MINIATURA - Islam
La m. è l'esempio più eclatante di quanta poca importanza abbia avuto, nello sviluppo artistico della cultura islamica, la formalizzazione di un pregiudizio iconoclasta che certa teologia è andata postulando solo a posteriori, cioè negli ḥadīth, ben dopo la stesura del Corano. La m., infatti, sfugge più facilmente della pittura a una presunta proibizione delle immagini: dal momento che è parte integrante di un manoscritto, del cui contenuto costituisce l'illustrazione, essa ha una circolazione limitata, ristretta molto spesso a un ambito privato e dunque non reca offesa a un pubblico che segua diversi princìpi nei riguardi della rappresentazione artistica.
La m. islamica ha avuto senza dubbio i suoi prototipi nella m. e, più in generale, nella pittura delle tre grandi civiltà con cui l'Islam entrò in contatto al momento della conquista: ebrei e cristiani a Occidente, zoroastriani a Oriente; espressioni artistiche di elevato livello erano anche degli Arabi medesimi, sia di quelli che abitavano una certa parte della penisola arabica sia di quelli che erano già emigrati in Siria e in Mesopotamia. Non poca influenza ebbe anche l'arte dei manichei (attestati anch'essi nei territori orientali) su certa m. persiana d'età islamica: il fondatore di questa dottrina religiosa, Mani, era stato egli stesso pittore e miniaturista (Arnold, 1924; Monneret de Villard, 19773).Le illustrazioni dei manoscritti venivano eseguite da un pittore o miniaturista (il quale difficilmente era anche il calligrafo che copiava il testo), in molti casi affiancato da uno o più artisti che collaboravano quasi sempre contemporaneamente ma talvolta completavano l'opera anche a distanza di mesi o anni.I manoscritti islamici illustrati, interi o frammentari, pervenuti sino a oggi sono composti da fogli ricavati pressoché esclusivamente da carta, a sua volta ottenuta dal lino e dalla canapa e solo in rari casi dal cotone (Karabacek, 1887; Babinger, 1931). Essa sarebbe divenuta nota in territorio islamico in seguito alla cattura di fabbricanti di carta cinesi durante una battaglia svoltasi nel 751 nei pressi di Samarcanda, città nella quale i prigionieri specialisti avrebbero poi fondato la prima fabbrica islamica producendo una carta nota come samarqāndī (Pelliot, 1929; The Topkapı Saray Museum, 1986, p. 17). Si conoscono anche altre città o regioni del territorio musulmano che, nel corso dei secoli, sono state le maggiori produttrici di carta e che hanno legato i loro nomi alle differenti specie fabbricate: a Baghdad veniva lavorata la carta baghdādī, a Dawlatābād la dawlatābādī; ῾Alī Efendi (Manāqib-i Hünervarān; fine sec. 16°) elenca ben undici tipi di carta (Martin, 1912, p. 105).
Gli strumenti fondamentali utilizzati per illustrare un manoscritto erano due: il calamo, o penna d'oca, e il pennello. Il primo consentiva al miniaturista di realizzare il disegno al tratto, con punte più o meno sottili a seconda delle necessità; il secondo, composto di setole animali e disponibile in una sofisticata gamma di misure, era lo strumento della pittura vera e propria (Laurie, 1934). La tecnica pittorica impiegata era generalmente la tempera; i colori si ottenevano per lo più da minerali mescolati a un collante organico: il rosso veniva ricavato da ossidi di zolfo e mercurio, il blu dal lapislazzuli. Alcune scuole fecero largo uso anche dell'oro (Huart, 1908, pp. 8-13), che veniva generalmente applicato in foglia, una tecnica ampiamente utilizzata anche in Occidente, che, con un complesso procedimento, riduceva il metallo in sottili lamelle già 'pronte per l'uso'; in alcuni casi anche l'oro veniva spennellato dopo essere stato diluito. Un certo numero di notizie a proposito della tecnica pittorica dell'Islam altomedievale viene fornito dal trattato di ottica di Ibn al-Haytham, morto nel 1038 (Kitāb fī 'l-manāẓir, III, 11; Krenkow, 1925, p. 51).Questi procedimenti lavorativi così complessi e differenziati necessitavano di veri e propri laboratori nei quali copisti e pittori, maestri e discepoli fornivano la loro opera su precisa commissione: in altre parole non aveva corso un 'libero mercato' sul quale i pittori potevano presentare la loro abilità al migliore offerente, ma esistevano officine, che fungevano anche da scuole per gli apprendisti, dove i miniaturisti erano impiegati fissi. È quasi inutile aggiungere che questi laboratori erano alle dipendenze della classe dirigente, quasi un'esclusiva della corte: molto frequentemente il sovrano medesimo ne era a capo, prendendo precise posizioni non solo sulla scelta dei manoscritti da copiare e illustrare, ma determinando, con l'ingaggio di taluni artisti provenienti da aree e culture ben precise, la scelta di tecniche, varianti iconografiche e stili che contraddistinguevano i laboratori medesimi. Dei vari 'lavoranti' il pittore, benché dotato di un certo prestigio, soprattutto nei casi di fama riconosciuta, era soltanto uno fra gli altri: nei laboratori più importanti, infatti, vi erano anche i fabbricanti di carta (in quelli minori questa poteva essere acquistata), i calligrafi - di cui si conoscono molti nomi - che si occupavano della copiatura dei testi, i lavoratori del cuoio che fabbricavano le legature, i rilegatori stessi e così via. Per quanto fosse un personaggio di primo piano fra gli addetti alla produzione di un manoscritto illustrato, senza dubbio al pittore non venivano tributati - salvo rare e tarde eccezioni - particolari onori. Se ne riscontra una testimonianza nell'assenza, molto frequente, della firma in margine alla m. stessa o della menzione del suo nome nel colofone.
