Minoranze cristiane nell'Italia unita
‘Minoranza cristiana’ è una categoria non facile da circoscrivere per la varietà e complessità dei fattori che la compongono, che non sono solo religiosi, ma anche storici, culturali, economici e giuridici. Valgono anche per una minoranza cristiana i tratti che abitualmente caratterizzano ogni minoranza (etnica, linguistica, sessuale, razziale, politica, nazionale o di altro genere), e cioè1 : (a) dev’essere una comunità dal profilo ben definito, con dei confini certi e un’identità chiara, facile da identificare e da trasmettere da una generazione all’altra; (b) dev’essere consapevole di essere una minoranza; là dove manca questa consapevolezza, la minoranza non riesce a incidere nella società in cui vive; (c) dev’essere una reale minoranza sul piano numerico, ma al tempo stesso le sue dimensioni devono essere sufficienti ad accreditarla come soggetto storico (e non come semplice curiosità folcloristica); (d) è controverso il nesso tra minoranza e discriminazione; astrattamente è senza dubbio possibile che una minoranza viva e operi, in una società democratica, senza essere discriminata; concretamente però è molto difficile, anche là dove maggioranza e minoranza godono degli stessi diritti, che una minoranza non subisca qualche forma, per lo più occulta, di discriminazione.
Le quattro caratteristiche di ogni minoranza si attagliano perfettamente anche a ogni ‘minoranza cristiana’. Con questa espressione si descrivono tre realtà tra loro molto diverse. La prima è che la religione cristiana, pur essendo oggi la più diffusa nel mondo con circa un miliardo e duecento milioni di adepti, è nettamente minoritaria rispetto alla popolazione umana che supera i sei miliardi. La seconda è che esiste un gran numero di ‘minoranze cristiane’ nei paesi soprattutto asiatici, plasmati da altre grandi tradizioni religiose (hinduismo, buddhismo, shintoismo, animismo, islam). La terza è che esistono ‘minoranze cristiane’ anche all’interno di paesi di antica tradizione cristiana, di segno confessionale diverso da quello della maggioranza (minoranze cattoliche e protestanti in paesi a maggioranza ortodossa; minoranze ortodosse e protestanti in paesi a maggioranza cattolica; minoranze cattoliche e ortodosse in paesi a maggioranza protestante). Ma questo quadro, di per sé già abbastanza complesso, si complica ulteriormente, in particolare in Europa, a motivo del processo di secolarizzazione che da oltre quattro secoli ha investito l’Occidente e che fa sì che, anche in paesi nei quali la maggioranza della popolazione è ancora sociologicamente cristiana, la comunità confessante sia ormai solo una minoranza, più o meno consistente o sparuta. Non solo, ma la nozione stessa di minoranza, come quella apparentata di ‘diaspora’, è diventata in un certo senso problematica a motivo di due fenomeni di vaste proporzioni, sviluppatisi nel corso del secolo XX: il primo è il movimento ecumenico all’interno del quale le posizioni di maggioranza e minoranza hanno un peso secondario. Nel dialogo, che dell’ecumenismo è lo strumento principale, non sono i rapporti di forza numerica a contare, ma la qualità degli argomenti di ciascun partner. Il secondo fenomeno è l’avvento anche in Europa della società pluralista, nella quale la diversità, anche quella religiosa, non è più considerata e trattata come devianza o minaccia. Il pluralismo è un valore da salvaguardare, non un pericolo da scongiurare; la minoranza non è più vista in primo luogo come tale, ma come possibile portatrice di valori originali da immettere utilmente nel corpo sociale.
Non è forse inutile a questo punto ricordare che, dopo che il cristianesimo divenne, nel corso del secolo IV, religione imperiale (l’unica ammessa) e i popoli europei d’Oriente e d’Occidente vennero progressivamente cristianizzati, il diritto all’esistenza di una ‘minoranza cristiana’ nel quadro dell’’Europa cristiana’ venne sistematicamente negato. La nozione stessa di ‘minoranza cristiana’ è solo moderna: nella società europea concepita come corpus christianum non esisteva. Ogni forma di dissidenza, ogni tentativo di dar vita a una comunità cristiana diversa dal modello dominante, era visto come attentato alla verità e condannato come eresia. Nessuna minoranza era riconosciuta come cristiana. Le uniche minoranze religiose riconosciute entro certi limiti erano quella ebraica e, finché sopravvisse, quella musulmana. Ma alle dissidenze cristiane si negò la qualifica di cristiane. E sono state proprio delle minoranze cristiane perseguitate (come gli anabattisti, i mennoniti e gli unitariani nel Cinquecento, e i puritani nel Seicento), insieme a singoli cristiani illuminati come Sebastiano Castellione, a rivendicare per la coscienza cristiana il diritto al dissenso e quindi il diritto all’esistenza di una ‘minoranza cristiana’. Anche il principio cujus regio eius religio, sancito con la pace di Augusta nel 1555, che pure rendeva per la prima volta legalmente possibile un limitato pluralismo religioso all’interno dell’impero, escludeva l’esistenza di una ‘minoranza cristiana’ in ciascuna delle varie ‘regioni’ che allora lo costituivano: chi non seguiva la religione (cioè, in questo caso, la confessione religiosa) del principe, doveva emigrare. La condizione alquanto precaria delle ‘minoranze cristiane’ migliorerà un poco con la pace di Westfalia nel 1648, ma è solo con la Rivoluzione francese e le rivoluzioni liberali dell’Ottocento che il diritto all’esistenza di ‘minoranze cristiane’ all’interno di paesi tradizionalmente cristiani, ma di confessione diversa da quella delle minoranze, ha cominciato molto faticosamente a farsi strada nella legislazione degli Stati e nella coscienza delle persone. Noi parliamo oggi di ‘minoranze cristiane’ come di una ovvietà. Ma per molti secoli, nell’’Europa cristiana’ non lo sono state affatto. Poterne parlare oggi come di una ovvietà, è stata una conquista ardua e costosa.
Per un singolare paradosso proprio l’Italia che ospita il papato, perno istituzionale della Chiesa di Roma e interprete e garante dell’ortodossia cattolica, ospita anche la più antica dissidenza d’Europa sopravvissuta fino ai nostri giorni e quindi la più antica ‘minoranza cristiana’ della Chiesa d’Occidente: quella valdese. Nata in Francia intorno al 1170-1175 da una iniziativa di Valdo di Lione (i primi seguaci si chiamavano Poveri di Lione), fu subito affiancata da un ramo italiano con epicentro a Milano (Poveri lombardi) e si diffuse rapidamente in altri paesi europei. Ernesto Buonaiuti associa Valdo di Lione a Gioacchino da Fiore e a Francesco d’Assisi e ne parla come di una «triade» che «ha rappresentato il primo anelito della coscienza cristiana rinnovatasi nel medio evo, ad un ricupero diretto e immediato dei valori specifici del Vangelo, del messaggio di Cristo»2, dando così vita a quella che Buonaiuti chiama «la prima riforma» della cristianità occidentale3. I tratti distintivi del valdismo delle origini sono sei: il carattere laicale del movimento, la traduzione in volgare e diffusione fra il popolo della Bibbia e il suo intenso studio comunitario, l’evangelizzazione popolare attraverso la predicazione itinerante sul modello di quella di Gesù e degli apostoli, la povertà dei predicatori, la critica del regime «costantiniano» della Chiesa, la vita cristiana modellata sul Sermone sul Monte4, quindi rifiuto del giuramento, con tutte le sue implicazioni politiche e sociali e scelta di nonviolenza, con rifiuto della pena di morte, della guerra, delle crociate5. Cacciati da Lione nel 1183 per volere dell’arcivescovo Giovanni, i valdesi furono poi colpiti da anatema nel 1184 a Verona da papa Lucio III nel corso di un incontro con l’imperatore Federico I, che si impegnò formalmente a mettere al servizio del papa il potere secolare per estirpare l’eresia; infine, sotto Innocenzo III, furono scomunicati a Roma dal IV concilio Lateranense nel 1215. La ragione della scomunica fu la libertà di predicare, che i valdesi come altri ‘eretici’ rivendicavano e che l’autorità ecclesiastica rifiutava di concedere loro, anzitutto perché laici.
Da quel momento la storia valdese è stata una lunga via crucis durata più di sei secoli. Per sfuggire, per quanto possibile, ai rigori dell’Inquisizione, il movimento entrò in clandestinità restandovi fino al 1532. Era stato il sinodo di Orléans del 1022 a decretare la pena di morte per gli eretici, applicata per la prima volta quello stesso anno in quella città. Ma soprattutto dopo il 1215 l’attività inquisitoriale si intensificò. Roma, insoddisfatta dei modi ritenuti troppo blandi dell’Inquisizione episcopale, ne creò una sua, sotto il suo diretto controllo, e l’affidò di solito agli Ordini mendicanti, soprattutto ai Domenicani. Questi nuovi tribunali ecclesiastici, muniti di autorità non solo episcopale, ma pontificia, non si limitavano a giudicare il presunto eretico, ma lo cercavano attraverso un vasto sistema di delazioni. A partire dal 1240 circa, l’Inquisizione cominciò a ricorrere alla tortura per estorcere confessioni. Chi abiurava spontaneamente la sua eresia veniva riconciliato con la Chiesa, ma gli veniva inflitta una dura punizione pubblica, che poteva durare anni. Chi si pentiva solo sotto tortura veniva colpito da interdizione, che comportava la confisca dei beni, estesa ai figli e ai nipoti del condannato. Chi infine non si pentiva, l’eretico ostinato, veniva condannato al rogo e la sua abitazione demolita. Il potere secolare dava di solito man forte all’opera degli inquisitori, che si protrasse per secoli e si estese a tutta la cristianità occidentale. Una delle ragioni che spiegano i cospicui insediamenti valdesi nei due versanti (italiano e francese) delle valli alpine del Piemonte occidentale, fu proprio il tentativo di sfuggire alle retate inquisitoriali: «È possibile pensare che i “fratres” di fronte all’infierire dell’inquisizione nelle località di pianura, abbiano organizzato una cauta immigrazione di gruppi di “amici” e “amiche” in zone che apparivano più tranquille perché non ancora raggiunta degli inquisitori»6. L’altra ragione della concentrazione di valdesi in quell’area chiamata oggi ancora Valli Valdesi è senza dubbio il fatto che da lì passava l’unica via di comunicazione tra il Delfinato e la Lombardia, e che, percorrendola, predicatori e predicatrici valdesi abbiano evangelizzato con successo un certo numero di famiglie che li avevano ospitati.
La condizione di clandestinità non impedì la diffusione del valdismo, che nel Trecento ebbe anzitutto Milano come centro propulsore della espansione valdese. In Italia meridionale (Puglia e Calabria) si formarono numerosi e consistenti nuclei valdesi, immigrati prevalentemente dalla Francia e forse anche, in parte, dal Piemonte. Secondo una testimonianza dell’epoca, verso la fine del Trecento, la centrale operativa del movimento era «in Apulia». Ma colpiscono e stupiscono la sua forza di penetrazione e la rapidità della sua espansione nell’Europa centrale e orientale: in Svizzera, nella Germania meridionale (Baviera e Svevia), ma anche nel Brandeburgo, in Pomerania e Turingia fino al Nord (città di Stettino), nell’Alta e Bassa Austria, nella valle del Danubio, in Boemia, Polonia, Transilvania e Sarmazia e nella vasta pianura a Nord del mar Nero. Conosciamo questa vasta diaspora valdese europea quasi solo attraverso gli innumerevoli processi inquisitoriali intentati contro gli ‘eretici’, che dopo l’annientamento dei catari nella prima metà del Duecento, erano quasi sempre valdesi. Molti finirono sul rogo: un centinaio nella sola cittadina austriaca di Steyr, 50 a Schweidnitz nella Slesia, 16 a Krems, 220 nella Boemia meridionale e così via. La maggior parte, per non perdere la vita, abiurò. Intere comunità furono distrutte, come quelle della Val Pragelato e nel 1488 dell’Alto Delfinato, di Vallouise e Freyssinière. Il movimento fu decimato ma sopravvisse. Non solo, ma mentre il numero dei valdesi diminuiva drasticamente, l’incontro con il movimento hussita nel secolo XV lo irrobustì sul piano teologico. La distanza spirituale e dottrinale dalla Chiesa di Roma crebbe e questo facilitò, nella prima metà del secolo XVI, l’adesione alla Riforma protestante.
