CELSI, Mino Gregorio Romolo
Figlio di Giovanni di Mino e di Vittoria di Francesco Tancredi, fu battezzato il 22 sett. 1514 a Siena.
La sua famiglia apparteneva alla nobiltà senese e più precisamente al gruppo consortile del Monte dei dodici. Nelle guerre e nei disordini del quinto e del sesto decennio del sec. XVI i Gelsi sembravano propendere più per il partito spagnolo che per quello francese, come del resto i Tancredi con i quali peraltro non potevano gareggiare sul piano della preminenza. Dopo che Siena nel 1555 aveva perso la sua indipendenza, vari membri delle due famiglie cercarono di conquistarsi il favore di Cosimo I de' Medici duca di Firenze, certo più per necessità che per mancanza di sentimenti repubblicani. Il nome dei Celsi è perpetuata nel loro castello d'origine Celsa, a una dozzina di chilometri a ovest di Siena, nella Montagnola senese. Già nel 1549, dopo la morte del padre, il C. condivideva il possesso di Celsa con lo zio Cristofano di Mino, (nato nel 1489). Dallo stesso documento risulta anche che era proprietario di due fattorie confinanti con il castello, di rendita piuttosto modesta. Possedeva terre un po' più vaste a Caiole in Valderbia, mentre il palazzo di città a Siena era soltanto preso in affitto.
Un fratello del C. di nome Camillo, del quale non si hanno altre notizie, è ricordato due volte nel carteggio del Celsi. Se possiamo prestare fede alla copia di una lettera fatta dal C. stesso, nel 1544 questi cercò di ottenere per il fratello, un ecclesiastico, il permesso di studiare tutti i libri eretici. Con questo Camillo non si deve però confondere il cugino omonimo, figlio di Cristofano (battezzato il 5 sett. 1515), il quale nel 1553 cadde prigioniero dei Fiorentini e nel 1555 diventò cancelliere della prima Balia senese sotto il reggimento mediceo. Più tardi si fece monaco e fondò un asilo per fanciulle povere. I documenti che lo riguardano lasciano intravvedere una personalità originale, le cui iniziative spesso suscitavano scandalo. Un Camillo Celsi nel 1579 si dovette giustificare davanti all'Inquisizione romana, ma purtroppo non si conoscono altri particolari di questo processo e soprattutto non è possibile stabilire se si trattasse del cugino oppure addirittura del fratello del Celsi.
Nel 1538 circa il C. sposò Virginia Saracini. Da questo matrimonio nacquero, secondo una fonte non del tutto attendibile, tra il 1540 e il 1554, cinque figli e tre figlie. Alcuni di questi figli sono ricordati negli annali delle autorità senesi. La famiglia Celsi si estinse nel secolo XVII. A Siena il C. iniziò la sua carriera nella magistratura, cittadina. Tra il 1535 e il 1555 fu sette volte membro del Concistoro; nel 1546 fece parte per la prima, volta della Balia, l'autorità centrale munita di ampi poteri, che aveva servito già nel 1544 come cancelliere o segretario. Al tempo del governo mediceo fu altre quattro volte membro della Balia, nel 1557, 1559, 1562, 1566. Nel frattempo gli erano stati affidati anche incarichi amministrativi nel contado: nella prima metà del 1552 fu podestà di San Quirico e capitano di Valdorcia; dall'ottobre 1558 al gennaio 1560 podestà di Massa Marittima, dove tornò dall'aprile 1561 fino al marzo 1562 come capitano ducale; dal 1° maggio 1564 esercitò per un anno le funzioni di capitano a Casole d'Elsa, e dal marzo 1567 quelle di capitano di Montalcino.