I manoscritti illustrati islamici che si sono conservati rappresentano oltre ogni dubbio soltanto un'esigua parte di quanto fu prodotto nei secoli. Poche o comunque ininfluenti sono state le catastrofi naturali; furono soprattutto le azioni degli uomini a determinare la distruzione o la dispersione di un patrimonio immenso. Il mecenatismo che spinse molti sultani e principi musulmani a favorire, in particolare, l'arte del libro con la creazione di appositi laboratori mirava non tanto o non soltanto alla diffusione della 'cultura', sempre in circuiti più o meno ristretti, quanto all'affermazione politica del potere del committente e custode del patrimonio. Ciò, comunque, poteva accadere solo dopo che il sovrano si fosse 'acclimatato' e avesse recepito e rielaborato la cultura rappresentata da quel popolo che di volta in volta veniva conquistato. Segno o soltanto risultato della conquista era la distruzione o la dispersione delle biblioteche delle grandi capitali.Quando, nel 1029, Maḥmūd (998-1030) di Ghazna fece il suo ingresso nella città buyide di Rayy devastò gran parte della biblioteca; i volumi superstiti furono portati a Ghazna stessa, ma non trovarono pace nemmeno lì, dove furono bruciati dai Ghuridi (1000 ca.-1215) nel 1150. Sempre in questa parte orientale del territorio islamico le invasioni che si succedettero portarono ancora distruzioni: tragica fu la calata mongola del 1258 su Baghdad, la capitale degli Abbasidi (v.), nelle cui biblioteche era stato accumulato durante i secoli un numero immenso di volumi, dispersi dalla grande inondazione del Tigri artatamente procurata; fine migliore non fece il patrimonio librario dopo l'invasione timuride.Le biblioteche fatimidi del Cairo subirono invece una 'svendita'. Esse custodivano manoscritti, moltissimi illustrati, sia d'età fatimide sia d'età precedente, e non soltanto egiziani: è molto probabile che vi fossero conservati anche volumi bizantini. Pare che la svendita abbia avuto inizio nel 1068 per far fronte ai debiti califfali (Wiet, 1963), ma questo non fu che il primo atto di una totale dispersione, un danno incalcolabile per la storia della cultura.Il più antico manoscritto illustrato musulmano di cui si abbia notizia, ma che purtroppo non è sopravvissuto, è una descrizione dei re sasanidi e delle loro imprese, contenente i ritratti di venticinque re e due regine. Il medesimo codice (o due copie dello stesso) è descritto da due autori: Mas'ūdī e Iṣṭakhrī. Il primo, nel Kitāb al-tanbīh wa'l-ishrāf, racconta di averlo veduto in casa di un notabile a Iṣṭakhr nell'anno 915: egli descrive la prima e l'ultima delle ventisette m. - dipinte in base ai ritratti che di ogni sovrano venivano eseguiti dopo la morte - e precisa che l'opera, basata su documenti trovati negli archivi persiani della città nel 731 (non si sa se la copia che egli descrive fosse scritta in arabo o in persiano), fu tradotta dal persiano all'arabo per ordine del califfo omayyade Hishām (724-743). Alla metà ca. del sec. 10° il geografo Iṣṭakhrī descrive (Arnold, 1928, p. 63) un manoscritto dalle stesse caratteristiche che egli vide nel castello di Shīz, nel Nord della Persia, nei pressi di uno dei più famosi templi zoroastriani.
Per ciò che riguarda ancora il sec. 8°, Rice (1959, pp. 208-209) sostiene che, in base a quanto afferma lo stesso Ibn al-Muqaffa' nell'introduzione alla sua traduzione in arabo delle favole indiane di Bidpai (Kalīla wa Dimna), almeno l'originale in arabo dell'opera, se non i suoi modelli, fosse ampiamente illustrato.Il più antico codice illustrato datato è il Ṣuwar al-kawākib al-thābita (Libro delle stelle fisse), copiato dal figlio dell'autore nel 1009 (Oxford, Bodl. Lib., Marsh 144; Wellesz, 1959; 1964; Brend, 1994). Il testo è in lingua araba, composto da ῾Abd al-Raḥmān al-Ṣūfī, nativo di Rayy, intorno al 965 in onore del sultano buyide ῾Aḍūd al-Dawla (949-983). L'opera critica i trattati arabi del sec. 9° che si rifacevano al testo greco classico dell'Almagesto di Tolomeo, e le m. di questo manoscritto - che raffigurano le costellazioni celesti - si discostano dall'iconografia dei prototipi greci; Wellesz (1959, p. 9, figg. 10-12) si sofferma, per es., sulla figura di Andromeda - discussa da Ettinghausen (1962, p. 53) -, nuda e incatenata a una roccia nelle rappresentazioni classiche, completamente vestita, ricoperta di gioielli e quasi in passo di danza nella corrispondente m. del testo islamico (c. 167r). Lo stile in cui sono eseguite le illustrazioni riflette perfettamente l'eclettismo del periodo, ove concorrono pure elementi tardoellenistici e centroasiatici (Brend, 1994). Di quest'opera restano anche altri manoscritti più tardi (Ettinghausen, 1962, pp. 130-131, 136, 162; The Topkapı Saray Museum, 1986, pp. 29-30; Raby, 1994). Di essi ha una storia particolare un volume che ne contiene la traduzione in persiano fatta da Naṣīr al-Dīn Ṭūsī, eseguito nel 1249-1250 in Azerbaigian, a Maragha - del cui osservatorio astronomico Ṭūsī era stato il fondatore -, e posseduto prima da Sulṭān Aḥmad Jalā'ir (1382-1410), poi dal timuride Ulugh Beg (1394-1449), che lo conservò presso l'osservatorio astronomico da lui fondato a Samarcanda, infine da ῾Alī Kushjī, ultimo direttore di questo, che nel 1471 lo portò a Istanbul, dove ancora oggi viene custodito (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Ayasofya 2595; The Topkapı Saray Museum, 1986, p. 29).Scuola egiziana prefatimide e fatimide. - Se nel territorio mesopotamico le grandi devastazioni ricordate non hanno impedito la conservazione di un certo numero di manoscritti illustrati, ciò non è accaduto per l'Egitto fatimide (909-1171). A questo