L’adesione, decisa nel 1532 dal sinodo di Chanforan (Alta Valle d’Angrogna), era stata preparata da una prima missione esplorativa del 1526 presso Guglielmo Farel, riformatore francese che operava in Svizzera, seguita da una seconda nel 1530 sulla base di un preciso questionario redatto dal predicatore itinerante Giorgio Morel e presentato ai riformatori Giovanni Ecolampadio (Basilea) e Martin Bucero (Strasburgo). Il testo del questionario, scritto a nome «di un certo popolo bisognoso e piccolo, il quale già per oltre 400 anni, […] non senza la grande benevolenza di Cristo, ha dimorato tra spine crudelissime e spesso punto e afflitto dalle medesime spine, è stato liberato dalla menzionata benevolenza»7, e le risposte dei due riformatori8 rivelano sia la ragione teologica dell’adesione, che peraltro non fu unanime, sia le sue implicazioni pratiche. La ragione teologica è questa: i valdesi, convinti da un gruppo inizialmente minoritario di ministri con a capo Morel, riconobbero che la comprensione della Scrittura da parte dei riformatori era più profonda e quindi in fin dei conti più fedele della loro, tradizionalmente letteralista. Aderirono quindi alla Riforma perché aderirono al suo messaggio, ritenuto conforme a quello della Bibbia, che era stata nel corso di oltre tre secoli e mezzo la ragion d’essere del loro movimento. È insomma per fedeltà alla Bibbia, più che a se stessi e alla loro storia passata, che divennero protestanti. Ma non ci fu dialogo tra la prima e la seconda Riforma: la prima fu assorbita nella seconda e in essa annullata e insieme inverata. L’adesione alla Riforma si rivelò quindi, sul piano delle implicazioni, al tempo stesso provvidenziale e fatale. Provvidenziale perché diede al valdismo, ormai confinato nel ‘ridotto’ alpino, un nuovo e ampio contesto ecclesiale di dimensioni europee, insieme a una chiara forma teologica, morale, liturgica, disciplinare e organizzativa della comunità. Dopo secoli di relativa solitudine, i valdesi trovano finalmente dei compagni di strada e una comunione di fede e di Chiese di cui si sentono parte integrante. Fatale perché il movimento passò attraverso una specie di morte e risurrezione, come accade nelle esperienze di conversione. Pur rimanendo se stessi, non si è più gli stessi. Il valdismo perse i tratti caratteristici che lo avevano connotato per secoli, tranne quello decisivo: il primato della Scrittura e la sua autorità superiore e un sistema decisionale di tipo collegiale e sinodale. Il movimento risorse, per così dire, dalle sue ceneri, acquisendo una nuova identità: quella di una piccola chiesa riformata quasi tutta raccolta in poche valli alpine del Piemonte, modellata secondo i parametri della Riforma calviniana.
L’adesione alla Riforma comportò, tra le altre cose, l’abbandono del cosiddetto ‘nicodemismo’, cioè della dissimulazione in pubblico delle proprie convinzioni di fede e la conseguente fuoriuscita dalla clandestinità; Calvino specialmente insisteva sul fatto che una fede vera non può rimanere nascosta, dev’essere pubblicamente confessata. I valdesi uscirono allo scoperto, divenendo ovviamente molto più vulnerabili di quanto non lo fossero stati nei secoli precedenti. Così, nel 1545, furono completamente distrutti i cospicui insediamenti valdesi di Provenza, con molte migliaia di vittime di ogni età e condizione. Nel 1561 fu la volta dei valdesi di Calabria, la cui presenza, che durava da almeno un paio di secoli, fu cancellata per sempre: più di duemila furono giustiziati, altrettanti incarcerati, la maggioranza, come sempre in questi casi, preferì abiurare piuttosto che morire. A partire dal 1565, la repressione si abbatté sulle fiorenti comunità riformate (non di origine valdese) del Piemonte che, attraverso la confisca dei beni, gli esili forzati e le abiure imposte con la violenza, furono decimate e alla fine completamente distrutte. Così, l’unica comunità valdese superstite in Italia dopo l’adesione alla Riforma fu quella della valli alpine del Piemonte, che però il duca di SavoiaEmanuele Filiberto era deciso a «purgare dall’eresia»9. Senonché la guerra di religione (una delle prime, se non la prima, in Europa) organizzata a questo scopo nel 1560-1561 non sortì gli effetti sperati (i valdesi riuscirono a difendersi) e si concluse addirittura con un trattato di pace firmato aCavour il 5 giugno 1561. Questo trattato, in deroga al principio cujus regio ejus religio, stabilito come detto, con la pace di Augusta del 1555, riconobbe l’esistenza non solo fisica, ma giuridica di una minoranza protestante, non giudicata ‘cristiana’, ma eretica, all’interno di uno Stato cattolico come quello sabaudo. Si può quindi parlare di quel trattato come del «primo atto di tolleranza religiosa [all’interno di uno Stato] in Europa, perché tale fu da un punto di vista cronologico, anche se non voleva esserlo nella mente del Duca e non poteva esserlo nella concezione di quei tempi»10. Difatti il trattato, al quale in seguito i valdesi ostinatamente, ma invano, si appellarono, fu subito dimenticato. Lo spirito della Controriforma soffiò anche sul Piemonte. Alla illusione della pace subentrò la realtà della guerra che riprese in grande stile a partire dal 1580 in tre forme diverse: la repressione legale attraverso una serie di editti duramente discriminatori nei confronti dei valdesi; le ricorrenti missioni cattoliche, affidate per lo più aGesuiti e Cappuccini, volte a convertire i valdesi; le ripetute azioni militari, talvolta collegate alle complesse vicende politiche del tempo, ma sempre finalizzate, come diceva la reggente, a «troncare il capo dell’idra dell’eresia e della ribellione». Una prima devastante azione militare ebbe luogo nel 1655 con migliaia di vittime, distruzione di templi, incendi di abitazioni, saccheggi e violenze di ogni genere. Ma proprio in quell’anno, tra i più bui della storia dei valdesi, nel quale la loro stessa sopravvivenza fisica fu messa seriamente in questione, essi pubblicarono la loro principale confessione di fede, tuttora in vigore, apparsa in lingua francese nel 1655 e in versione italiana nel 1662, con il titolo Confessione di fede delle Chiese Riformate, Cattoliche e Apostoliche del Piemonte, confermata per testimonianze espresse della Santa Scrittura11. Nella lettera introduttiva alla versione italiana, Antonio Legero, pastore valdese a Ginevra, esprime bene il sentimento generale dei valdesi in quell’ora di grande dolore, in cui la loro fede fu messa così duramente alla prova:
«E se pure vuole Iddio metterci più oltre alla prova alla fornace delle afflittioni e tribulationi, non dobbiamo trovarlo strano, anzi rallegrarci d’esser fatti degni di patire pe ‘l nome di Cristo, sicuri che questa s. dottrina per la cui professione noi siamo odiati e perseguitati dal mondo, essendo la verità eterna di Dio, egli non abendonerà la causa e chiesa sua»12.
La Confessione di fede si conclude con una «protestatione», cioè una affermazione solenne di comunione piena con tutte le Chiese riformate ed evangeliche d’Europa, secondo la «sana dottrina» espressa nella Confessione di Augusta del 1530, cui segue la promessa «di perseverarvi colla gratia di Dio inviolabilmente e con la vita e con la morte, essendo apparechiati di sottoscrivere a questa eterna verità di Dio col nostro proprio sangue»13.
La seconda azione militare, più devastante ancora di quella del 1655, tanto da configurarsi come una sorta di ‘soluzione finale’ del problema, ebbe luogo nel 1686. La popolazione valdese, che si calcola contasse allora 13.500 persone circa, fu quasi dimezzata. I superstiti (8.000 persone circa) furono imprigionati in quattordici diversi luoghi di detenzione in Piemonte, dove la metà morì nei sei-sette mesi successivi; dell’altra metà, un terzo circa accettò di cattolicizzarsi, mentre ai due terzi rimanenti fu offerta, grazie alle pressioni diplomatiche dei paesi protestanti, la via dell’esilio. Nel 1686 non c’erano più valdesi in Italia, se non in prigione: la loro storia nel nostro paese sembrava finita. Ma a sorpresa, tre anni più tardi, un manipolo di 600 valdesi tornò alle valli attraverso le Alpi e riannodò i fili interrotti di una storia che, grazie a loro, poté riprendere e continuare fino a oggi. La persecuzione armata terminò alla fine del Seicento, mentre quella legale continuò con tutti i mezzi (compreso il rapimento di bambini valdesi per educarli nella religione cattolica) fino al 1848, quando, con le «lettere patenti» del re Carlo Alberto del 17 febbraio 1848, i valdesi, e poche settimane più tardi gli ebrei, ottennero gli stessi diritti civili degli altri sudditi.
Con queste lettere patenti firmate dal re, ma insistentemente richieste e alla fine ottenute dal suo ministro Roberto D’Azeglio, che dunque «fu l’anima dell’azione emancipatrice dei valdesi e degli israeliti»14, si chiuse una lunga e dolente pagina della storia valdese, quella della persecuzione e della ghettizzazione, e se ne aprì una completamente nuova, quella dell’emancipazione e della libertà di fatto, anche se non ancora di diritto. Le lettere patenti disponevano quanto segue: «I valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei nostri sudditi, a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici. Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da essi dirette». Il primo articolo dello Statuto diceva: «La religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti sono tollerati conformemente alle leggi». I valdesi comunque interpretarono la loro emancipazione come libertà di evangelizzare e si attrezzarono a questo scopo creando nel 1855 due opere nuove e molto impegnative: una casa editrice chiamata Claudiana in onore di Claudio, vescovo di Torino (dall’817 all’827 circa), allora considerato, forse a torto, un precursore della Riforma; e una Facoltà di teologia per la formazione dei pastori, da svolgersi in Italia e non più all’estero. Così i valdesi, dopo quasi sette secoli di segregazione, cominciarono a muoversi liberamente in un’Italia che di lì a poco avrebbe realizzato e celebrato la sua unificazione politica.
A parte i valdesi confinati nelle valli del Piemonte fino al 1848, prima dell’Unità d’Italia vi furono nel nostro paese altre minoranze cristiane di due diversi tipi: le comunità protestanti straniere costituitesi a partire dalla fine del Seicento nelle maggiori città italiane e singoli italiani che, divenuti evangelici in diverse regioni d’Italia, furono costretti all’esilio, essendo l’esercizio della fede evangelica vietato negli Stati di appartenenza, e formarono all’estero alcune comunità evangeliche italiane. Il protestantesimo italiano dell’Ottocento prima dell’Unità si costituì in esilio.
Intorno alla metà dell’Ottocento c’erano comunità protestanti straniere nelle città di Venezia, Trieste, Livorno, Torino, Milano, Nizza, Genova, Napoli, Messina, Palermo. Esse avevano il diritto di celebrare il culto secondo le rispettive liturgie (anglicana, luterana, riformata), purché in forma privata e unicamente per stranieri. In qualche caso ottennero anche il permesso di aprire scuole per i loro figli e piccoli ospedali per i loro malati e di avere un proprio cimitero per i loro morti: così, ad esempio, a Firenze («Cimitero degli Inglesi», in realtà creato dagli svizzeri), e a Roma («Cimitero Protestante»). Di queste comunità due sole, quella tedesca, inglese e olandese a Torino e quella svizzera a Firenze, s’interessarono al nascente evangelismo italiano e ne favorirono, fin dove possibile, lo sviluppo. A Torino, per esempio, venne aperta nel 1825 una ‘cappella delle legazioni protestanti’ (Gran Bretagna, Olanda e Prussia), nella quale vennero occasionalmente celebrati anche culti in italiano per evangelici italiani (soprattutto valdesi), benché fosse vietato. A Firenze il culto evangelico fu autorizzato, ma solo per stranieri, nel 1826, e l’anno successivo si costituì una ‘Chiesa riformata evangelica’ con membri in prevalenza svizzeri. Tra questi c’erano personalità di spicco della cultura, tutti ginevrini, come Giampietro Vieusseux, fondatore nel 1821 dell’«Antologia» e, poco dopo, dell’«Archivio Storico Italiano», Simonde de Sismondi, noto per la sua Histoire des républiques italiennes au moyen âge (1807-1808) e l’educatrice Matilde Calandrini. Fu nella cappella svizzera che, negli anni Quaranta, si celebrò a Firenze il primo culto evangelico in lingua italiana, subito vietato dal granduca.