Ma tra i punti salienti della sua carriera si debbono annoverare indubbiamente le ambascerie. Dalla fine di agosto alla fine di ottobre 1545 si trattenne alla corte del governatore spagnolo di Milano, Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, come ambasciatore della Repubblica senese. Nell'inverno 1555-56 fu di nuovo a Milano per trattare con il duca d'Alba. Nel giugno 1563 fu mandato presso il duca Cosimo I, con cui aveva condotto trattative già nel 1555 durante il viaggio a Milano. Durante la sua prima ambasceria milanese riferì dettagliatamente al suo governo, con una serie di lettere, sull'andamento delle trattative che avevano per oggetto il ritiro delle truppe spagnole dal territorio senese. Il C. seguì coscienziosamente le istruzioni dategli, ma la realizzazione, seppur tardiva, dell'obiettivo senese va attribuita in buona parte alle trattative dirette tra la Repubblica e la corte imperiale di Bruxelles. Importanza ancora maggiore avrebbero potuto avere le trattative condotte dal C. dieci anni più tardi con l'Alba. Allora Siena era sconfitta militarmente e rovinata economicamente. Ma poco dopo l'arrivo del C. a Milano il centro delle decisioni si spostò a Siena stessa, dove nel frattempo, era giunto il plenipotenziario spagnolo, Francisco Mendoza, cardinale di Burgos. Delle sue udienze a Firenze c'è da dire che il C. era, conosciuto personalmente dal duca Cosimo. Da tutta la sua carriera amministrativa e diplomatica risulta che il C. fu magistrato competente e scrupoloso ma non fu certamente tra i politici che più contarono nella Siena di quel tempo.
Il C. prese viva parte anche alla vita culturale della sua città e soprattutto all'attività letteraria dell'Accademia degli Intronati.
In una delle raccolte di manoscritti provenienti dall'ambiente degli Intronati si conserva una sua versione italiana dell'epode II di Orazio (Beatus ille). Essa è dedicata all'arcivescovo di Siena, Francesco Bandini. Piccolomini, che alla fine del poema viene invitato a cercare ristoro nella quiete ombrosa di Celsa. Altre raccolte similari conservano il pornografico Capitolo del Cavalcare. Altri temi tipici dell'ambiente degli Intronati si ritrovano nel carteggio con Claudio Tolomei, vescovo di Curzola, le cui proposte per una riforma ortografica vengono criticate benevolmente dal Celsi. Tutto il carteggio con il Tolomei è conservato in un copialettere autografo del C. che comprende lettere degli anni 1543-51 e nel quale si trovano anche riferimenti ad altri suoi amici e conoscenti.
L'amico più stretto fu Alessandro Bellanti, il quale insieme al più conosciuto Fabio Benvoglienti, anch'egli un corrispondente del C., aveva fatto temporaneamente parte della cerchia intorno al Tolomei. Come risulta dal carteggio, oltre al Bellanti, facevano parte della cerchia letteraria del C. anche altri Intronati, tra i quali Camillo de' Falconetti, Antonio Renieri e Figliuccio Figliucci, più tardi vescovo di Chiusi. Vi si trovano anche i nomi di personaggi conosciuti durante il suo soggiorno milanese, tra i quali Bernardo, Spina e soprattutto il suo concittadino Luca Contile, con i quali il, C. intratteneva rapporti epistolari. Si conservano nel copialettere anche missive indirizzate a personaggi più elevati, come Giorgio Manrique e Giovanni Trivulzio, ai quali il C. si rivolge con grande deferenza. Nel complesso, la scelta di lettere conservate nel copialettere rivela coscienza della propria condizione di patrizio e ambizione sociale, alle quali si aggiungono senza frattura, e, tutto sommato, si subordinano gli interessi culturali.