periodo, infatti, appartiene soltanto un esiguo numero di schizzi, disegni, dipinti e frammenti di codici miniati, eseguiti in stili differenti, provenienti da al-Fusṭāṭ e conservati in varie collezioni pubbliche e private (Ettinghausen, 1942; Grube, 1995a). Fra questi sarebbe assegnabile alla fine del sec. 9° o agli inizi del 10°, in base allo stile calligrafico del testo, un frammento di manoscritto che narra la storia di due amanti (Vienna, Öst. Nat. Bibl., inv. A.Ch. 25612). Esso è illustrato da un'immagine (Arnold, Grohmann, 1929, tav. I) che mostra due tombe fra le quali è posto un albero fiorito. Rice (1959) adduce una serie di argomentazioni a sostegno di un'ipotesi di coevità di testo e illustrazione: se così fosse ci si troverebbe di fronte a uno dei più antichi manoscritti illustrati sopravvissuti. Fra i pochi frammenti di codici illustrati di età fatimide si ricordano due m. poste rispettivamente sul recto e sul verso di un foglio appartenente a un manoscritto disperso del Kitāb al-ḥayawān - un'opera sul linguaggio degli animali selvatici - di Ka'b al-Aḥbār, attribuito agli inizi del sec. 12° (New York, Metropolitan Mus. of Art, 54.108.3; Grube, 1963, figg. 7-8): i tratti e lo stile sono simili a quelli della coeva ceramica (v.) a lustro e di ciò che resta della pittura (v.).Scuola occidentale. - Sono conservati due manoscritti (Parigi, BN, arab. 2850; Roma, BAV, arab. 368), l'uno attribuito solitamente alla Spagna del sec. 12°-13°, l'altro all'Africa del Nord o alla Spagna del 13° secolo. Il primo comprende i volumi dal secondo al quarto (Arabesques et jardins, 1989, pp. 196-198) del De materia medica di Dioscoride (v.) in versione araba (Grube, 1959, pp. 169-170; Sadek, 1983; Grube, 1995b, p. 520): come negli erbari di tradizione classica, il testo scritto è interrotto, di volta in volta, per fare spazio alla rappresentazione della pianta di cui si parla. Il secondo manoscritto (Ḥadīth Bayāḍ wa Riyāḍ) illustra con quattordici bellissime m. la storia d'amore di due giovani, Bayāḍ e Riyāḍ: lo stile pittorico è molto affine a quello fatimide, dal quale, con ogni probabilità, deriva (Monneret de Villard, 1941).Scuola abbaside. - Sin dagli inizi del sec. 9° la Baghdad abbaside diede un notevole impulso alla cultura: il califfo al-Ma'mūn (813-833) istituì il Bayt al-ḥikma, un ufficio addetto alla trascrizione in arabo di testi scritti in varie lingue: vi lavoravano musulmani, cristiani - soprattutto nestoriani - e 'pagani', quali sabei o anche brahmani. Si operavano traduzioni dal greco, dal pahlavī (medio-persiano), dal sanscrito e dal siriaco (Reinolds, Wilson, 19742, pp. 38-69, 220-225). Un libraio di Baghdad vissuto alla fine del sec. 10°, al-Nadīm, redasse un catalogo delle opere che possedeva (Dodge, 1970): nella maggioranza dei casi non si trattava di manoscritti illustrati, ma fra questi egli cita una copia del Ṣuwar al-kawākib al-thābita di alṢūfī; al-Nadīm non si riferiva al manoscritto originale, oggi perduto, ma senza dubbio a un volume a lui coevo, che non corrisponde alla succitata copia più antica conservata. Un grande lasso di tempo separa quest'ultima, risalente ancora al primo decennio del sec. 11°, dalle successive pervenute, le più antiche delle quali appartengono al 12° secolo.La scuola di Baghdad curò edizioni di opere sia scientifiche sia letterarie. Fra le prime si segnalano le versioni in arabo del De materia medica di Dioscoride: se ne conservano molte copie (Grube, 1959; 1995b, pp. 519-524), fra le altre si ricordano: quella di Leida (Bibl. der Rijksuniv., Or. 289), datata al 1083; quella di Istanbul (Süleymaniye Kütüphanesi, Ayasofya 3703), copia non integra, poiché trentuno m. furono strappate e vendute, tra le quali è famosa quella raffigurante la 'farmacia', datata al 1224 (New York, Metropolitan Mus. of Art, 57.51.21, c. unica; Ettinghausen, 1962, fig. a p. 87); infine quella di Bologna (Bibl. Univ., ar. 2954; Gabrieli, Scerrato, 1979, figg. 715-722), datata al 1244, con quattrocentosettantacinque illustrazioni di piante medicinali e arricchita dalla presenza di figure animali e umane, fra cui una raffigurazione di Dioscoride, Luqmān e Aristotele (c. 141r; Grube, 1959, fig. 8).Molto importanti sono anche tre copie del Kitāb al-bayṭara (Libro dell'ippiatria) di Aḥmad ibn al-Ḥusayn ibn al-Aḥnaf (Grube, 1977; v. Bestiario): una fra la fine del sec. 12° e gli inizi del 13° (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Fatih 3609); un'altra del marzo 1209 (Cairo, Nat. Lib., 8f. Khalīl Āqā), le cui m. sono purtroppo in cattivo stato; l'ultima del 1210 (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., A.III 2115).Fra le opere di carattere letterario sono da citare in primo luogo le Maqāmāt (Assise) composte da al-Ḥarīrī nel 1111 (Mackay, 1971), il cui protagonista, Abū Zayd, astuto e talvolta privo di scrupoli, ha la capacità di incantare, con la sua parola, sia la folla sia un personaggio importante (Grabar, 1984; Barrucand, 1994; Carboni, 1995). Di questo componimento si rammentano i manoscritti di Parigi (BN, arab. 5847), scritto e dipinto da al-Wāsiṭī nel 1237, di San Pietroburgo (Accad. delle Scienze, Bibl. del Mus. Asiatico, S 23), assegnabile al 1240 ca. (Chalidov, 1995), e di Istanbul (Süleymaniye Kütüphanesi, Esad Efendi 2916), collocabile fra il 1242 e il 1258 circa.Caratteristico di queste m. è un generale senso di poca 'aulicità' nelle scene rappresentate, sia a causa del soggetto, tratto dalla vita quotidiana, sia a causa del realismo con cui il soggetto stesso è reso, per es., la 'farmacia' della citata carta del De materia medica o il realismo scenografico, che sfiora il