Le principali comunità di evangelici italiani esiliati per la loro fede durante il Risorgimento furono tre: Malta, Ginevra e Londra. A Malta, colonia inglese dal 1814, la ‘Società Biblica Britannica e Forestiera’ stabilì quell’anno stesso un ufficio che cominciò una intensa attività di distribuzione della Bibbia, oltre che nell’isola, anche in Sicilia e in altri paesi dell’area mediterranea. A Malta, sotto l’ala protettrice della Chiesa anglicana, si costituì una piccola comunità evangelica formata prevalentemente da esuli dall’Italia: tra questi Luigi Desantis, romano, già teologo dell’Inquisizione e parroco di S. Maria Maddalena in Roma, che divenne poi «il migliore controversista italiano dell’Ottocento»15. A Malta nel 1845 iniziò le pubblicazioni l’«Indicatore», il primo periodico protestante in lingua italiana.
Una seconda comunità di evangelici italiani in esilio si formò a Ginevra nel 1850 per opera di Luigi Desanctis, chiamato proprio a questo scopo, dato che dopo il 1849, con la reazione ai moti del 1847-1848 e la fine della Repubblica romana, molti democratici italiani si rifugiarono a Ginevra. Alcuni di loro, come Costantino Reta, genovese, già deputato al parlamento subalpino, aderirono al protestantesimo. Non si trattava del protestantesimo tradizionale della Chiesa nazionale, ma di quello detto ‘risvegliato’, figlio cioè di quel movimento di ‘Risveglio’ spirituale che percorreva allora tutto il protestantesimo europeo. Determinante era l’esperienza della conversione del cuore e del rinnovamento della vita, personale e comunitaria, con un forte impulso sia alla missione interna ed esterna, sia alla creazione di nuove opere diaconali in campo educativo, sanitario e sociale. Tendenzialmente anti-istituzionale, promuoveva un cristianesimo biblico libero da rigide configurazioni confessionali. Anche per questo era inevitabile che questo tipo di evangelismo si scontrasse (come avvenne nel 1854) con la Chiesa valdese che, pur essendo anch’essa influenzata dal ‘Risveglio’, era pur sempre munita di una confessione di fede chiaramente riformata e di una costituzione ecclesiastica sinodale collaudata da secoli. Sul piano dei rapporti tra Chiesa e Stato, il protestantesimo ‘risvegliato’ è separatista: risale al pastore e teologo di Losanna Alexandre Vinet la formula cavourriana «Libera Chiesa in libero Stato». A partire dal 1856 molti esuli rientrarono in Italia, contribuendo non poco a caratterizzare in senso ‘risvegliato’ lo sparuto evangelismo italiano sparso per la penisola alla vigilia dell’Unità.
La principale comunità di evangelici esuli prima dell’Unità fu però quella di Londra, il cui primo nucleo si formò nel 1842 e ufficialmente si costituì nel 184716. La guida della comunità durante i (quasi) vent’anni di esistenza fu il toscano Salvatore Ferretti, cugino per linea materna del pontefice Pio IX. Aveva aderito alla fede evangelica nell’ambiente ‘risvegliato’ svizzero e si era poi trasferito a Londra dove c’erano allora circa 5.000 italiani, molti dei quali erano profughi politici e un piccolo numero di essi era evangelico. La comunità si proponeva tre obbiettivi: evangelizzare gli esuli italiani; contribuire, sia pure a distanza, al risorgimento civile e religioso d’Italia; interessare gli ambienti liberali inglesi alle vicende italiane e alle lotte per l’indipendenza del paese. Strumento efficace di questo programma fu il mensile «L’Eco di Savonarola» redatto in italiano e inglese. La sua linea politica fu mazziniana, quella religiosa ‘risvegliata’.
Le comunità di esuli evangelici vissero intensamente il Risorgimento coltivando una duplice speranza: quella di un rapido compimento del processo di emancipazione e unificazione del paese e quella di un profondo rinnovamento evangelico della cristianità italiana che fosse l’anima del suo risorgimento civile e politico.
«Già nel 1861, al momento della proclamazione del Regno d’Italia, si poteva avvertire che in quel regno neonato ci sarebbe stato spazio assai per il libero pensiero ateo o deista, ma poco ce ne sarebbe stato per un cristianesimo diverso da quello cattolico, di cui i nuovi dogmi dell’Immacolata Concezione e, poi, dell’infallibilità papale stavano definendo il volto. D’altra parte, a quel momento, era chiaro pure che un’Italia evangelica era spuntata davvero sul suolo da cui tre secoli prima laControriforma aveva estirpato i virgulti dellaRiforma con tanto accanimento. Era un’Italia evangelica così piccola e grama da non potersi comparare con l’Italia del Papa o con l’Italia del libero pensiero. Però, durante il decennio 1849-1859, aveva dato tali prove di resistenza, tanto rispetto al governo reazionario dei Lorena, quanto a quello liberale dei Savoia, da far presagire che sarebbe sopravvissuta anche al tramonto delle illusioni risorgimentali»17.
I 150 anni di storia dell’Italia evangelica trascorsi dal 1861 a oggi confermano le due previsioni contenute nella pagina ora citata: da un lato la speranza di un’Italia religiosamente rinnovata in profondità s’è rivelata una delle ‘illusioni risorgimentali’ presto tramontate. È solo un secolo più tardi, con il concilio Vaticano II, che un certo rinnovamento ha cominciato a farsi strada nella Chiesa cattolica. D’altro lato l’Italia evangelica del 1861, «così piccola e grama», è rimasta sul piano statistico una piccola minoranza malgrado gli sforzi generosi profusi e un quadro giuridico e spirituale completamente mutato rispetto a quello di allora; però la presenza protestante, che proprio nel nostro paese ha radici così antiche come quelle del movimento valdese, si è confermata in questi 150 anni come un dato permanente, anche se minoritario, del panorama religioso italiano.
Le Chiese
Nel 1861 il protestantesimo italiano era rappresentato dai valdesi e dagli evangelici reduci dall’esilio: due mondi sostanzialmente omogenei sul piano dei contenuti di fede, ma abbastanza diversi sul piano dell’esperienza storica e del progetto missionario. I reduci dall’esilio non avevano una storia propria, tranne quella degli ultimi anni; il loro passato era cattolico, essendo tutti ex-cattolici e molti di loro ex-preti ed ex-frati. I valdesi invece avevano alle spalle quasi sette secoli di storia, di cui avvertivano il peso e la responsabilità. Il progetto missionario degli evangelici reduci era la creazione di una Chiesa evangelica italiana senza un profilo preciso né confessionale né istituzionale; quello dei valdesi era la creazione, in Italia, di una Chiesa evangelica chiaramente strutturata in senso riformato, con la confessione di fede del 1655.
Gli evangelici reduci dall’esilio diedero vita a due Chiese distinte. La prima è la Chiesa cristiana libera d’Italia, con a capo Alessandro Gavazzi, già cappellano nell’esercito garibaldino e di fede mazziniana. La predicazione di questa Chiesa si caratterizzò per un coinvolgimento nelle vicende politiche del paese e per l’affiliazione massonica di diversi suoi pastori18. La seconda è rappresentata dalle Chiese cristiane libere, con a capo il conte Piero Guicciardini e Gabriele Rossetti, la cui predicazione ignorava l’attualità politica e si concentrava su temi spirituali come la conversione e la santificazione individuale19. Nel 1910 queste Chiese assunsero il nome di Chiesa dei Fratelli.
A partire proprio dal 1861 la presenza protestante in Italia si arricchì di nuovi soggetti, attratti nel nostro paese dal profondo cambiamento che esso stava vivendo e dalle nuove opportunità che questo cambiamento dischiudeva: fine del potere temporale dei papi, che fino all’ultimo avevano cercato di bloccare il processo di unificazione del paese, e vittoria dello spirito liberale, tendenzialmente democratico e sovente anticlericale, favorevole comunque alla libertà di coscienza e di culto. «Il nuovo regno d’Italia si presentava come un campo aperto, pieno di promesse per le missioni protestanti, e queste non mancarono di inserirsi ben presto nell’azione evangelizzatrice che la Chiesa valdese e le Chiese cristiane libere avevano iniziato»20. Diverse missioni estere entrarono in questo ‘campo aperto’, in qualche caso con l’intento iniziale di sostenere l’opera delle Chiese evangeliche già presenti sul territorio (valdesi e Chiese libere) e non di crearne una propria, ma il più delle volte con lo scopo di creare una loro ‘missione’ in Italia come in altri paesi del mondo. L’evangelizzazione svolta da queste missioni, come del resto dai valdesi, aveva caratteristiche comuni: annuncio della salvezza in Cristo soltanto come unico mediatore tra Dio e gli uomini; insistenza sulla grazia immeritata e incondizionata che solo la fede può capire e ricevere; centralità della parola biblica, unico ‘magistero’ di cui ci si può e deve fidare; appello alla scoperta del ‘vero cristianesimo’ in alternativa (implicita o più spesso apertamente polemica) alla religione cattolica romana. Gemellata all’opera di evangelizzazione in senso stretto, un’imponente opera di alfabetizzazione e scolarizzazione ebbe luogo da parte di tutte le missioni, come pure della Chiesa valdese, con l’apertura di scuole elementari là dove non c’erano mai state, nonché di scuole pomeridiane e serali per combattere l’analfabetismo, allora diffusissimo tra i contadini e nei ceti subalterni della società: in qualche località la scuola fu costruita prima del locale di culto. Un altro fenomeno caratteristico di quel periodo fu il collegamento, frequente soprattutto nelle zone rurali del Mezzogiorno, tra la nascita di una chiesa o di un gruppo evangelico e le lotte sociali di contadini e braccianti, che in qualche caso (abbastanza isolato) furono incoraggiate e persino guidate da pastori socialisti. Infine va segnalato il fatto che le missioni estere, e in qualche caso anche la Chiesa valdese, hanno mietuto là dove non avevano seminato, cioè hanno accolto nel loro seno delle comunità o gruppi sorti indipendentemente da loro. Un numero notevole di comunità o gruppi evangelici infatti devono la loro esistenza all’opera personale e spontanea di italiani emigrati negli Stati Uniti, dove avevano conosciuto e abbracciato la fede evangelica che, tornati in patria, fecero conoscere ai loro familiari e nei loro paesi d’origine raccogliendo un certo numero di adepti. Questo spiega perché non poche chiese evangeliche siano sorte in piccole e sperdute località della penisola, ben prima che vi giungesse un pastore o un missionario, confluendo poi in questa o quella opera missionaria. Il risultato statistico di tutto questo lavoro fu il seguente: al censimento del 1901 risultava che in Italia, su 32.475.523 abitanti, vi erano 65.595 protestanti mentre a quello del 1911 ne risultarono 123.253 su 34.671.877 abitanti21.
Le missioni estere che a partire dal 1861 hanno operato in Italia sono quelle metodiste, battiste, avventiste e l’Esercito della salvezza. I valdesi, usciti dal ghetto alpino nel quale erano stati confinati per tre secoli, divennero anch’essi ‘missionari’ nel loro proprio paese, svolgendovi un’intensa attività di evangelizzazione. I pentecostali, presenti in Italia a partire dal 1908, non devono la loro esistenza a un’iniziativa missionaria dall’estero, ma sono frutto della testimonianza di semplici credenti italiani che, convertitisi negli Stati Uniti e tornati in patria, hanno trasmesso ad altri la loro esperienza di fede moltiplicandola. La Chiesa dei Fratelli, così chiamata dal 1910, è l’erede diretta di un ramo delle Chiese cristiane libere, a cui abbiamo già fatto cenno. La Chiesa luterana ha continuato a lungo a considerarsi ‘chiesa ospite’ in Italia e a celebrare il culto in lingua tedesca, tranne che in alcune comunità del Napoletano a partire dal 1957. In anni recenti s’è però accentuata, nella leadership della Chiesa, la volontà di inserirsi maggiormente nella realtà italiana, collaborando con altre Chiese ad alcuni progetti e partecipando a iniziative comuni dell’evangelismo italiano. Tracceremo ora le linee principali della storia di ciascuna di queste missioni e Chiese nei 150 anni dell’Italia unita, indicando anche il loro possibile contributo al quadro complessivo del cristianesimo in Italia.
