alla riunione di Londra dei sostituti dei ministri degli Esteri un memorandum richiedente l'annessione di una parte della Carinzia e della Stiria, motivandola co1 argomenti storici, geografici e soprattutto etnici, in modo da recuperare - secondo le cifre iugoslave - 130.000 persone di recente origine slovena e lasciandone in Austria 70.000. Le cifre austriache sulla minoranza slovena sono sensibilmente inferiori (31.700).
Italia. - Dopo le rivendicazioni austriache sull'Alto Adige, avanzate dal presidente K. Renner sin dal 19 dicembre 1945, il 5 settembre 1946, a seguito dei colloqui De Gasperi-Gruber, veniva firmato a Parigi un accordo regolante il problema alto-atesino sulla base di una larga autonomia e di adeguate garanzie ai cittadini di lingua tedesca (v. alto adige, in questa App.). La minoranza di lingua tedesca dell'Alto Adige è rappresentata alla camera da tre deputati. Particolarmente grave per l'Italia e motivo di mutilazioni territoriali è stato il problema della minoranza slava della Venezia Giulia e del Friuli orientale, acutizzatosi in seguito alla occupazione tedesca, giunto a esasperazione verso la fine della guerra con la rivolta partigiana slavo-comunista. Sull'esistenza di una minoranza slava nella Venezia Giulia Tito appoggiò le sue rivendicazioni territoriali, che ebbero parziale accoglimento col trattato di pace italiano (v. venezia giulia, in questa App.). Anche la cessione alla Iugoslavia di territorî italiani fu dolorosamente sottolineata dall'esodo di popolazioni: complessivamente 100.000 Italiani dall'Istria, 28 mila da Fiume e 14.000 da Zara. Imponente fu l'esodo da Pola: 24-25.000 abitanti, partiti con tutte le masserizie, mentre per altri Italiani è in corso di applicazione il diritto di opzione, previsto dal trattato di pace (art. 19, par. 2).
Russia sovietica. - Nell'Unione sovietica, stato plurinazionale a struttura federale, problemi di minoranze non ne esisterebbero, rimanendo fermi i dirigenti sovietici nella direttiva di incoraggiare una cultura nazionale nella forma, ma marxista-leninista nel contenuto. Risulta tuttavia che alla fine del 1945 sono state abolite le repubbliche sovietiche autonome dei Tedeschi del Volga, i cui abitanti erano stati spostati verso est nell'agosto del 1941; quella calmucca, occupante una regione di steppe a N.O. del Caspio; il territorio autonomo dei Karaciai e dei Circassi, sulle montagne del Caucaso, incorporato nella Georgia; la repubblica autonoma dei Ceceni-Ingusceti e la repubblica autonoma della Crimea. Occupate tutte, ad eccezione di quella dei Volgadeutsche, dai Tedeschi, le loro popolazioni sembra siano state distribuite in altri territorî dell'Unione perché - dietro l'esperienza della guerra - poco fide. Pure profondamente alterata sembra sia la struttura etnica dei paesi baltici, dove le popolazioni locali sarebbero state in parte sostituite da Grandi Russi. Si è proceduto anche al rimpatrio degli Armeni residenti nel Vicino Oriente e in Francia. Alla fine del 1947 ne erano rimpatriati oltre 110.000, dislocati nella repubblica sovietica armena.
Vicino Oriente. - Nel corso del 1946 sulle minoranze curde dell'Azerbaigian l'Unione sovietica puntò quale mezzo per esercitare la sua influenza in tutto il paese. Pure appoggiate a motivi minoritarî, per i "diritti storici" di Armeni e Georgiani, sono state le rivendicazioni affacciate dall'Unione sovietica sui territorî turchi di Kars e Ardahan, nel corso del 1946. Altri gravi problemi di minoranze ha creato la divisione dell'India britannica nei due dominî dell'Industan e del Pakistan, problemi che hanno dato luogo a lotte sanguinose fra Indù e Musulmani. Per tutta la vicenda delle minoranze ebraiche,v. ebrei, in questa App.