verismo, delle illustrazioni delle Maqāmāt.Scuola artuqide. - Gli Artuqidi di Diyarbakır (1102-1408) nel sec. 13° furono per qualche tempo vassalli dei Selgiuqidi di Rūm e da questi nominati atabeg. Sotto il loro dominio venne eseguita a Mardin, nel 1135, una copia del Ṣuwar al-kawākib al-thābita di al-Ṣūfī (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Fatih 3422).Probabilmente fra il 1198 e il 1200 (Ward, 1985, p. 74) l'artuqide Naṣīr al-Dīn Maḥmūd (1201-1222), che aveva la sua sede a Diyarbakır, commissionò ad al-Jazarī, suo ingegnere personale a servizio della dinastia già da lungo tempo, il Kitāb fī ma῾rīfat al-ḥiyal al-handasiyya (Libro della conoscenza delle apparecchiature meccaniche ingegnose; v. Automa); di quest'opera restano quindici manoscritti (Ward, 1985, p. 69, n. 3). Se ne conserva una copia (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., A.III 3472; The Topkapı Saray Museum, 1986, figg. 7-12) la cui data non appare chiara a tutti gli studiosi, dal momento che l'anno segnato nella parte bassa del colofone può essere letto come 602 a.E./1206 (Stchoukine, 1934; The Topkapı Saray Museum, 1986, p. 30) o 652 a.E./1254 (Stchoukine, 1936; Ettinghausen, 1962, p. 95). King (1975, p. 287), pur leggendo 602 a.E./1206, suppone che la data non sia relativa alla compilazione del manoscritto ma alla stesura dell'opera; Ward (1985, p. 70ss.) rintraccia una seconda data 602 a.E./1206 nella parte superiore del colofone e a questo stesso anno attribuisce altri due manoscritti di al-Jazarī di scuola artuqide.Ancora a questo contesto vengono attribuiti (Ward, 1985, pp. 76-80) altri manoscritti in base a caratteri precipui, fra cui non soltanto l'assenza di cornice - che si rintraccia anche in altre m. coeve - quanto l'assenza di una linea di base, cosicché i personaggi vengono lasciati floating in midair. L'accento non è posto sui volumi, bensì sulle figure piatte e colorate; infine, i personaggi sono disposti per file e non per gruppi.Scuola selgiuqide. - Poco resta, purtroppo, della scuola selgiuqide, benché, naturalmente, sia possibile farsene un'idea dalla coeva pittura vascolare (Hillenbrand, 1994). Nella sua storia dei Selgiuqidi d'Iran (Rāḥat al-ṣudūr) Muḥammad Rāvandī (secc. 12°-13°) rende una descrizione completa di un manoscritto illustrato preparato per il sultano Rukn al-Dīn Tughril III (1176-1194) nel 1184-1185 (Arnold, 1928, p. 128, n. 3; Monneret de Villard, 1950, n. 21; Morton, 1994, p. 55). Si tratta di un'antologia di poesia persiana dipinta da un pittore di nome Jamāl Iṣfahānī: il ritratto di ciascun poeta era posto sul frontespizio dell'opera a esso relativa e varie m. figuravano nel corso del testo di una sorta di appendice del manoscritto che conteneva un certo numero di storie facete.Il codice illustrato selgiuqide più antico che si sia conservato venne eseguito in Iran o in Anatolia nel sec. 13°: esso è una copia del romanzo di Varqa va Gulshāh, cioè la versione in lingua persiana, opera di ῾Ayyūqī, della tragica storia d'amore di un antico poeta musulmano raccontata nel ventesimo volume del Kitāb al-aghānī (Libro dei canti). Il manoscritto (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.841) non contiene purtroppo alcuna indicazione di data né del luogo in cui fu eseguito (Ateş, 1961; Melikian Chirvani, 1970; Daneshvari, 1986). La sessantunesima m. (c. 58v) è firmata da ῾Abd al-Mū'min ibn Muḥammad al-Khuwayyī (cioè della città di Khūy, nell'Azerbaigian iranico). Questo stesso nome compare fra quelli dei testimoni dell'atto di donazione della madrasa di Konya, in Anatolia, fondata dall'emiro selgiuqide Jalāl al-Dīn Karatay nel 1252-1253, come Shaykh ῾Abd al-Mū'min ibn Muḥammad al-Khuwayyī. Se si tratta dello stesso personaggio, nativo dell'Iran e operante a Konya, la tesi prevalente fra gli studiosi (Grube, 1975, pp. 7-10; 1980, didascalia della tav. 3; Blair, 1993) è che il manoscritto sia stato eseguito in Anatolia intorno al 1250; altri studiosi (Ettinghausen, 1962, p. 92; Ettinghausen, Grabar, 1987, p. 360) sostengono invece la tesi di un'origine iranica adducendo motivazioni iconograficostilistiche e soffermandosi sulla particolarità del formato stretto e lungo, 'a strisce', delle m. stesse, come nel frontespizio del codice del Kitāb al-diriyāq (Libro degli antidoti), componimento della metà del sec. 13° dello pseudo-Galeno, attribuito a Mossul (Vienna, Öst. Nat. Bibl., A.F. 10; Holter, 1937; v. Caccia), e nelle m. di manoscritti iranici quali il Mu'nis al-aḥrār e nei c.d. piccoli Shāhnāma; infine, Rogers (in The Topkapı Saray Museum, 1986, p. 50), dubitando dell'esistenza di una scuola miniaturistica selgiuqide d'Anatolia, si chiede se questo pittore non possa essere stato condotto fuori dall'Anatolia: per es. a Baghdad, a Mossul, a Rayy, a Tabrīz. In ogni caso, è molto stretta la connessione fra lo stile pittorico di queste m. e quello delle coeve ceramiche mīnā'ī.Una scuola molto importante fu quella che operò a Mossul nel 13° secolo. Appartiene ancora allo scorcio del sec. 12° il manoscritto Kitāb al-diriyāq dello pseudo-Galeno: datato al gennaio 1199 (Parigi, BN, arab. 2964; Farès, 1953). Nella citata copia, conservata a Vienna, della stessa opera, alla c. 15r (The Genius, 1976, fig. a p. 147; Hoffman, 1993, p. 7) sono ritratti, seduti e intenti alla lettura di un libro, nove autori di triache, uno per ciascuno dei nove medaglioni circolari in cui è suddiviso lo spazio.Fra il 1217 e il 1219 la scuola di Mossul eseguì l'unica copia illustrata che si possiede, composta di venti volumi, del Kitāb al-aghānī di Abu'l-Faraj al-Iṣfahānī (scritto nella prima metà del sec. 10°), commissionata da Badr al-Dīn