La prova decisiva del distacco del C. dalla fede cattolica è fornita dalla sua fuga dall'Italia nel 1569. Ancora non è possibile stabilire con esattezza come e quando acquistasse le nuove convinzioni religiose, in che cosa consistessero precisamente e con quali amici le condividesse. Il comportamento successivo e la cerchia degli amici che frequentava lasciano però supporre che egli fosse di sentimenti evangelici e contrario al calvinismo rigoroso. Cè motivo di credere che l'abbandono dell'ortodossia fosse in rapporto con il soggiorno di Aonio Paleario a Siena e nella vicina Colle Val d'Elsa. È certo però che la fuga dall'Italia fu causata direttamente o indirettamente dal processo del Paleario davanti all'Inquisizione romana. Prima del 1569 negli scritti del C. fino ad oggi conosciuti non si trova accenno ai suoi sentimenti filoprotestanti che tuttavia non è improbabile fossero ben noti negli ambienti senesi da lui frequentati. È possibile che nel momento critico egli abbia distrutto materiale che avrebbe potuto essergli nocivo, ma può anche essere che semplicemente non sentisse il bisogno di esprimere per iscritto le sue convinzioni religiose, tanto più che, come si può supporre, i suoi amici ne erano a conoscenza e spesso pensavano come lui. Infatti i suoi rapporti con certi amici si spiegano sia con l'affinità religiosa sia con l'appartenenza allo stesso ceto sociale.
In questi due sensi si possono interpretare anche i rapporti con Marcantonio Cinuzzi, il quale, alla fine della sua vita, passò cinque anni nel carcere dell'Inquisizione romana, dal 1578 al 1583. Il soprannome di Cinuzzi tra gli Intronati era "lo scacciato"; il C. lo menziona una sola volta nel 1549, come autore di un Canto nuziale, dunque in modo del tutto insospettabile. Dello stesso anno si conservano due lettere cortesi del C. a Isabella Breseña Manrique, la quale più tardi, dopo la morte del marito, abbandonò l'Italia e trovò rifugio a Chiavenna, dove morì nel 1567, due anni prima che il C. vi iniziasse il suo esilio religioso. Non esiste tuttavia nessuna prova che egli l'abbia mai incontrata personalmente. Meglio documentati sono invece i rapporti con il figlio di Isabella, Giorgio, il quale però non condivideva la fede evangelica della madre. Quanto al già menzionato parente del C., Camillo, è molto probabile che egli avesse tendenze eterodosse. Poco chiari sono invece i rapporti che legavano il C. all'agostiniano Giuliano da Colle, da lui incontrato a Milano, forse in compagnia di Aonio Paleario, il quale aveva proprietà a Colle. Si conserva una lettera occasionale del C. a fra' Giuliano del 1550, cioè due anni dopo che il frate era stato sospettato di eresia, a quanto pare senza conseguenze rilevanti. Qualche eretico si trova tra i parenti degli amici del C., Fabio Benvoglienti, Deifebo Spannocchi e Orazio Ragnoni, ma essi stessi non furono mai sospettati di eresia. Bisogna ricordare infine Francesco Franchini, il quale alla fine della sua vita diventò vescovo di Massa, dove risiedette nel 1559 per qualche mese, insieme al Celsi. Non esiste alcun indizio che il Franchini stesso abbia avuto simpatie per la Riforma, sebbene fosse in rapporti con Ascanio Marso, di sicure tendenze eterodosse, il quale nel 1558 indusse il tipografo protestante Pietro Perna a ristampare a Basilea le poesie latine alla moda del Franchini.
Alla metà di luglio 1569 il C. fuggì dalla sua città natale, con il pretesto di sottrarsi ai suoi creditori. In effetti la sua situazione finanziaria non era delle migliori, ma le autorità competenti non avevano dubbi che egli volesse sottrarsi all'arresto e al trasferimento a Roma. L'Inquisizione doveva tenerci molto a impadronirsi della sua persona, se al caso furono interessati non solo il cardinale prefetto del S. Uffizio e il governatore di Siena, ma anche Pio V stesso, Cosimo I e il suo erede Francesco. Il fuggitivo si diresse con tutta probabilità direttamente verso i Grigioni. Una lettera del 10 maggio 1570 lo indica presente a Piuro presso Chiavenna. Nel corso del semestre estivo 1571 si immatricolò all'università di Basilea. Durante il suo soggiorno a Basilea collaborò di tanto in tanto con il tipografo Pietro Perna, probabilmente senza entrare in un rapporto di impiego regolare. Nel 1572 uscirono due libri stampati dal Perna con lettere dedicatorie del C.: si tratta di Artis chemicae principes Avicenna atque Geber, con una dedica a Pierre de Grantrye, ambasciatore francese nei Grigioni, e del Novum Iesu Christi Testamentum Latine et Gallice, tradotto da S. Castellion, con una dedica a sir Francis Walsingham, allora ambasciatore inglese a Parigi.