Il metodismo italiano è frutto di due diverse missioni. La prima, inglese, è la Società missionaria metodista wesleyana, che fin dal 1859 inviò in Italia uno dei suoi segretari, il pastore William Arthur che, dopo una serie di incontri ed esperienze, intitolò il suo rapporto alla Società Italy in transition, pubblicato a Londra nel 186022. E la ‘transizione’ intravista è così esplicitata in un altro rapporto, che pur non essendo scritto da Arthur, ne riproduce il pensiero: «L’Italia può essere considerata una terra particolare, dove l’antica superstizione della gente è stata fortemente indebolita, uno spirito di ricerca si è largamente risvegliato e dove l’istruzione, unita a una sana guida nelle buone vie del Signore sarà di inestimabile valore»23. Valeva dunque la pena iniziare l’avventura missionaria italiana. Nel 1861 infatti giunse in Italia Enrico Giacomo Piggott che, vista l’impossibilità di realizzare il suo proposito iniziale di aiutare gli evangelici italiani a costruire insieme un’unica Chiesa nazionale, decise nel 1865 che era giunto il momento di procedere autonomamente e dare il via alla creazione di una Chiesa metodista in Italia. Analoga decisione presero le altre missioni e l’evangelismo italiano, già numericamente esiguo, si frazionò in numerose denominazioni. Avvalendosi della collaborazione di diversi predicatori italiani per lo più ex-sacerdoti cattolici, Piggott riuscì a creare una rete notevole di comunità nel Nord, Centro e Sud d’Italia. La nascita di una comunità o di un nucleo evangelico, indipendentemente dalla denominazione di appartenenza, era di solito accolta con favore dagli ambienti liberali e progressisti, mentre era accanitamente avversata (anche con atti violenti come sassaiole, aggressioni fisiche, intimidazioni, minacce, ecc.) da parte del clero e da gruppi di parrocchiani mobilitati contro l’eretico. Nel 1870 nacque la «Chiesa evangelica metodista in Italia», dipendente, anche materialmente, dalla Conferenza britannica e diretta da due sovrintendenti inglesi. Si trattava dunque di un vero e proprio avamposto del metodismo inglese in un’Italia che neppure immaginava, allora, che un cristiano potesse anche essere ‘metodista’.
Un’altra componente del metodismo mondiale, la Chiesa metodista episcopale americana, inviò nel 1871 il pastore Leroy Monroe Vernon come «il missionario pioniere della nostra Chiesa in Italia»24. Lo spirito di denominazione era all’epoca talmente vivo che non fu possibile neppure unificare le due missioni metodiste operanti in Italia, benché questo fosse auspicato e raccomandato sia da Piggott sia da Vernon. Così nacque il 10 settembre 1874 a Bologna la «Chiesa metodista episcopale d’Italia», con una consistenza numerica iniziale alquanto modesta, che però crebbe negli anni successivi. Le comunità si costituirono soprattutto nei centri urbani, con una predicazione rivolta prevalentemente al ceto medio-alto e agli intellettuali. Ma verso la fine del secolo si levarono voci autorevoli che sollevavano la questione sociale, talvolta anche in prospettiva socialista, inducendo così la Chiesa a caute aperture verso le posizioni del cristianesimo sociale. La Chiesa conobbe una certa fioritura: oltre ad alcune opere assistenziali, fu creata una Scuola teologica per la formazione dei pastori. I membri di Chiesa, che nel 1889 erano 779, salirono nel 1903 a oltre duemila e nel 1906 a 2689. In rapporto ai metodisti episcopali va menzionato il fenomeno del cosiddetto «massonevangelismo»25, che in realtà riguardò anche altri esponenti di spicco di altre Chiese evangeliche (valdesi, battiste, Chiese libere), ma ebbe il massimo sviluppo fra i metodisti episcopali da quando, nel 1889, William Burt assunse la direzione della Chiesa: «Da quel momento la Chiesa Metodista Episcopale fu la roccaforte per eccellenza del massonevangelismo e il suo corpo pastorale militò al completo nelle file libero-muratoriane»26. Il fenomeno, esauritosi con il tempo, non giovò minimamente alla diffusione della fede evangelica in Italia e neppure fra i massoni; fu però un tentativo (in fondo non riuscito) da parte di un certo numero di protestanti italiani e stranieri di incidere in qualche modo sulla società del tempo.
I due rami del metodismo italiano, dipendenti, come s’è detto, uno dall’Inghilterra, l’altro dagli Stati Uniti, subirono il contraccolpo negativo della seconda guerra mondiale e nel 1946 unirono le loro forze creando un’unica Chiesa, che nel 1962 ottenne la piena autonomia. Nel 1975 si unì alla Chiesa valdese costituendo con essa, grazie a un ‘Patto di integrazione globale’, un unico organismo ecclesiastico con un’unica direzione (la ‘Tavola valdese’) e un’unica assemblea rappresentativa: il sinodo. Caratteristiche peculiari del metodismo in generale sono l’insistenza sulla santificazione personale e comunitaria, la valorizzazione del laicato anche per la predicazione, l’esigenza missionaria come priorità nella vita della Chiesa e l’apertura ecumenica.
Anche la presenza battista in Italia risale, come quella metodista, a missioni inglesi e americane che all’inizio furono addirittura cinque27. I battisti inglesi detti ‘Particolari’ iniziarono l’opera nei primi anni Sessanta con James Wall, che giunse a Bologna nel 1863 per un primo viaggio esplorativo, e Edward Clarke, che si stabilì a La Spezia dove iniziò un’opera indipendente. Nel 1870 anche i battisti inglesi detti ‘Generali’ inviarono un loro missionario a Roma nella persona di Nathaniel H. Shaw. Intanto i battisti del Sud degli Stati Uniti chiesero a Robert Cote, già all’opera in Francia, di trasferirsi in Italia; egli giunse a Roma all’indomani della sua liberazione (20 settembre 1870). La sua opera fu continuata e sviluppata dall’americano George B. Taylor, «il vero fondatore dell’opera battista americana in Italia»28. Ma anche i battisti del Nord America inviarono un loro missionario, William C. van Meter, che si dedicò in particolare ad aprire scuole evangeliche. Infine, William K. Landels, già uomo d’affari, dopo un soggiorno in Sicilia decise di consacrarsi al pastorato e in particolare alla predicazione evangelica in Italia: giunse a Roma nel 1875 e a Napoli nel 1877, dove operò per una diecina d’anni. Pur avendo alle spalle Chiese e società missionarie diverse, i battisti all’opera in Italia collaborarono fin dall’inizio tra loro, tanto da dar vita, già nel 1884, a una «Unione delle Chiese apostoliche battiste», che nel quarantennio successivo conobbe una certa espansione. Nel 1923, le Chiese nate in Italia dalle missioni inglesi e quelle nate dalle missioni americane confluirono in un’unica «Opera cristiana evangelica battista d’Italia», che contava 2240 membri e 51 comunità. Dopo il ventennio fascista, durante il quale alcune Chiese furono perseguitate e costrette a chiudere, l’Opera si trasformò nel 1956 in «Unione cristiana evangelica battista d’Italia» (Ucebi), alla quale si sono associate, in anni recenti, diverse comunità evangeliche di immigrati africani e asiatici. I membri di questa Chiesa sono oggi 6.300, il numero delle comunità e dei gruppi a vario titolo parte dell’Unione è 121.
La storia del battismo italiano presenta molte caratteristiche comuni con le altre opere evangeliche presenti nel nostro paese, ma si caratterizza per alcuni tratti che meritano di essere segnalati. Il primo è ovviamente legato alla sua dottrina battesimale, erede dell’anabattismo del Cinquecento: rifiuto del battesimo dei bambini, giudicato non biblico e non cristiano, e pratica esclusiva del battesimo dei credenti, per immersione e non per aspersione. I battisti, e con loro la Chiesa dei Fratelli, gli avventisti e i pentecostali, hanno introdotto in Italia un rito battesimale praticamente sconosciuto, anche se molti battisteri dell’antichità cristiana testimoniano con ogni evidenza che il battesimo di adulti per immersione era la forma originaria del battesimo cristiano. Il battesimo dei credenti viene di solito amministrato a coloro che, battezzati da bambini, scelgono di entrare a far parte di una comunità battista: chi è stato battezzato da bambino viene considerato come non ancora battezzato. Il secondo tratto caratteristico del battismo italiano è di aver ripetutamente affrontato, nei primi anni del Novecento, in assemblee pastorali e sulla stampa, la questione sociale, esortando «ogni evangelista […] a conoscere e comprendere le condizioni di vita, i sentimenti, le aspirazioni politiche e sociali della popolazione» in vista della «evangelizzazione delle classi proletarie italiane»29. Il messaggio battista fu in effetti accolto, in generale, dagli strati più umili della popolazione. Questa, va detto, non è una caratteristica esclusiva del battismo, vale in fondo per quasi tutta l’opera evangelistica nell’Italia unita, ma fra i battisti ci sono stati vari casi emblematici di predicazione evangelica vissuta anche come forza di riscatto sociale. Così, per esempio, a Isola Liri (Basso Lazio), la locale comunità battista partecipò con ben 200 membri al corteo del 1° maggio 1911, insieme a 2000 manifestanti, sventolando però bandiere bianche distinte da quelle rosse dei socialisti30. Altro esempio: a Gioia del Colle, in Puglia, centinaia di contadini e braccianti ascoltavano la predicazione del pastore socialista Liutprando Saccomani e nel giugno del 1920 occuparono le terre dei latifondisti. Seguì uno scontro a fuoco, con sei contadini morti, di cui uno evangelico. Un altro esempio è quello di Luigi Loperfido, detto «il monaco bianco», per la tunica bianca che indossava, che organizzò e diresse a Matera, dal 1903 al 1923, una Lega contadina, divenendo al tempo stesso pastore della locale comunità battista. Saccomani e Loperfido furono entrambi mandati al confino dal regime fascista. Si potrebbero citare diversi altri casi, con pastori di altre Chiese, nei quali l’adesione alla fede evangelica s’intrecciava con attese di cambiamento sociale. Un terzo tratto caratteristico del battismo italiano, benché circoscritto nel tempo, è la pubblicazione, per iniziativa del missionario americano Dexter G. Wittinghill, di due riviste che nel primo ventennio del Novecento occuparono un posto di rilievo nel panorama culturale italiano. La prima, che era legata anche alla Scuola teologica battista creata nel 1901, si chiamava programmaticamente «Bilychnis» proponendosi di alimentare «due fiamme», quella della scienza moderna e quella della fede cristiana, «cioè proprio il binomio per cui i modernisti erano stati condannati» dalla dura enciclica Pascendi di Pio X (1907)31. La rivista uscì dal 1912 al 1931 e fu uno spazio aperto a collaboratori di varie tendenze: evangelici di tutte le denominazioni, cattolici modernisti e in genere liberali, laici di fede mazziniana o di altro orientamento. «Bilychnis» è lo specchio di un’Italia evangelica che «non stava più rinchiusa nelle sacrestie pietiste tradizionali: si sforzava si essere un fattore della vita nazionale, piccolo quanto si vuole, ma desto e proteso verso l’avvenire»32. La seconda rivista, settimanale, fu «Conscientia», pubblicata dal 1922 al 1927 quando fu soppressa dal regime fascista. Attraverso questa rivista comparve sulla scena della cultura religiosa e politica italiana Giuseppe Gangale (1898-1978), prima come collaboratore e poi, dal 28 giugno 1924, come condirettore. Pochi giorni prima, il 22 giugno, aveva ricevuto il battesimo in una chiesa battista di Roma. Su «Conscientia» Gangale espose il suo programma teologico-politico, che riassunse in Rivoluzione protestante, pubblicato nel 1925 da Piero Gobetti Editore a Torino. In una Nota dichiarativa iniziale egli scrive: «Io ho battuto strade finora non battute ed ho dovuto farmi la strada camminando». Così era infatti: la proposta di Gangale era opposta a quella del ‘Risveglio’, che aveva plasmato tutto il protestantesimo dell’Ottocento; non più dunque «la religione dell’intuito, dell’esperienza edificante e del sentimento», ma, al contrario, la religione come «esperienza drammatica, nella forma precisa e intransigente del protestantesimo eroico dei Riformatori»33. Il ‘nuovo simbolo’ fu Calvino: simbolo appunto di quel ‘nuovo protestantesimo’ (rispetto a quello dell’Ottocento), nel quale, tra le altre cose, la predestinazione degli eletti «fu l’usbergo della nostra condizione di minoranza religiosa in condizione di inferiorità culturale in una terra in cui da secoli trionfa lo spirito relativista e umanistico»34. Nessun protestante nell’Italia unita aveva ancora fatto discorsi del genere e Gangale fu l’unico a farlo. Sul piano politico la rivista divenne sempre più chiaramente antifascista: nel numero del 21 giugno 1924, a commento del delittoMatteotti, Gangale parla della necessità di distruggere «la mala pianta che disonora il nostro Paese», che sembra essere, appunto, il fascismo, benché non menzionato esplicitamente35.
Il discorso religioso di Gangale sarà ripreso pochi anni più tardi da Giovanni Miegge e altri con la rivista «Gioventù cristiana».