Lu'lu', atabeg a Mossul dal 1222 al 1259 (per i manoscritti illustrati della sua epoca v. Hagedorn, 1994, n. 17), per la sua biblioteca. Dei venti volumi originari ne restano sette, suddivisi fra tre biblioteche: i voll. II, IV (Mousa, 1931, pp. 38-40, tavv. XIXII), XI (che reca la data 1217; Farès, 1948) e XIII al Cairo (Nat. Lib., Adab fārsī 579); i voll. XVII e XIX a Istanbul (Millet Kütüphanesi, Feyzullah Efendi 1565; 1566; Holter, 1937, pp. 37-38; Rice, 1953); il vol. XX, datato al 1219, a Copenaghen (Kongelige Bibl., 168; Stern, 1957). In sei dei sette volumi che restano, il frontespizio - mancante nel XIII - è costituito dall'immagine del principe raffigurato secondo il convenzionale schema iranico: egli costituisce la figura centrale dell'intera composizione, alla quale è affidato il ruolo simbolico di rappresentare il potere assoluto del sovrano (risulta oggi superata l'interpretazione di Farès, 1947). Questo tipo di frontespizio non ha nulla a che vedere, dunque, con il contenuto del volume di cui è 'copertina'. Anche i tratti somatici dei personaggi, come si riscontra pure nelle immagini umane dipinte in tutte le altre m. di questi manoscritti, sono tipicamente centroasiatici - volto spiccatamente rotondo e occhi a mandorla -, del gruppo etnico ancora al potere in quei primi decenni del sec. 13° sul territorio iranico: i Selgiuqidi. Questo carattere turco-iranico della scuola di Mossul o, più generalmente, altomesopotamica, conferisce alle m. un aspetto aulico molto evidente, non riscontrabile nella coeva scuola di Baghdad, per es. il doppio frontespizio con personaggio in trono del summenzionato manoscritto delle Maqāmāt di al-Ḥarīrī, illustrato da al-Wāsiṭī (The World of Islam, 1976, fig. 13 a p. 22).Fra le copie del De materia medica in arabo della scuola di Mossul e dell'Alta Mesopotamia si ricordano due esemplari redatti entrambi in base alla traduzione di Abū Salīm al-Maltī: il primo fu copiato, su pergamena, da uno scriba che si definisce mawṣilī, cioè proveniente da Mossul (Parigi, BN, arab. 4947); l'altro, datato al 1228 (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., A.III 2127), fu redatto per un Abu'l-Faḍā'il Muḥammad, governatore del Nord della Mesopotamia e di una parte di Anatolia e Siria. Una benedizione in siriaco, con la quale termina il colofone, e una duplice datazione anche secondo l'era seleucide potrebbero ascrivere quest'ultimo manoscritto anche alla Siria. Alle illustrazioni di questo codice possono aver collaborato due o più pittori: vi si riconoscono senza dubbio almeno due stili nettamente differenti derivanti dai diversi prototipi utilizzati. Un certo numero di immagini è stato copiato, probabilmente senza la minima variazione, da un originale bizantino non più tardo del sec. 11° (come la splendida e molto naturalistica vigna della c. 252v; Ettinghausen, 1962, fig. a p. 72), altre apportano alcune modifiche iconografiche ritenute indispensabili per un fruitore musulmano, come nello splendido duplice frontespizio (cc. 1v, 2r; Ettinghausen, 1962, figg. a pp. 68-69): da una parte è raffigurato Dioscoride in un'ambientazione e in un abbigliamento del tutto bizantini ma con un turbante sul capo, dall'altra due discepoli che, in una medesima ambientazione bizantina e con volti dai tratti nettamente classicheggianti, indossano, oltre ai turbanti, anche abiti di foggia islamica (Hoffman, 1993, pp. 8-9, 12, figg. 1, 4, 7-8). A un altro prototipo bizantino si ispirò la mano del pittore che nello stesso manoscritto ha lasciato un secondo frontespizio (c. 2v; Ettinghausen, 1962, fig. a p. 71) nel quale è probabile che sia nuovamente raffigurato Dioscoride, ma stavolta alla musulmana, così come il discepolo che gli siede di fronte (Hoffman, 1993, pp. 9, 12, figg. 9-10).
Ancora incerta è l'attribuzione all'Alta Mesopotamia o alla Siria per un manoscritto del Mukhtār al-ḥikam wa maḥāsin alkalim (Le massime più scelte e i migliori detti) di al-Mubashshir ibn Fātik, del sec. 11° (Rosenthal, 1960-1961); difatti sul frontespizio si legge che la copia era destinata a un segretario dell'atabeg Ilmay, personaggio non identificato. Non datato, il codice è attribuibile alla prima metà del sec. 13° (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., A.III 3206; Ettinghausen, 1962, pp. 74-78; Ettinghausen, Grabar, 1987, p. 412, n. 98). A differenza del De materia medica, questo trattato non è stato tradotto direttamente dal greco, ma nelle m. di questa copia illustrata si riscontrano molti riferimenti a un'iconografia classica, soprattutto nei ritratti degli autori dei testi raccolti, visibili nelle due doppie pagine poste all'inizio e alla fine del volume (Hoffman, 1993, p. 12).
Scuola siriana. - È probabile che sia stato eseguito in Siria piuttosto che in Egitto - fu acquistato al Cairo - nei primi anni del sec. 13° (Buchthal, 1940) il manoscritto di un'opera che ebbe molto successo presso i laboratori di codici illustrati anche di epoche successive, il Kalīla wa Dimna, titolo corrispondente al nome dei due sciacalli protagonisti del testo: se ne possiedono più versioni, la più antica delle quali è quella di Ibn al-Muqaffa', del sec. 8°, che tradusse in arabo il testo pahlavi del sec. 6°, oggi perduto, il quale derivava, a sua volta, dal Pañcatantra indiano (Grube, 1991). Il manoscritto è una copia dell'opera in arabo di Ibn al-Muqaffa' (Parigi, BN, arab. 3465; Grube, 1991, p. 374, nr. 1); le m. sono caratterizzate sia dalla spiccata naturalezza con cui sono raffigurati gli animali sia dall'assetto quasi araldico delle composizioni, divise molto spesso in due metà mediante o meno un elemento centrale separatore.