Le due lettere dedicatorie mostrano che il C. era in cerca di una posizione corrispondente al suo rango. Lo stesso desiderio lo condusse all'inizio del 1573 a Vienna, dove sperava di trovare un posto alla corte, tramite il medico dell'imperatore, Iohannes Crato. Come nel caso di Grantrye gli importava di trovare un protettore tollerante, non necessariamente protestante. Nella primavera del 1573 Crato poteva ancora riferire che al C. fino ad allora erano state risparmiate le indigenze dell'esistenza di esule. Ma il 30 genn. 1574 il C., scoraggiato, scrisse di non ricevere dall'Italia, il che vuol dire dalla sua famiglia, né lettere né soldi. Durante gli ultimi tre mesi del 1573 era stato accolto a Francoforte in casa di uno dei conti di Diez, figli del langravio Filippo di Assia nati dal matrimonio "collaterale". Il giovane conte desiderava esercitarsi nella conversazione italiana; quando però iniziò un viaggio che l'avrebbe allontanato per parecchio tempo da Francoforte, il C. dovette separarsi da lui. Allora sia la sua salute che il suo stato d'animo vengono descritti a fosche tinte. Nell'autunno del 1574 era nuovamente a Basilea, dove nella primavera seguente Giovanni Bernardino Bonifacio lo soccorse con tatto facendogli avere otto fiorini d'oro. Una lettera indirizzata al Bonifacio del 31 marzo 1575 è l'ultima testimonianza di mano sua che possediamo, ma egli probabilmente era ancora vivo il 19 maggio, sempre a Basilea. È verosimile che morisse non molto tempo dopo. Le fonti di quella città, che fino ad allora lo avevano ricordato di frequente, tacciono, e i pochi riferimenti a lui degli anni seguenti che si trovano altrove, confermano indirettamente le indicazioni contenute nella prefazione della sua opera De haereticis, pubblicata nel 1577, che lo dicono defunto al momento della pubblicazione. Nel periodo passato a Basilea il C. era in rapporti, oltre che con il già menzionato G. B. Bonifacio, con Theodor Zwinger e Basilius Amerbach, ma anche con una serie di emigrati italiani come Ester Castiglione Colli, Francesco Betti, Andrea Petri, Marcello Squarcialupi e Giovanni Michele Bruto, i due ultimi di passaggio durante il loro viaggio verso est.
Nel 1577 Pietro Perna pubblicò a Basilea l'unica opera del C. apparsa a stampa: De haereticis coercendis quatenus progredi liceat Mini Celsi Senensis disputatio ("Christlingae" 1577). Il nome del tipografo è taciuto, quello del curatore, Johannes Fischatt, si nasconde dietro iniziali oscure. Anche se il manoscritto, che non ci è pervenuto, dovette probabilmente essere rivisto prima di essere stampato, lo scritto era stato progettato ed elaborato con cura dal C. stesso. Già poco tempo dopo la sua fuga dall'Italia egli aveva cominciato a stendere una prima redazione in italiano e il lavoro si protrasse tra interruzioni e modifiche, probabilmente fino alla sua morte. In conseguenza il grande trattato del C. a difesa della tolleranza religiosa non appare scritto di getto. Si possono distinguere chiaramente concetti di base contrastanti. Da un lato lo scritto dipende fortemente da Sébastien Castellion, sia nell'argomentazione sia in molti punti particolari e citazioni a sostegno delle tesi sostenute. In quanto confutazione degli argomenti di Calvino e di Beza a favore della repressione degli eretici, l'opera del C. si presenta come polemica aspra, rivolta non solo contro la Chiesa cattolica ma anche contro il calvinismo autoritario, anziché difesa illimitata della tolleranza religiosa. Dall'altra parte il C. si pone l'obiettivo di trattare esaurientemente la controversia sulla tolleranza e di giungere a una soluzione obiettiva del problema cercando di dimostrare, partendo dai Padri della Chiesa, un vasto consenso. Così procedendo, arriva a una condanna decisa della pena di morte per gli eretici, ma anche ad accettare forme più miti dell'uso della forza, nel caso che gli eretici non si volessero limitare a sostenere verbalmente il loro punto di vista. Andò ancora oltre nell'ultimo libro del suo trattato, dove, apparentemente incurante della libertà di coscienza e sulla scia dello zwingliano Wolfgang Musculus, riconosceva all'autorità temporale la piena "cura religionis" . L'opera del C. influenzò durevolmente, anche se non in modo decisivo, la controversia sulla tolleranza.