Nel panorama cristiano, l’Esercito della salvezza è un’opera unica nel suo genere36. La sua storia nell’Italia unita37, iniziata proprio a Roma nel 1887, è stata fin dall’inizio particolarmente travagliata sia per l’incomprensione (e non di rado la derisione) di molti nei confronti di questi singolari testimoni di Cristo sia per il rifiuto delle autorità di concedere loro il permesso di tenere adunanze pubbliche. Il risultato fu la chiusura dell’Opera di Roma dopo appena due anni. Essa però ricominciò nel 1890 nelle Valli Valdesi e da lì si sviluppò lentamente nel Nord e nel Sud d’Italia attraverso l’iniziativa di italiani rientrati nel loro paese da un soggiorno all’estero durante il quale erano diventati evangelici con l’Esercito della salvezza. Mancava però sempre, da parte dello Stato, il riconoscimento ufficiale dell’Opera come ente di culto. La situazione si aggravò con il fascismo, che in vari modi boicottò l’Esercito, tanto che nel 1940 ogni sua attività cessò. L’Albergo del popolo di Roma, che era la sua maggiore attività sociale, fu evacuato e l’edificio fu dato in uso a un prete di Roma che lo trasformò in ‘Albergo S. Giuseppe’. I pentecostali e l’Esercito della salvezza sono state le due opere evangeliche maggiormente perseguitate dal fascismo. Le cose cambiarono già nel 1943 con l’arrivo delle truppe alleate nel Sud Italia e poi con la liberazione nel 1945. L’Albergo del popolo di Roma fu recuperato e, passo dopo passo, l’Opera riprese a vivere. Oggi conta 17 chiese, 15 gruppi, 7 opere sociali e 375 membri.
Sono tre i valori evangelici fondamentali che l’Esercito della salvezza mette in luce e diffonde intorno a sé38. Il primo è l’unità tra anima e corpo, tra salvezza e salute, senza confonderle identificando una con l’altra e senza separarle dimenticandone una a vantaggio dell’altra. La salute del corpo e la salvezza dell’anima sono due cose ovviamente diverse, ma entrambe volute da Dio e a lui gradite, dato che Dio ama il corpo non meno dell’anima e l’anima non meno del corpo, avendo creato l’uno e l’altra. Il programma delle «tre S» («Soup – Soap – Salvation»)39 esprime bene la volontà dell’Esercito di mettersi al servizio tanto del corpo quanto dell’anima, combattendo i mali che li minacciano. Il secondo valore evangelico che l’Esercito della salvezza mette in luce e incarna nella sua attività è la convinzione che nessuno è perduto e che anche la persona umana più traviata può essere ricuperata. Non c’è nessun peccatore che, attraverso la conversione non possa diventare santo, nessun malfattore che non possa diventare benefattore, nessun agnostico, o scettico, o ateo che non possa scoprire Dio e diventare credente. Il terzo grande valore è rappresentato dal fatto che l’altro, il prossimo, tanto più se lo consideriamo perduto, va cercato, chiamato e invitato là dove si trova, andando da lui e non aspettando che lui venga da noi. L’Esercito della salvezza s’è fatto, per così dire, ‘chiesa dei bassifondi’, offrendo il messaggio cristiano con canti, testimonianze e appelli a persone che altrimenti non lo avrebbero mai udito. L’Evangelo non è un bene borghese da consumare negli ambienti privilegiati della società, ma è una luce nella notte destinata a coloro che non ce la fanno a vincere la battaglia della vita, ai perdenti, alle vittime o della società o dell’ambiente in cui sono vissute, o di loro stesse, agli sconfitti. L’Esercito della salvezza porta l’Evangelo, e quindi la salvezza, a coloro che le chiese non riescono a raggiungere.
La Chiesa cristiana avventista del Settimo giorno, sorta negli Stati Uniti nella prima metà del secolo XIX40, è approdata sul continente europeo nella seconda metà di quel secolo, cominciando proprio dall’Italia e, ancora una volta, dalle Valli Valdesi del Piemonte: i primi «avventisti» italiani furono due valdesi, Caterina Revel e Jean David Geymet. Essi aderirono al movimento per opera di un ex-frate francescano polacco, Michael B. Czechowski (morto nel 1876), esule e pellegrino in diversi paesi europei (Italia compresa), prima di aderire al protestantesimo diventando prima battista a Londra, poi avventista negli Stati Uniti nel 1857. Tornò in Europa nel 1864 come primo missionario avventista nel Vecchio Continente, fissando la sua dimora nelle Valli Valdesi, dove fece i primi adepti. Ma fu Napoli, verso la fine degli anni Settanta dell’Ottocento «il centro propulsore dell’attività missionaria [avventista], con un gruppo comprendente non meno di ventidue persone adulte»41. La ragione principale della adesione di un certo numero di persone all’avventismo sembra essere stata, più che l’attesa rinnovata del secondo avvento di Cristo, la questione dell’osservanza del sabato come giorno di riposo e di culto comandato da Dio con il quarto comandamento del decalogo, considerato valido non solo per gli ebrei, ma anche per i cristiani. La diffusione dell’avventismo in Italia fu comunque molto lenta: verso la fine dell’Ottocento gli avventisti in Italia non superavano il centinaio; nel 1928 erano ancora solo 410. Da segnalare il fatto che il primo obiettore di coscienza al servizio militare in Italia fu un avventista, Alberto Long, che durante la prima guerra mondiale rifiutò di impugnare le armi. Fu processato tre volte e condannato prima a cinque, poi a sette e infine a 25 anni di reclusione (il Pubblico Ministero aveva chiesto la fucilazione), che scontò solo in piccola parte grazie a un’amnistia generale42. Così pure è avventista il pastore Gian Luigi Lippolis che nel 1932 subì a Firenze un processo per vilipendio alla religione di Stato, per aver pubblicato su «L’araldo della verità», da lui diretto, un articolo intitolato Il Cristo e l’Anticristo, dove quest’ultimo era identificato non nella persona del papa, ma nell’istituzione papale. Fu condannato a un mese e dieci giorni di carcere e il fatto fu uno degli argomenti trattati da Mussolini nell’unico colloquio avuto con Pio XI, l’11 febbraio 1932: il capo del governo s’impegnò, su richiesta del papa, a porre un freno alla ‘propaganda protestante’, rispetto alla quale egli osservava: «I protestanti tengono un contegno audace e parlano di “missioni” da svolgere in Italia. A ciò ha giovato la legge sui culti ammessi anziché tollerati»43. Malgrado la persecuzione subita durante gli anni del fascismo (gli avventisti furono spesso associati ai pentecostali dagli organi di polizia e catalogati come «sovversivi», di cui si denuncia la «pericolosità sociale» in quanto promotori di «attività antinazionali e antimilitaristiche»)44, l’Opera crebbe ulteriormente e nel 1946 i membri di questa Chiesa battezzati erano 1.290. Ma l’azione repressiva non venne meno. Dal 1947 al 1953 si sono verificati in Italia 215 casi di intolleranza religiosa. Nel solo 1952 quattro locali di culto avventisti furono chiusi dalla polizia violando la Costituzione e alcuni pastori furono denunciati e processati (poi di solito assolti). Malgrado angherie e soprusi di vario genere, gli avventisti erano oltre 3.000 nel 1963 e 4.577 nel 1978. Oggi sono 9.070 suddivisi in 109 chiese (alcune di immigrati) e 19 gruppi, con una casa editrice, una radio (Voce della speranza, con 9 emittenti, fondata nel 1979) e una Scuola di cultura biblica a Firenze. Nel 1977 il governo ha riconosciuto ai lavoratori e agli studenti avventisti il diritto di fruire del riposo settimanale il sabato anziché la domenica. In seguito hanno ottenuto l’intesa con lo Stato prevista dall’articolo 8 della Costituzione e oggi concorrono con altre Chiese alla ripartizione del fondo ottopermille.
Quale può essere il contributo specifico degli avventisti alla testimonianza cristiana nell’Italia unita? Può essere individuato nei seguenti punti. (1) Come le altre Chiese evangeliche e, in generale, tutte le Chiese cristiane, essi predicano l’Evangelo di Gesù Cristo, con la particolare sottolineatura della sua seconda venuta, che era la grande attesa dei primi cristiani, ma che si è andata affievolendo nei secoli, fino a scomparire quasi del tutto dal ‘vissuto’ concreto della fede, anche se continua a essere professata nel Credo. (2) Molto importante, malgrado il suo carattere apparentemente secondario, è la questione della ‘decima’. Questa regola che, vista da fuori può apparire persino un po’ esosa, contiene un grande insegnamento: la Chiesa deve poter vivere e operare grazie al sostegno materiale dei suoi membri; la sua autonomia finanziaria rispecchia la sua autonomia spirituale. (3) Sulla questione del sabato come giorno di riposo e di culto, non è forse tanto importante la scelta del giorno quanto piuttosto la qualità del modo di ‘santificarlo’: qui gli avventisti manifestano una serietà che non si riscontra altrove. (4) Le regole alimentari seguite dagli avventisti sono un modo per onorare la verità biblica che il nostro corpo è «tempio dello Spirito Santo». (5) Innumerevoli sono le loro iniziative in campo sociale: in Italia si segnalano in particolare nella lotta contro l’usura. Sul piano politico sono in prima fila nella difesa e promozione della libertà religiosa.
Il pentecostalesimo, che ha da poco celebrato in Italia e nel mondo (è infatti largamente diffuso in tutti i continenti) il suo primo centenario di esistenza, è il più recente dei grandi movimenti di risveglio cristiano con questa unica caratteristica: è, nella storia della Chiesa, il primo movimento cristiano di massa imperniato sull’esperienza dello Spirito Santo e della sua opera multiforme. Il nome esprime bene la natura del fenomeno: si tratta di Pentecoste, non però come evento del passato da ricordare e celebrare, ma come esperienza da vivere e rivivere oggi.
La prima Chiesa pentecostale italiana non nacque in Italia, ma a Chicago, dove un gruppo di emigrati italiani già divenuti evangelici si costituirono come comunità autonoma che chiamarono «Assemblea cristiana». Lì fecero l’esperienza del battesimo nello Spirito Santo diventando così pentecostali: era il 15 settembre 1907. L’anno successivo uno di loro, Giacomo Lombardi, originario di Prezza (L’Aquila), tornò in Italia e cominciò a evangelizzare. Dalle sue conversazioni bibliche nacque a Roma, nel 1910, la prima comunità pentecostale in Italia. In poco tempo, malgrado ogni genere di difficoltà, quella particolare esperienza di fede si diffuse, tanto che appena vent’anni dopo i pentecostali erano già presenti in 149 località. La diffusione fu spontanea, senza alcun intervento esterno. Fin dal principio il pentecostalesimo fu «totalmente “indigeno”»45: missionari furono sempre solo gli stessi pentecostali, desiderosi di comunicare ad altri l’esperienza che aveva cambiato la loro vita. «Nella maggioranza dei casi si trattava di poveri braccianti derisi per la loro poca cultura, spesso cacciati dai propri familiari, licenziati e lasciati senza lavoro dai padroni terrieri istigati dal clero locale»46. L’esperienza religiosa dei primi pentecostali era tutta e solo centrata sulla Bibbia, che essi leggevano come se fossero stati contemporanei della generazione apostolica. Poco o nulla sapevano di storia della Chiesa e neppure immaginavano che c’era stata una riforma della Chiesa nel secolo XVI e in seguito diversi ‘risvegli’, di cui quello pentecostale era l’ultimo. Essi non sapevano di essere figli della Riforma: si consideravano e chiamavano semplicemente ‘cristiani’. Nel 1930 venne adottato il nome ufficiale di Congregazione cristiana pentecostale. La struttura congregazionalista dalla Chiesa, per cui ogni comunità locale si autogoverna e non dipende da nessuna autorità centrale, impedì un’iniziativa unitaria del movimento per ottenere quel riconoscimento giuridico da parte dello Stato, che la nuova legge sui culti ammessi del 1929 sembrava rendere possibile. Persa quella occasione, accadde il contrario. Il regime fascista, dopo il colloquio tra Mussolini e Pio XI del 1932 cui già s’è fatto cenno, si dichiarò disponibile a frenare l’avanzata del protestantesimo nella sue varie espressioni. La Chiesa che fu più direttamente oggetto della repressione fu proprio quella pentecostale. Lo fu anche l’Esercito della salvezza, come già s’è detto, al quale il regime fascista dichiarò guerra, dopo averla dichiarata all’Inghilterra, sciogliendolo d’autorità nell’agosto del 1940 e sequestrando i suoi beni. L’intera operazione fu apprezzata e apertamente elogiata dal Vaticano. Duramente perseguitati dal fascismo furono anche i testimoni di Geova, che pur non essendo una chiesa evangelica, furono a essa associati e sistematicamente condannati al carcere o al confino perché considerati una «setta antifascista e anti-italiana al massimo grado», tanto che essi per sopravvivere «dovettero accettare una clandestinità probabilmente paragonabile a quella dei pentecostali»47. Solo i pentecostali però furono perseguitati «in nome della razza» (italiana, evidentemente!), come accadde il 9 aprile 1935 con la circolare che il sottosegretario Guido Buffarini Guidi inviò a tutti i prefetti d’Italia, in cui si disponeva che il culto pentecostale non potesse «ulteriormente essere ammesso nel regno […] essendo risultato che esso si estrinseca e concreta in pratiche religiose contrarie all’ordine sociale e nocive all’integrità fisica e psichica della razza»48. Perciò le comunità dovevano essere sciolte, i locali di culto chiusi, le riunioni di qualsiasi genere, pubbliche e private, vietate, le attività religiose, «in qualsiasi altro modo o forma», soppresse. Insomma, la Chiesa pentecostale doveva essere cancellata dal suolo italiano. È probabile che l’appello alla «razza» e alla difesa della sua «integrità» fosse solo un pretesto per colpire una comunità assolutamente inerme, alla quale nulla in realtà si poteva rimproverare, e di nulla poteva essere incolpata, se non di esistere e di predicare Gesù Cristo e il suo Evangelo secondo le modalità di un’esperienza cristiana ed evangelica diversa da quella tradizionale nel nostro paese. Ma quello che è ancora più grave della circolare stessa, per quanto infame fosse, è che essa, come già s’è detto, è rimasta in vigore fino al 16 aprile 1955, «a vergogna dell’Italia democratica»49, per la riluttanza dei governi democristiani succedutisi dal 1948 al 1955, ad abrogare una circolare in così aperto contrasto non solo con la Costituzione e prima ancora con la realtà delle cose, ma anche con criteri elementari di civiltà.