Baghdad. - Sebbene Baghdad non sia mai stata sede di governo durante gli anni di regno degli Ilkhanidi (v.), essa non fu mai abbandonata e continuò a godere di un certo prestigio politico e culturale sino a tutto il sec. 13°: ciò è evidente anche nella produzione di manoscritti, illustrati o meno. Fra le opere letterarie di questo periodo va ricordato un Kalīla wa Dimna di Ibn al-Muqaffa' che Barrucand (1986; ma v. anche Grube, 1991, p. 374) attribuisce alla scuola di Baghdad del terzo quarto del sec. 13° (Rabat, Bibl. Royale, 3655).Al tardo sec. 13° appartiene anche una copia del Rasā'il ikhwān al-ṣafā (Epistole dei fratelli della purità), testo enciclopedico del sec. 10°, dal cui colofone si apprende che venne eseguito a Baghdad nel 1287 (Istanbul, Süleymaniye Kütüphanesi, Esad Efendi 3638; Ettinghausen, 1962, pp. 98-102; Hoffman, 1993, p. 15). Ciò che rende molto differenti le illustrazioni di questo codice da quelle della prima metà del secolo è soprattutto la notevole diminuzione della gamma cromatica, dalla quale sono spariti tutti i verdi e i rossi per lasciare ampio spazio all'ocra, al blu e, in modo precipuo, all'oro, impiegato sia per le campiture sia per sottolineare le pieghe delle vesti; quest'ultima particolarità contribuisce a una maggiore vitalità delle scene e conferisce alle immagini una nuova nota, improntata alla scelta di elementi lineari che si ritrovano, molto più accentuati, nelle illustrazioni di un altro manoscritto dell'epoca: la copia, probabilmente coeva all'autore, del Kitāb 'ajā'ib al-makhlūqāt (Libro delle meraviglie del creato) di al-Qazvīnī, del 1280 (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Ar. 464; Graf von Bothmer, 1971; Carboni, 1988-1989, n. 5), che non fu eseguita a Baghdad ma a Wāsiṭ, sempre nell'Iraq meridionale, dove al-Qazvīnī aveva esercitato la professione di cadì. Di questo manoscritto è molto nota l'immagine che raffigura due angeli accosciati, ma ad ali spiegate, seduti l'uno di fronte all'altro e intenti a scrivere su rotulo le azioni degli uomini (c. 36r; Ettinghausen, 1962, fig. a p. 138). In questo caso la gamma coloristica è ancora più ridotta che nelle m. del manoscritto precedente e l'aspetto lineare è ancora più accentuato; sono già presenti alcuni tratti che divennero poi caratteristici dell'età ilkhanide avanzata.Baghdad rimase in sostanza culturalmente vitale nella seconda metà del Duecento e anche dopo il 1287 - data del Rasā'il ikhwān al-ṣafā di Istanbul - il grande centro di pittura continuò a costituire un punto di riferimento e un mercato per i codici illustrati. L'arte della m. continuò infatti a svilupparsi durante il regno di Ghāzān (1295-1304), rivelando l'importanza della città per la nuova pittura irano-mongola (Simpson, 1982, p. 94). È di questo scorcio del sec. 13° (19 maggio 1299) il manoscritto che contiene la più antica immagine, sino a oggi nota, del profeta Maometto (Istanbul, Arkeoloji Müz., 216, c. 2r; Simpson, 1982, fig. 49) su un codice datato. Si tratta di una copia del Marzūbānnāma, opera redatta in persiano da Sa'd al-Dīn Varāvīnī, tratta dal componimento, risalente all'anno 1000 ca. e scritto in dialetto tabarī, del marzūbān ibn Rustam.Scuola ilkhanide. - Il più antico manoscritto illustrato datato eseguito nella prima capitale ilkhanide, Maragha, è una copia di una Tārīkh-i jahāngushā (Storia del conquistatore del mondo) di Juvaynī, completata nel 1290 (Parigi, BN, Suppl. persan 205; Ettinghausen, 1959, pp. 44-47); ma il più importante dei codici di questa scuola è il manoscritto originale, datato al 1291 - per la lettura della data v. Melikian-Chirvani (1979) e Grube (1995c, p. 524, fig. 1); Canby (1993b, p. 28) attribuisce il manoscritto al 1297 o al 1299 -, della traduzione persiana del Kitāb manāfī' al-ḥayawān (Libro sull'utilità degli animali) di Ibn Bakhtishū (New York, Pierp. Morgan Lib., 500). Il testo informa del fatto che la traduzione dall'arabo al persiano fu eseguita da ῾Abd al-Hadī per ordine di Ghāzān Khān (1295-1304; Grube, 1978, p. 5). Le novantaquattro m. non sono tutte nello stesso stile, ma sono frutto di un 'lavoro di gruppo' fra maestro e suoi assistenti e discepoli (Grube, 1978, pp. 5-11); se alcune sono già nel più puro stile ilkhanide e altre vi si avvicinano poco o molto, un certo numero di esse è di chiara tradizione premongola.Sono attribuibili con ogni probabilità a Mossul due manoscritti pressoché coevi, dei primi anni del Trecento. Il primo è datato al 1307 ed è una copia dell'Āthār al-bāqiyya (Cronologia universale) di al-Bīrūnī (del 1000; Edimburgo, Univ. Lib., ar. 161; Soucek, 1975). L'altro manoscritto è una copia del Kitāb 'ajā'ib al-makhlūqāt di al-Qazvīnī (Londra, BL, Or. 14140). La stretta somiglianza fra le m. di questo codice e quelle della copia precedente ha indotto Carboni (1988-1989, p. 17) a datare il manoscritto di al-Qazvīnī agli anni compresi fra il 1305 e il 1315 e ad assegnarlo alla scuola di Mossul; Soucek (1988, pp. 205-206) ipotizza invece un'attribuzione a Maragha. Il volume contiene ben trecentocinquantanove m., in cui l'impostazione delle scene ha un chiaro impianto di origine iranica, come già era stato interpretato per es. dalla scuola duecentesca di Mossul del Kitāb al-aghānī.