In conseguenza dei mutamenti territoriali e dei trasferimenti di popolazioni, la carta delle minoranze ha subìto, soprattutto nell'Europa centro-orientale, profondi mutamenti. Sotto l'angolo visuale degli elementari diritti umani, lo spostamento di popolazioni non è da considerare certo un progresso ma semplicemente un rimedio, in ogni caso incompleto per l'impossibilità - sopratutto nell'Europa orientale - di far coincidere i confini territoriali con quelli etnici. E la "semplificazione" che senza dubbio è intervenuta, troppo spesso ha fatto forza alla storia, alle tradizioni, alle stesse esigenze dell'economia e della geografia, a non parlare di quelle morali. La situazione generale minoritaria è, almeno per il momento, in gran parte cristallizzata e, sul piano internazionale, nei trattati di pace conclusi a Parigi con l'Italia, la Romania, l'Ungheria, la Bulgaria e la Finlandia è stata inserita una clausola che prescrive, ad es. secondo l'art. 15 del trattato italiano, l'adozione di "tutti i provvedimenti necessarî per assicurare a tutte le persone che si trovino sotto la giurisdizione italiana, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione, il godimento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ivi incluse le libertà di espressione, di stampa, di religione, di opinione e di associazione". Obblighi analoghi sono imposti agli stati a cui favore è intervenuta una cessione territoriale (es.: art. 19, par. 4 del trattato ital; ano, per quanto riguarda la Iugoslavia). In questo modo, la questione del trattamento delle minoranze viene posta sul terreno che è ad essa più appropriato, quello costituzionale, in quanto si è data vita ad un impegno internazionale dello stato, tenuto a prendere le misure interne necessarie ad assicurare alle minoranze il godimento dei diritti sopramenzionati. Rimangono però esclusi da questa prescrizione internazionale altri diritti molteplici, i quali sono poi quelli che consentono in via amministrativa una politica di discriminazione a danno delle minoranze.
Per quanto concerne l'organizzazione delle N.U., soprattutto con riguardo ai principî posti nella Carta di San Francisco, il problema delle minoranze nazionali è diventato nient'altro che un aspetto del problema più generale della tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, che le N. U. tendono a garantire internazionalmente rispetto ai regimi interni di tutti gli stati (v. anche diritti umani in questa seconda Appendice, I, p. 786). Così, i diritti delle minoranze etniche, linguistiche, religiose sono difesi dalla "Dichiarazione universale dei diritti umani" e dalla "Convenzione per la messa al bando del genocidio" (definito all'art. 2 come un atto - uccisione, lesioni gravi fisiche o mentali, imposizione di condizioni di vita intese a procurare la distruzione fisica o di misure per impedire le nascite, trasferimento di bambini ad altro gruppo - "commesso con l'intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, raziale o religioso"), approvate dall'Assemblea delle N.U. rispettivamente il 10 e il 9 dicembre 1948.
L'unico problema minoritario sinora portato alla ribalta delle Nazioni Unite è stato quello degli Indiani dell'Unione sudafricana (circa 250.000), in seguito al ricorso presentato dal governo indiano alle N.U. contro le limitazioni introdotte nel paese per l'acquisto di terre da parte di elementi di origine indiana. Dopo l'esortazione rivolta dall'Assemblea ai due governi l'8 dicembre 1946 perché risolvessero la controversia e riferissero alle N.U. entro un anno, il 17 luglio 1948 il governo indiano rinnovava la sua protesta per tutta la politica di discriminazione razziale perseguita nell'Unione sudafricana, chiedendo che la questione venisse affrontata a Parigi, nell'autunno 1948, dinanzi all'Assemblea generale.
Va ricordato infine che non mancano in questo dopoguerra carte costituzionali ispirate esplicitamente al principio della tutela delle minoranze nazionali (articoli 22-23 della Costituzione federale iugoslava del 29 novembre 1945; art. 6 della Costituzione italiana del 27 dicembre 1947), restando però sempre aperto il problema della loro attuazione concreta, che per taluni regimi può esser del tutto illusoria, e dell'eventuale relativa garanzia internazionale.
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