A motivo di quella circolare le Chiese pentecostali, anche dopo la Liberazione, continuarono a essere discriminate con divieti, denunce, chiusure di locali di culto, arresti e processi: dal 1948 al 1952 ci furono nel nostro paese atti di intolleranza e persecuzione in oltre ottanta diverse località50. I pentecostali dovettero condurre una lunga battaglia politica e legale per ottenere il riconoscimento giuridico come ente di culto. A questo fine si affiliarono alle «Assemblee di Dio» degli Stati Uniti, senza nulla sacrificare della loro autonomia, e nel 1947 presero il nome di «Assemblee di Dio in Italia». La domanda di riconoscimento, presentata nel 1948, fu boicottata dall’allora ministro dell’Interno Mario Scelba, contro il quale le Chiese pentecostali ricorsero, nel 1954, al Consiglio di Stato, che accolse la loro istanza e nel 1954 la discusse dando ragione ai pentecostali, che però ottennero il sospirato riconoscimento solo il 5 dicembre 1959. Tutte queste traversie non frenarono minimamente l’espansione del movimento, che continuò ininterrotta, dotandosi tra l’altro di un Istituto Biblico per la formazione dei pastori, di una casa editrice e di una radio, e dando vita ad alcune opere sociali. Nel 1988 le Assemblee di Dio in Italia stipularono l’intesa con lo Stato, definita «un evento storico senza precedenti per le Chiese pentecostali italiane»51, che, tra le altre cose, consente loro di partecipare alla ripartizione del fondo ottopermille. Le Assemblee di Dio in Italia contano oggi 45.608 membri comunicanti (battezzati con il battesimo dei credenti), 15.380 membri aderenti (non ancora battezzati), 22.207 studenti della Scuola Domenicale, per un totale di 83.195 membri distribuiti in 409 chiese (superiori a 30 membri), 418 gruppi (inferiori a 30 membri) e 266 stazioni di evangelizzazione. A questi occorre aggiungere 16.805 membri di chiese formate da pentecostali immigrati. Il totale complessivo è di 100.000 membri circa. I pastori pentecostali iscritti al ruolo sono 537.
Ma non tutti i pentecostali italiani appartengono alle Assemblee di Dio. Esistono, accanto a loro, molte chiese pentecostali indipendenti, non collegate a nessun organismo nazionale, di cui non è facile conoscere il numero e la consistenza. Ed esiste in particolare, dall’8 aprile del 2000, una Federazione delle Chiese pentecostali italiane, di cui sono membri 7 Chiese a diffusione nazionale, 8 a diffusione regionale, 8 locali (alcune di grandi dimensioni), con una popolazione complessiva di oltre 50.000 membri suddivisi in circa 400 chiese. La Federazione si è dotata anche di una «Facoltà pentecostale di studi religiosi», con sede ad Aversa e operativa dal 2007.
Le Chiese pentecostali rappresentano dunque di gran lunga la più numerosa e capillare presenza evangelica in Italia. Da soli, dopo appena un secolo di esistenza, sono molti di più di tutti gli altri evangelici messi insieme. Quale contributo possono recare alla testimonianza cristiana nel nostro paese? Ecco i tre maggiori. Il primo è senza dubbio la stessa ragion d’essere di questa Chiesa che, in contesti e modi completamente diversi da quelli vaticinati nel secolo XII da Gioacchino da Fiore, è una prima risposta, non l’ultima e neppure l’unica possibile, ma comunque una risposta alla speranza che animava Gioacchino di veder apparire nella storia una Chiesa dello Spirito, cioè appunto una Chiesa pentecostale, cioè vissuta come corpo carismatico, nel quale Dio è conosciuto più come δύναμις («potenza»), che come λόγος («pensiero, ragionamento»). La comunicazione del messaggio avviene attraverso il racconto di esperienze vissute più che attraverso discorsi persuasivi e argomenti razionali. Assolutamente centrale per tutti è l’esperienza della salvezza in Cristo, riassunta nella formula: Gesù salva – guarisce – battezza [nello Spirito] – ritorna. Il cristianesimo storico, pur avendo sempre ‘glorificato’ lo Spirito Santo nel quadro della dottrina trinitaria di Dio, è stato, in generale, nei suoi venti secoli di storia, poco ‘pentecostale’, nel senso che lo Spirito non è stato protagonista della sua esperienza di fede. In questo senso il movimento pentecostale non può non interpellare, a diversi titoli, il cristianesimo storico. Un secondo contributo del pentecostalesimo alla testimonianza cristiana nell’Italia d’oggi è il fatto della sua diffusione negli strati più umili della popolazione e fra gli ultimi della società. È una viva illustrazione della parola di Gesù con la quale attesta la sua messianicità: «l’Evangelo è annunziato ai poveri» (Mt. 11,5). Così fu nel secolo I, così è oggi in tutti i continenti grazie soprattutto al movimento pentecostale. Così è stato ed è in Italia. Il cristianesimo storico, divenuto in larga misura religione del ceto medio, ha molto da guadagnare, sotto questo profilo, a incontrare i pentecostali italiani e ascoltare le loro esperienze. Il loro terzo contributo, infine, è lo zelo evangelistico che li caratterizza: nessuna Chiesa li eguaglia in questo campo. Ed è senza dubbio questa la ragione della loro crescita: ogni pentecostale diventa immediatamente missionario; l’esperienza dello Spirito è una inesauribile fonte di mobilitazione. I pentecostali ricordano agli altri cristiani che la Chiesa è missione o non è.
Di questa Chiesa di matrice risorgimentale abbiamo già fatto qualche cenno in precedenza. È una Chiesa evangelica radicale nel suo biblicismo. Le sue origini risalgono all’iniziativa di due notevoli personalità: il conte Piero Guicciardini, già menzionato, e Teodorico Pietrocola-Rossetti. Non si tratta di una Chiesa strutturata come corpo ecclesiale unitario con una direzione centrale, ma di una rete di comunità spiritualmente collegate e unite da una stessa fede e uno stesso modo di leggere la Bibbia. Questo suscita in loro e tra di loro un sentimento di comune appartenenza e di fraternità condivisa, anche se ciascuna Chiesa vive e opera autonomamente, secondo i canoni di un rigido congregazionalismo. L’espressione ‘Chiesa dei Fratelli’ è dunque impropria; esistono invece le ‘Chiese cristiane evangeliche (dei Fratelli)’, che più che una denominazione vorrebbero essere un movimento. Esse nascono nella prima metà dell’Ottocento e affondano le loro radici in un particolare tipo di ‘risveglio’ anglosassone caratterizzato, tra le altre cose, da un giudizio critico severo del cristianesimo storico nelle sue varie espressioni (non solo quella cattolica, ma anche quelle protestanti). Questo giudizio, in una corrente del movimento (detta dei ‘Fratelli stretti’, o anche ‘darbista’ dal nome del fondatore: John Nelson Darby), si radicalizzò assumendo venature apocalittiche: la categoria di apostasia divenne chiave di lettura del cristianesimo storico, considerato ormai irrecuperabile; nessuna riforma avrebbe potuto salvarlo in quanto era irrimediabilmente perduto. L’unica scelta coerente era uscire da ‘Babilonia’ e attendere fiduciosi la venuta del Signore, unica speranza e unica salvezza, che proprio per questo non poteva tardare. Questa venatura apocalittica è oggi presente solo in una minoranza delle Chiese dei Fratelli italiane, mentre la maggioranza ne è esente, ma non lo è stata del tutto in passato. Durante il fascismo, per esempio, circolava tra i Fratelli una lettura della storia ispirata alle profezie di Daniele e all’Apocalisse, secondo cui fascismo e comunismo erano due dittature che stavano facendo precipitare il mondo verso la sua fine, mentre l’apostasia delle Chiese si rivelava definitiva. Questi erano altrettanti ‘segni’ degli ultimi tempi, come lo erano la persecuzione nazista degli ebrei e la prevista creazione di uno Stato ebraico. Imminente era dunque la venuta del Signore, che secondo la promessa (1a Tes. 4,17) avrebbe ‘rapito’ i credenti portandoli in cielo. C’era chi attendeva questo rapimento della Chiesa «nel bel mezzo della guerra mondiale», identificata con «la grande tribolazione» prevista dall’Apocalisse (7, 14)52. Oggi questo genere di letture della storia non è più praticato nelle Chiese dei Fratelli, se non in circoli ristretti, mentre era ed è rimasta viva in tutte esse l’esigenza della ‘separazione’ dal mondo, nel senso della parola del profeta Geremia citata dall’apostolo Paolo: «Uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d’immondo; e io vi accoglierò, e vi sarò per Padre e voi mi sarete per figli e figlie» (2a Cor. 6, 17-18). Separarsi dal mondo vuol anche dire separarsi dalle Chiese storiche, perché anch’esse sono «mondo», rivestito di religione cristiana. È questa la ragione per la quale le Chiese dei Fratelli, in generale, non coltivano rapporti con altre Chiese, neppure con quelle evangeliche e, di solito, non partecipano a iniziative ecumeniche e tanto meno siedono in organismi ecumenici, tranne rare eccezioni.
I Fratelli sono, come i pentecostali e i valdesi, una Chiesa ‘indigena’, ma non pochi missionari, soprattutto anglofoni, hanno lavorato in Italia per loro. La storia di queste Chiese in Italia è simile a quella delle altre Chiese evangeliche53. L’Opera ha conosciuto momenti di espansione e momenti di ripiegamento su di sé, comunque da 150 anni è un dato costante del panorama religioso e cristiano italiano. Oggi conta 267 ‘assemblee’ o comunità, alcune piccole altre grandi, diffuse soprattutto in Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche e Puglia, con un totale di circa 11.000 membri battezzati. Alla domanda quale possa essere il loro contributo alla testimonianza cristiana nel nostro paese, si potrà rispondere in due tempi. In un primo tempo si potrà mettere in luce il valore cristiano di alcune caratteristiche loro proprie (anche se non esclusive), come per esempio il rigore morale di stampo puritano, l’insistenza sulla necessità della conversione e rigenerazione personale, l’autonomia finanziaria dallo Stato (queste Chiese non hanno l’intesa con lo Stato e quindi non partecipano, per scelta, alla ripartizione del fondo ottopermille), il sacerdozio universale dei credenti (carattere laico, non sacerdotale, del ministro, sul quale si impongono le mani come conferimento di un mandato, non di un potere; sono Chiese senza pastori ordinati, rette localmente da ‘anziani’ non stipendiati). In un secondo tempo si potrà individuare il contributo maggiore di queste Chiese nel loro grande amore per la Sacra Scrittura, che certo non è neppure questo esclusivo, ma in loro è più vivo che altrove.