Un potente ministro ilkhanide, Rashīd al-Dīn, fondò, a pochi chilometri da Tabrīz, una cittadina che dal suo nome si chiamò Rashīdiyya; qui sorse una scuola pittorica che nei primi anni del Trecento, contemporaneamente dunque alla scuola di Mossul, produsse dei manoscritti che segnarono la svolta definitiva della pittura persiana, da quella selgiuqide a quella mongola. A Rashīdiyya fu scritta in arabo e illustrata una copia del Jāmi' al-tawārīkh (Storia universale) di Rashīd alDīn, eseguita sotto la supervisione dell'autore medesimo. Vi si leggono due date corrispondenti al 1307, l'anno in cui l'opera di Rashīd al-Dīn fu completata, e al 1314-1315, quando fu completata la stesura di uno dei capitoli del manoscritto; questo reca una dedica al sovrano Öljeytü (1304-1317). La copia non è completa ma, come è stato recentemente dimostrato con argomentazioni molto convincenti (Blair, 1995), ciò che di essa rimane è attualmente diviso fra Edimburgo (Univ. Lib., ar. 20; Rice, 1976) e Londra (Khalili Coll., già Londra, Royal Asiatic Society, ar. 26; Meredith-Owens, 1970; Gray, 1978; Robinson, 1980; Blair, 1995). I soggetti (Inal, 1975, pp. 140-143; Blair, 1995, pp. 116-118) includono i mitici re iranici, Buddha (Canby, 1993a), i personaggi biblici, il profeta Maometto, la storia iranica sino agli Ilkhanidi; inoltre, nella parte conservata nella Khalili Coll., sono rappresentati anche gli imperatori cinesi (cc. 235r-258v). Le m., caratterizzate da una sostanziale unità stilistica, potrebbero essere definite disegni colorati, più che pitture; fra le tinte usate prevalgono il verde, il blu, il rosso e l'arancio, ma è da segnalare anche la presenza dell'argento, utilizzato per il chiaroscuro. Il cielo, generalmente, non è dipinto, come nel Kitāb manāfī' al-ḥayawān di Maragha. Se dal punto di vista iconografico-stilistico queste illustrazioni sono particolarmente debitrici alla Cina, non è possibile non notare anche un'influenza occidentale (Allen, 1985). Esistono altre due copie di quest'opera, ma scritte in persiano: l'una risale all'ottobre del 1314 e l'altra al 14 luglio 1317 (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.1653-1654; Inal, 1965; Blair, 1995).Il periodo d'oro della m. ilkhanide di Tabrīz fu quello che si sviluppò durante il regno dell'ultimo grande ilkhanide, Abū Sa'īd (1317-1335). Lo storico, calligrafo e pittore Dūst Muḥammad, che nel 1544 elaborò un album dedicato al principe safavide Bahrām Mīrzā (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.2154), accludendovi una prefazione sui pittori precedenti e contemporanei (Thackston, 1989, p. 345), afferma che all'epoca di Abū Sa'īd il pittore Aḥmad Mūsā avrebbe svelato il volto dell'arte del dipingere e che lo stile della pittura corrente sarebbe stato inventato da lui; Dūst Muḥammad include inoltre nel suo album otto pitture provenienti da un Mir'ājnāma (Viaggio ascensionale [del Profeta]) attribuendole ad Aḥmad Mūsā, assegnabili in realtà alla seconda metà del sec. 14° (Ettinghausen, 1957, p. 376, figg. 1, 4-5, 7; Grube, 1975, pp. 47-56, figg. 17-20).Il vero capolavoro della m. ilkhanide è costituito senza dubbio dalla copia dello Shāhnāma (Libro dei re) di Firdusi - opera dedicata a Maḥmūd di Ghazna (998-1030) nel 1010 - noto come Grande Shāhnāma mongolo o Shāhnāma di Abū Sa'īd, prodotto quasi certamente a Tabrīz fra il 1317 (o anche il 1323) e il 1335-1336 (Brian, 1939; Grabar, Blair, 1980; Blair, 1989; Blair, Bloom, in corso di stampa). Esso è stato conosciuto a lungo come Shāhnāma Demotte, dal nome del famoso mercante francese responsabile di buona parte della sua dispersione: doveva contenere, divisi in due volumi di grande formato, ca. trecento carte e centonovanta m.; di queste ne restano cinquantotto, disperse in più biblioteche pubbliche e private in Europa e negli Stati Uniti. I personaggi e le ambientazioni sono carichi di toni drammatici; i colori sono, nello stesso tempo, cupi e brillanti, in alcuni casi acquarellati; lo stile non è sempre unitario e ciò suggerisce la partecipazione di più pittori alla sua realizzazione.Scuola di Shiraz e di Isfahan. - Quattro manoscritti dello Shāhnāma (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.1479; San Pietroburgo, Saltykov-Ščedrin, Pers. 239; manoscritto disperso in più collezioni in Europa e negli Stati Uniti; manoscritto già a New York, Hagop Kevorkian Coll., poi disperso), prodotti fra il 1330 e il 1352 (Grube, 1978, p. 15, n. 43; Adamova, Gjuzal'jan, 1985; Blair, Bloom, 1994, p. 317, n. 55), e una copia del Kalīla va Dimna nella versione persiana di Naṣr Allāh (sec. 12°) del 1333, attualmente smembrata (Grube, 1978, n. 44; 1991, p. 379, nr. 11), appartengono alla scuola di Shiraz; in quel ventennio questa città e l'intero Fārs erano governati dagli Injuidi, governatori posti dagli Ilkhanidi a Shiraz, poi soppiantati nell'egemonia sulla città dal muzaffaride Shāh Shujā' (1364-1384). Le m. dei manoscritti illustrati dai pittori di questa scuola - caratterizzate da una composizione 'a strisce' compresa entro brevi riquadri rettangolari - furono eseguite in uno stile provinciale ma di alta qualità, che influenzò senza dubbio quello della raffinata Shiraz timuride.Il riconoscimento dell'esistenza di una scuola a Isfahan risale ad anni recentissimi (Swietochowski, Carboni, 1994): a essa vengono assegnati un manoscritto datato al 1341 e, per analogie compositive e stilistiche, anche alcuni altri. Il codice del 1341 è il già noto Mu'nis al-aḥrār fī daqā'iq al-ash'ār (Il vademecum dell'uomo libero alle sottigliezze poetiche), terminato nel febbraio-marzo di quell'anno dal suo autore Ibn Jājarmī (Kuwait, Nat. Mus., Dār al-Āthār al-Islāmiyya, LNS 9), ma sei fogli di questo, che costituiscono il ventinovesimo capitolo dell'opera, furono staccati e oggi sono custoditi in collezioni pubbliche americane. Oltre al duplice frontespizio, le uniche m. sono contenute soltanto in questo capitolo, al cui testo - un componimento