Il copialettere autografo del C. si conserva nell'Archivio di Stato di Siena, D 154; diverse lettere, tra le quali anche le relazioni della sua ambasceria a Milano del 1545, si conservano nello stesso archivio, Balia 686-688; quindici lettere ufficiali della Repubblica di Siena, firmate dal C. nella sua qualità di cancelliere della Balia, del 1544-45, si conservano nell'Archivio di Stato di Firenze, Mediceo 1850; nello stesso fondo Mediceo si trova sparsa anche la corrispondenza con Cosimo I. Altre lettere si conservano nell'Archivio comunale di Massa Marittima e nella Biblioteca universitaria di Basilea, Handschriftenabteilung. La versione dell'epodo oraziano nella Biblioteca comunale di Siena, ms. H.X.5, ff. 35-42; Ibid., ms. H.X.21, ff. 90-94 il Capitolo del Cavalcare (una copia si conserva nella Biblioteca naz. di Firenze, ms. Palatino 302).
L'interessante ipotesi, avanzata dal Cantimori, che il C. potesse essere l'autore di un lungo frammento di lettera sulla discriminazione religiosa nei Grigioni (Berna, Burgerbibliothek, ms. A.93.11), non è provata e concorda difficilmente sul piano cronologico con i fatti a nostra conoscenza. Il C. sicuramente non è l'autore dei cinque trattatelli in forma epistolare di contenuto filosofico-teologico che si conservano nella Biblioteca comunale di Siena, ms. D.VII.13.
Le copie rimaste invendute della citata ediz. del De haereticis coercendis furono ripresentate sul mercato con nuovo frontespizio e ulteriori modifiche e aggiunte con il titolo Mini Celsi Senensis De haereticis capitali supplicio non afficiendis, s. l. 1584. Un breve compendio degli argomenti del C. fu pubblicato prima in olandese e poi in latino da D. Zwicker, Vereenings-schrift der Christenen, Amsterdam 1661, e Henoticum Christianorum seu disputationis Mini Celsi ... lemmata potissima, Amsterdam 1662. Il testo completo dell'edizione critica degli scritti e della corrispondenza del C. è stato preparato dallo scrivente per il Corpus Reformatorum Italicorum.
Bibl.: J. G. Schelhorn, Dissertatio epistolaris de Mino Celsi Senensi, Ulm1748; F. Buisson, Sébastim Castellion, sa vie et son oeuvre, Paris 1892, II, pp. 308-13; D. Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze 1939, pp. 296-306 e passim; G. Catoni, Un copialett. di M. C. nell'Arch. di St. di Siena, in Critica storica, IV (1967), pp. 470-479; L. Fimpel, M. C.s Traktat gegen die Ketzertötung..., Basel-Stuttgart 1967; P. G. Bietenholz, Questioni su M. C. da Siena,in Bollett. della Società di studi valdesi, XCIII (1972), pp. 69-76; Id., M. C. and the Toleration controversy of the Sixteenth Century, in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXXIV (1972), pp. 31-47.