In un’area vicina alle Chiese dei Fratelli e a quelle battiste, ma come opera indipendente, si colloca l’«Istituto di formazione evangelica e documentazione» (Ifed), creato a Padova nel 1988. Il suo scopo è di operare sul piano della cultura teologica e storica, svolgendo «attività che contribuiscano ad orientare e formare una coscienza specificatamente evangelica in tutte le sfere dell’esistenza umana». Pubblica la rivista semestrale «Studi di teologia».
Anche la storia dei valdesi dal 1861 a oggi è simile a quella delle altre Chiese evangeliche nell’Italia unita. Anche i valdesi, come gli altri evangelici, vincendo resistenze esterne e interne, hanno compiuto un grande sforzo evangelistico svolto da pastori, colportori54, maestri delle numerose scuole evangeliche aperte in diverse località della penisola. Nel primo cinquantennio dell’Italia unita la maggior parte delle comunità valdesi oggi esistenti sorse fuori dalle Valli. Per promuovere e coordinare questo sforzo fu creata fin dal 1860 una apposita Commissione di evangelizzazione, che diede forti impulsi all’opera nel suo insieme. Nello stesso anno fu deciso il trasferimento a Firenze – allora capitale d’Italia – della Facoltà di teologia e della casa editrice Claudiana. Queste decisioni strategiche rivelavano la volontà dei valdesi di immergersi nella realtà italiana dopo secoli di esclusione e segregazione. Il fatto che la loro piccola, e umanamente così fragile, comunità dissidente fosse sopravvissuta attraverso i secoli a tante traversie e ad avversità di ogni genere venne interpretato in questo modo: la comunità era sopravvissuta perché aveva una missione da compiere. E la missione era questa: far conoscere in Italia la parola di Dio attraverso la Sacra Scrittura, allora largamente sconosciuta dal popolo italiano. Questa missione era la ragion d’essere della Chiesa e lo è rimasta fino ai nostri giorni. Interrotta per forza di cose durante il ventennio fascista, l’evangelizzazione è ricominciata nel secondo dopoguerra con l’adesione di alcune nuove comunità. È continuata anche in seguito, di solito non attraverso apposite ‘campagne’ evangelistiche come quelle promosse da altre Chiese, ma attraverso la predicazione domenicale e la testimonianza dei credenti. Un modo nuovo di evangelizzare è stato quello del pastore Tullio Vinay (1909-1997), «certo la figura più carismatica del valdismo del Novecento»55: sia la comunità di Firenze, dove fu pastore durante la guerra salvando non pochi ebrei dall’arresto e dalla deportazione, sia il Centro ecumenico Agape, da lui creato nelle Valli Valdesi nei primi anni Cinquanta, sia il Servizio cristiano di Riesi (Sicilia), iniziato nei primi anni Sessanta, sia infine il Senato della Repubblica (Vinay fu senatore dal 1976 al 1983) sono stati altrettanti luoghi di comunicazione dell’Evangelo in forme ogni volta nuove.
Accanto all’evangelizzazione tre altri fatti maggiori hanno caratterizzato la storia valdese negli ultimi 150 anni: l’emigrazione nel Sud America e altrove; la produzione, in Italia, di una cultura teologica protestante; la lotta per la libertà religiosa e per l’attuazione delle intese previste dalla Costituzione per le Chiese diverse dalla cattolica romana.
[a] L’emigrazione fu imposta ai valdesi, come a moltissimi altri italiani, dalla miseria di tante famiglie numerose ridotte letteralmente alla fame56. Dato che i valdesi da secoli praticavano l’agricoltura, furono scelti, come paesi di emigrazione, l’Uruguay e l’Argentina che offrivano molta terra non ancora coltivata. L’emigrazione in Uruguay iniziò nel 1856, quella in Argentina nel 1857 e proseguì con ritmi variabili fino alla metà del Novecento. A differenza però della emigrazione in altri paesi (Francia, Stati Uniti), dove i valdesi entrarono a far parte di Chiese riformate del luogo, mantenendo con la Chiesa italiana ovvi rapporti di fraternità ma non più di appartenenza, in Uruguay e Argentina, pur dando vita a una «Chiesa valdese del Rio de la Plata», rimasero uniti alla Chiesa d’origine, tanto che oggi la Chiesa valdese è un unico corpo ecclesiale distribuito in due ‘zone’, quella italiana e quella rioplatense: ciascuna gode di autonomia amministrativa, ma nelle questioni di fede le decisioni, per essere valide, devono essere condivise da entrambe.
[b] La produzione di una cultura teologica protestante in Italia e il dialogo e il confronto di questa con la cultura laica e con quella cattolica hanno avuto e continuano ad avere nella Facoltà valdese di teologia il suo principale strumento57. Per circa un secolo, fino alconcilio Vaticano II, essa è stata l’unico spazio in Italia, insieme alla casa editrice Doxa di Giuseppe Gangale, dove la teologia e in generale il pensiero protestante europeo hanno trovato udienza nel nostro paese. Al tempo stesso la Facoltà valdese ha, in parte almeno, ripensato e riproposto questa cultura dall’angolo visuale proprio di una piccola Chiesa della diaspora protestante del Sud Europa. Uomini come Alberto Revel (1837-1888), Emilio Comba (1839-1904), Teodoro Longo (1879-1930), Giovanni Luzzi (1856-1948), Giovanni Miegge (1900-1961), il maggiore teologo protestante italiano del Novecento, Vittorio Subilia (1911-1988) e Valdo Vinay (1906-1990) hanno accreditato la Facoltà valdese come interlocutrice a pieno titolo nel mondo accademico italiano e, in generale, nella cultura, non solo religiosa e non solo universitaria. Essa pubblica la rivista teologica «Protestantesimo». Una menzione a parte merita Ugo Janni (1865-1938), già vecchio cattolico, poi pastore valdese, un outsider in tutti i sensi, che influenzò non poco il pensiero religioso della sua epoca con molte pubblicazioni e la rivista «Fede e vita»58. Sul piano della ricerca storica, esiste dal 1881 una «Società di studi valdesi» che promuove studi sul valdismo e sui movimenti di riforma religiosa in Italia e pubblica una rivista semestrale intitolata «Bollettino».
[c] La lotta per la libertà religiosa ha accompagnato tutta la storia valdese nell’Italia unita ed ha avuto tre momenti salienti: la legge sui culti ammessi del 1929, l’art. 8 della Costituzione repubblicana e l’abrogazione della legislazione fascista sui «culti acattolici», l’intesa con lo Stato nel 1984. (1) La legge sui culti ammessi costituì oggettivamente un passo avanti rispetto alla legislazione precedente che dichiarava solo «tollerati» i culti diversi da quello cattolico. È comprensibile quindi che tutte le Chiese evangeliche abbiano accolto con favore questa legge, ritenendo che essa sancisse la libertà religiosa, anche perché l’art. 5 stabiliva che «la discussione in materia religiosa è pienamente libera». La realtà fu però molto diversa: l’interpretazione che lo Stato poliziesco diede della legge fu molto restrittiva e in qualche caso repressiva. Come già s’è detto, l’Esercito della salvezza e le Chiese pentecostali furono soppresse e le altre Chiese, più che realmente ‘ammesse’, furono a mala pena tollerate e sottoposte a rigidi controlli. Sotto il fascismo la situazione giuridica delle Chiese evangeliche in Italia formalmente progredì, ma in realtà regredì di molto. (2) Per iniziativa del Sinodo valdese fu creato nel 1946 un «Consiglio Federale della Chiese evangeliche in Italia» che svolse una vasta azione per la libertà religiosa in vista della Assemblea costituente59, affiancata da numerose altre iniziative. In un manifesto murale del 1946 gli evangelici chiedevano «piena e completa libertà di coscienza e di religione, assoluta indipendenza di tutte le Chiese dallo Stato, neutralità religiosa e imparzialità dello Stato, aconfessionale e libero da ogni ingerenza ecclesiastica»60. La Costituzione raccolse in parte queste istanze e in parte le disattese. Accogliendo con l’art. 7 i patti lateranensi del 1929, mantenne la posizione di privilegio occupata dalla Chiesa cattolica rispetto alle altre, tanto che l’art. 8 non parla di ‘uguaglianza’ di tutte le Chiese ‘davanti alla legge’, ma solo di «uguale libertà». Comunque, se la Costituzione fosse stata applicata, avrebbe assicurato alle Chiese diverse dalla cattolica ampia libertà in ogni campo. Ma così non fu61. Una lunga battaglia civile, politica e giuridica fu necessaria per ottenere la progressiva abrogazione della legislazione fascista sui «culti ammessi», cui contribuì in maniera decisiva la Corte costituzionale, creata però solo nel 1956. Protagonista di questa battaglia fu il laico valdese Giorgio Peyrot (1910-2005)62. (3) L’«intesa tra lo Stato italiano e le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese» (legge dell’11 agosto 1984)63 in attuazione del comma 3 dell’art. 8 della Costituzione, fu la prima della serie e aprì la strada alle altre che da allora si sono succedute, mentre manca ancora in Italia una legge-quadro sulla libertà religiosa. La stipula dell’intesa con la Tavola Valdese è stato un atto di civiltà giuridica di notevole significato per tre motivi maggiori. Il primo è che quella intesa ha dato corpo e forma a un istituto nuovo nell’ordinamento giuridico italiano. Il secondo è che la Chiesa valdese, stipulando l’intesa, ha superato la sua tradizionale posizione favorevole a un regime di pura e semplice separazione tra Chiesa e Stato. Il terzo è che lo Stato italiano, con quell’intesa e le altre successive, ha rinunciato a legiferare unilateralmente, d’autorità, in materia religiosa, accettando il principio secondo cui la regolamentazione dei suoi rapporti con le Chiese e altre comunità religiose, dev’essere frutto di una trattativa diretta con i soggetti interessati64. In sostanza il regime delle intese comporta una democratizzazione dei rapporti tra Stato e comunità religiose presenti nel suo territorio.
I membri comunicanti delle Chiese valdesi e metodiste in Italia sono oggi 19.057, mentre la ‘popolazione’ (che comprende aderenti, simpatizzanti, fanciulli e catecumeni) è di 26.141 persone. A fronte di queste cifre piuttosto modeste, colpisce e stupisce il numero molto alto delle firme dell’ottopermille a favore della Chiesa valdese, secondo il dato più recente fornito dal ministero: 357.752. Esiste dunque oggi in Italia un’area di simpatia nei confronti di questa minoranza cristiana molto superiore al numero dei suoi membri.
La Chiesa elivangelica luterana in Italia (Celi), costituitasi come tale nel 1948, ma presente nel nostro paese fin dal Cinquecento (la comunità di Venezia esiste da allora e Venezia è l’unica città italiana in cui il culto evangelico, in forma luterana, ha potuto essere celebrato ininterrottamente dal Cinquecento fino a oggi), è ancora in larga misura, come già s’è detto, una ‘chiesa ospite’: i culti sono celebrati in lingua tedesca (tranne che nella chiesa di Torre Annunziata). Da un ventennio circa però è in corso un processo di lenta «italianizzazione» di questa Chiesa, che si manifesta, tra l’altro, così: in alcune comunità si celebra periodicamente un culto in lingua italiana; la Celi fa parte a pieno titolo della Federazione della Chiese evangeliche in Italia; essa collabora attivamente con la casa editrice Claudiana di Torino, sostenendo in particolare la pubblicazione delle collane di «Opere scelte» di Lutero e di Melantone; partecipa anch’essa, come altre Chiese evangeliche italiane, alla ripartizione del fondo ottopermille. Le comunità luterane in Italia sono 15 e i membri di chiesa sono 7.243. Il contributo della Celi alla testimonianza cristiana nel nostro paese è ovviamente legato al nome di Lutero e alla sua iniziativa riformatrice che, dopo mezzo millennio, resta un punto di riferimento per chi vuole comprendere l’Evangelo della grazia e della libertà.
Qual è il significato delle minoranze cristiane nell’Italia unita, di cui abbiamo fatto cenno nelle pagine precedenti?65 Il loro significato può essere riassunto così: essere in Italia una presenza evangelica ed ecumenica. ‘Presenza evangelica’ perché il protestantesimo, nelle sue diverse configurazioni confessionali e denominazionali, ha un’unica ragion d’essere: annunciare l’Evangelo, cioè il messaggio degli apostoli e dei profeti, che si riassume nel nome di Gesù Cristo, come messaggio di grazia immeritata e incondizionata, e cercare di testimoniarlo con la vita personale e comunitaria. L’Evangelo è infatti il «tesoro nascosto» (Mt. 13, 44) della Chiesa e del mondo, la parola che libera che guarisce e che salva. ‘Presenza ecumenica’ perché il cristianesimo è per sua natura plurale e solo nell’incontro di tutte le tradizioni esso realizza la sua pienezza. Nessuna Chiesa o tradizione esaurisce il fatto cristiano e quindi nessuna può essere ecumenica da sola. Ciascuna, per essere compiutamente cristiana, ha bisogno delle altre. Per questo, pur nella modestia dei loro numeri, le minoranze cristiane nell’Italia del 2011 sono sempre meno marginali e possono ormai essere considerate parte integrante del presente e del futuro della testimonianza cristiana nel nostro paese.
1 Encyclopaedia Universalis, XI, Paris 1977, pp. 72-76.
2 E. Buonaiuti, Pietre miliari nella storia del Cristianesimo, Modena 1935, p. 178.
3 Ibidem, pp. 171-203.
4 Mt. 5-7.
5 Questi tratti distintivi sono ampiamente documentati e illustrati dalla più recente, ampia monografia sul movimento valdese delle origini: C. Papini, Valdo di Lione e i «Poveri nello Spirito». Il primo secolo del movimento valdese (1170-1270), Torino 2001, 20022.
6 Ibidem, pp. 344 segg.
7 V. Vinay, Le Confessioni di fede dei Valdesi riformati. Con i documenti del dialogo tra la «prima» e la «seconda» Riforma, Torino 1975, p. 37.
8 Ibidem, pp. 36-117.
9 A. Armand-Hugon, Storia dei valdesi, II, Dall’adesione alla Riforma all’Emancipazione (1532-1848), Torino 1974, p. 21.
10 Ibidem, pp. 30 segg.
11 Chiesa Evangelica Valdese, Raccolta delle discipline vigenti nell’ordinamento valdese, Torino 2009, pp. 7-25.
12 Ibidem, p. 6.
13 Ibidem, p. 25.
14 A. Armand-Hugon, Storia dei valdesi, cit., II, p. 298.
15 V. Vinay, Storia dei Valdesi, III, Dal movimento evangelico italiano al movimento ecumenico (1848-1978), Torino 1980, p. 37.
16 V. Vinay, Evangelici italiani esuli a Londra durante il Risorgimento, Torino 1961.
17 G. Spini, Risorgimento e Protestanti, Milano 1956, Torino 20083 (1ª edizione 1956), p. 300.
18 G. Spini, L’Evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa Cristiana Libera in Italia (1870-1904), Torino 1971.
19 D. Maselli, Tra Risveglio e Millennio. Storia delle Chiese cristiane dei Fratelli 1836-1886, Torino 1974.
20 V. Vinay, Storia dei Valdesi, cit., III, p. 75.
21 G. Spini, Italia liberale e Protestanti, Torino 2002, p. 231.
22 Il volume ebbe sei edizioni in breve tempo, a riprova dell’interesse con cui gli ambienti protestanti inglesi seguivano le vicende italiane, soprattutto dopo l’annessione all’Italia dello Stato della Chiesa.
23 F. Chiarini, Storia delle Chiese metodiste in Italia (1859-1915), Torino 1999, pp. 13, 18.
24 Ibidem, p. 64.
25 Termine coniato da G. Gangale, Revival, Milano 1929, p. 57. Questo scritto di Gangale è stato ristampato a Palermo nel 1991, con una nota di Alberto Cavaglion.
26 G. Spini, Italia liberale, cit., p. 224. L’autore dedica al «massonevangelismo» un capitolo del volume (pp. 221-227).
27 Ibidem, pp. 211-219.
28 Ibidem, p. 212.
29 D. Maselli, Storia dei battisti italiani 1873-1923, Torino 2003, p. 99.
30 Ibidem, p. 100.
31 G. Spini, L’Evangelo e il berretto frigio, cit., p. 332.
32 Ibidem, p. 334.
33 G. Gangale, Revival, cit., p. 77.
34 Ibidem, p. 82 segg.
35 Cfr. Una resistenza spirituale. “Conscientia” 1922-1927, a cura di D. Dalmas, A. Strumia, Torino 2000, p. 171.
36 Essendo poco noto in Italia, diamo alcune informazioni di base. Fu fondato dal predicatore metodista William Booth che, in seguito a una campagna di evangelizzazione nei quartieri poveri di Londra, creò nel 1865, insieme alla moglie Catherine, una Associazione cristiana per il risveglio, che si estese rapidamente e nel 1869 prese il nome di Missione cristiana. Nel 1877 l’opera fu strutturata secondo il modello militare e nel 1878 divenne l’Esercito della salvezza (Salvation Army), per muovere guerra a ogni tipo di male, miseria e peccato. L’‘Esercito’, di cui il fondatore fu il primo ‘generale’ con il ‘quartier generale’ a Londra, crebbe rapidamente ed è oggi diffuso in tutti i continenti. I ‘salutisti’ nel mondo – ‘soldati’ e ‘ufficiali’ – sono circa un milione e gestiscono più di tremila opere sociali. Sono, tra l’altro, ben conosciute la tempestività e la qualità dei loro interventi di soccorso nei frequenti casi di catastrofi e calamità naturali.
37 D. Armistead, Cristiani in divisa. Un secolo di storia dell’Esercito della Salvezza fra gli italiani (1887-1987), Torino 1987.
38 P. Ricca, prefazione a A. Lesignoli, L’Esercito della salvezza. Una introduzione, Torino 2007, pp. VI segg.
39 «Minestra – sapone – salvezza».
40 Le sue origini risalgono alle teorie millenariste del battista William Miller (1782-1849), agricoltore autodidatta, che fondandosi sulla profezia di Dan. 8,14, calcolava che il ritorno di Cristo sarebbe avvenuto nel 1844. Superata con difficoltà la crisi dovuta al mancato avverarsi della previsione, fu soprattutto una donna, Ellen Gould White (1827-1915) a plasmare il movimento con un solido impianto dottrinale, organizzativo e missionario. Il tema del ritorno (o secondo avvento: da qui il nome «avventista») rimase centrale come parte integrante del credo cristiano (ma diventata de facto marginale nel cristianesimo storico), rinunciando però a qualsiasi indicazione di date. Gli avventisti condividono con tutte le altre Chiese le dottrine fondamentali della fede cristiana; con le Chiese protestanti condividono le affermazioni centrali della Riforma, quindi la dottrina del primato della Scrittura e quella della giustificazione per fede e salvezza per grazia. Professano e praticano però alcune dottrine loro particolari, e cioè: l’osservanza del sabato, anziché della domenica, come giorno di riposo e di culto (il «settimo giorno» menzionato nel nome della Chiesa è appunto il sabato); l’astensione dagli alcolici, dal fumo e da ogni tipo di droga, come pure da tè e caffè; pratica della decima prescritta dall’Antico Testamento, cioè l’offerta alla Chiesa della decima parte delle proprie entrate.
41 G. De Meo, «Granel di sale». Un secolo di storia della Chiesa cristiana Avventista del 7° Giorno in Italia (1864-1964), Torino 1980, p. 85.
42 Ibidem, p. 126.
43 Ibidem, pp. 1143 segg.
44 Ibidem, p. 162.
45 D.A. Womack, F. Toppi, Le radici del movimento pentecostale, Roma 1989, p. 123.
46 Ibidem, p. 126.
47 G. Rochat, Regime fascista e Chiese evangeliche. Direttive e articolazioni del controllo e della repressione, Torino 1990, pp. 300-301. Quest’opera, documentatissima, è fondamentale per rendersi conto di quanto il fascismo, sia di propria iniziativa sia perché incoraggiato e sollecitato dalla Chiesa cattolica a livello centrale e locale, abbia non solo controllato e in vario modo intimidito, ma anche realmente perseguitato, sia pure con diversa intensità a seconda delle Chiese, il piccolo protestantesimo italiano.
48 Ibidem, p. 246.
49 Ibidem, p. 246.
50 Un caso limite, ai confini del grottesco, fu quello della giunta municipale del Comune di Cavaso del Tomba (Treviso) che il 6 aprile 1950 negò la concessione di acqua potabile per uso domestico al pastore italoamericano Enrico Marin, con la motivazione che il suddetto esercitava «nel paese il culto pentecostale che, oltre a essere proibito dallo Stato Italiano, urta il sentimento cattolico della stragrande maggioranza del popolo di questo Comune», in D.A. Womach, F. Toppi, Le radici del movimento pentecostale, cit., p. 147, n. 43.
51 Ibidem, p. 180.
52 D. Maselli, Libertà della Parola. Storia delle Chiese cristiane dei Fratelli 1886-1946, Torino 1978, p. 140.
53 Cfr. D. Maselli, Libertà della Parola, cit.; Id., Tra Risveglio e Millennio, cit.
54 Il ‘colportore’ è una figura tipica e tutt’altro che secondaria dell’evangelizzazione italiana: si tratta di un ministero itinerante, al servizio di una Chiesa o della Società biblica britannica e forestiera, svolto da una persona che, muovendo da una località all’altra, vendeva soprattutto bibbie, ma occasionalmente anche opuscoli di edificazione cristiana o anche di controversia religiosa. Il colportore era naturalmente anche un testimone della fede evangelica.
55 G. Bouchard, Chiese e movimenti evangelici del nostro tempo, Torino 1992, 20063, p. 120, n. 6.
56 V. Vinay, Storia dei Valdesi, cit., III, p. 205.
57 V. Vinay, La Facoltà Valdese di Teologia 1855-1955, Torre Pellice 1955.
58 C. Milaneschi, Ugo Janni pioniere dell’ecumenismo in Italia, Torino 1979.
59 G. Peyrot, La libertà di coscienza e di culto di fronte alla Costituente italiana, Roma s.d.
60 V. Vinay, Storia dei Valdesi, cit., III, p. 424, n. 14.
61 G. Peyrot, L’intolleranza religiosa in Italia nell’ultimo quinquennio, «Protestantesimo», 8, 1953, pp. 1-39.
62 G. Peyrot, Gli Evangelici nei loro rapporti con lo Stato dal fascismo a oggi, Torre Pellice 1977; G. Long, Le confessioni religiose «diverse dalla cattolica». Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Bologna 1991; Normativa ed Organizzazione delle minoranze confessionali in Italia, a cura di V. Parlato, G.B. Varnier, Torino 1992.
63 A. Ribet, Per un’alternativa al Concordato. Testo commentato dell’intesa tra Stato italiano e chiese rappresentate dalla Tavola Valdese, Torino 1988.
64 G. Peyrot, Condizione giuridica delle confessioni religiose prive di Intesa, in Nuovi accordi fra Stato e Confessioni religiose, Milano 1985 (Raccolta di studi della rivista «Il Diritto Ecclesiastico»), pp. 383-421.
65 Vi sono altre Chiese evangeliche all’opera nel nostro paese, di cui per ragioni di spazio non abbiamo potuto parlare. Eccone alcune: la Chiesa apostolica in Italia, di matrice pentecostale, diffusa a livello nazionale; le Chiese di Cristo, presenti in Italia dal 1949; la Chiesa evangelica del Nazareno, in Italia dal 1948; la Chiesa apostolica italiana, presente in Toscana; la Missione per l’Evangelo in Italia, presente dal 1969; numerose chiese pentecostali ed evangeliche autonome. Esistono anche due distinte strutture di incontro e collaborazione: la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, dal 1967, con sede a Roma; l’Alleanza evangelica, sorta in Europa già a metà Ottocento.
Una menzione particolare merita l’alto numero di Chiese evangeliche di lingua straniera, cui già s’è fatto cenno, formate da immigrati provenienti sia da paesi dell’Est europeo (specialmente dalla Romania), sia soprattutto dall’Africa, dall’Asia (Corea e Cina) e dall’America Latina. Molte di esse hanno stabilito rapporti con le Chiese italiane ed è in corso un processo di incontro e integrazione, non sempre facile, chiamato «Essere chiesa insieme». Vi sono poi, in alcune grandi città, chiese evangeliche di lingua inglese, battiste, metodiste e riformate. Infine va menzionata la Comunione anglicana, che non appartiene al mondo delle Chiese evangeliche, ma è anch’essa, con caratteristiche sue proprie, una «Chiesa della Riforma». Essa esiste in Italia fin dall’Ottocento, sia come Chiesa d’Inghilterra (con un importante Centro anglicano a Roma), sia come Chiesa episcopaliana (gli anglicani d’America).