di Rāvandī sulla poesia illustrata e le stazioni lunari - sono molto strettamente correlate nel senso che, come viene detto dall'autore stesso, esse non possono essere interpretate se private del testo e, viceversa, quest'ultimo non è comprensibile se non è integrato dalle illustrazioni. Poiché dal manoscritto si evince per vari motivi che l'opera è stata dedicata presumibilmente al personaggio che in quel momento (1341) governava la sua città, cioè Isfahan, è qui che va identificata la scuola responsabile della copia e dell'illustrazione del manoscritto. Come nei manoscritti di Shiraz, anche queste m. sono caratterizzate dall'essere contenute entro strisce orizzontali, con una decisa prevalenza del rosso quale colore di fondo.Una spinosa questione, soprattutto in questi ultimi vent'anni, riguarda l'attribuzione di alcuni manoscritti dello Shāhnāma, i c.d. piccoli Shāhnāma a causa del formato ridotto delle m. in forma di strisce orizzontali, come quelle della scuola di Shiraz e del Mu'nis al-aḥrār. Gli studiosi hanno concentrato la loro attenzione su cinque manoscritti: uno è intero (Washington, Freer Gall. of Art, 29.24), un altro non è completo (New York, Metropolitan Mus. of Art, 1974.290, già Coll. Schultz, poi Coll. Gutman), un terzo è stato ricostituito soltanto delle illustrazioni prive di testo (Berlino, Staatsbibl., Album Diez.fol. 71), gli ultimi due, infine, sono stati smembrati in più collezioni e vengono usualmente definiti 'primo' e 'secondo' piccolo Shāhnāma. Su una circostanza tutti gli studiosi sono d'accordo e cioè sul fatto che alcune m. di questi manoscritti sono particolarmente simili a quelle del Mu'nis al-aḥrār. Alcuni sostengono che i c.d. piccoli Shāhnāma provengono tutti da un unico laboratorio (Grube, 1978, p. 16), che peraltro non deve necessariamente essere quello di Shiraz (v. invece Gray, 19612, p. 62), ma non tutti concordano su questa ipotesi. La studiosa che più di recente si è occupata del problema (Swietochowski, 1994) distingue due probabili gruppi: al primo apparterrebbero il manoscritto di New York e quello di Berlino, per i quali ipotizza un'attribuzione a Isfahan a causa delle somiglianze di questi due codici con il Mu'nis al-aḥrār (Ettinghausen, in Gray, 19612, p. 62); del secondo gruppo farebbero parte sia il 'primo' sia il 'secondo' piccolo Shāhnāma e anche il manoscritto di Washington, che potrebbero essere attribuiti a Baghdad, come già suggerito da Simpson (1979, pp. 272-307), e datati al 1300 ca.; l'ipotesi Baghdad era già stata avanzata (Barrett, 1952, p. 5) per tutti i c.d. piccoli Shāhnāma.Scuola muzaffaride. - I Muzaffaridi (1314-1393) governarono l'Iran meridionale espandendo i propri possessi in seguito al caos sopraggiunto alla morte dell'ilkhanide Abū Sa'īd nel 1335.Il 'punto della situazione' della scuola pittorica muzaffaride (Grube, 1978, pp. 20-22) offre un nutrito elenco di manoscritti (sette) e numerosi disegni e m. custoditi a Istanbul (Topkapı Sarayı Müz.) e a Berlino (Staatsbibl.). Benché sia accertato che il laboratorio della scuola fosse a Shiraz, l'origine del suo stile non è ancora chiara. La caratteristica principale è la completa integrazione della figura umana - con corpo alto e snello, testa ovale, minuti tratti del viso, connotazioni tutte così diverse da quelle mongole - in un paesaggio di derivazione ilkhanide, ma che diventa un vero e proprio proscenio.Fra i manoscritti, tre sono datati fra il 1371 e il 1398; si ricorda in particolare una copia dello Shāhnāma che reca la data corrispondente all'aprile-maggio 1371 (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.1511). Una delle m. (c. 203v; Gray, 19612, fig. a p. 63) raffigura il re sasanide Bahrām V (421-438/439) in sella al suo cavallo e intento a scagliare una freccia contro uno splendido e sinuoso drago dalle fauci spalancate; la scena si svolge all'aperto, su un prato con piccoli cespugli fioriti, in uno stile molto prossimo a quello che poi caratterizzò la scuola di Shiraz timuride. Il drago, eseguito secondo modelli strettamente cinesi, occupa l'intera metà inferiore dell'immagine, quale indiscusso protagonista della scena, ed è anch'esso molto più vicino a quei moduli che furono caratteristici dell'epoca successiva piuttosto che, per es., a quelli della scuola ilkhanide del Grande Shāhnāma mongolo.Reca la data corrispondente al settembre 1398, ma è ancora chiaramente di scuola muzaffaride, il manoscritto di un'antologia di poeti persiani il cui calligrafo si dice originario di una cittadina del Fārs occidentale di nome Bihbahān. Il codice (Istanbul, Türk ve İslam Eserleri Müz., T 1950) raccoglie dodici m., di cui ben undici si trovano in quella parte di testo che contiene le opere di Niẓāmī e una soltanto è posta, isolata, alla fine del volume. Molto particolari, queste illustrazioni hanno per soggetto esclusivamente paesaggi fantastici, a eccezione di quella finale, in cui compare una scena di caccia e che è ritenuta posteriore (Aga-Oglu, 1936, p. 78, n. 7), probabilmente un'aggiunta ottomana della fine del sec. 16° (Stchoukine, 1965; Ipşiroğlu, 1970-1971, pp. 15-16). Molto è stato scritto a proposito del significato di queste illustrazioni: Aga-Oglu (1936) ipotizzò un artista mazdeo che avrebbe voluto celebrare in esse la gloria di una creazione permanente; Golombek (1993, pp. 247-248) le individua quali fonti per i paesaggi del complesso tombale timuride di Tūmān Āqā a Kuhsan; Piemontese (1995, pp. 481-483, fig. 1), infine, si sofferma su una m. in particolare (c. 26r; Gray, 19612, fig. a p. 68), la cui collina fiorita egli interpreta come la montagna cosmica di tradizione persiana e islamica, che ha nome Qāf.Scuola gialairide. - I Gialairidi (1336-1432), discendenti di un generale mongolo dell'ilkhanide Hülegu (1256-1265), successero agli Ilkhanidi in una parte dei loro territori e si attestarono in Iraq, Kurdistan e Azerbaigian, con capitale alternativamente a Tabrīz o a Baghdad. Nella storia della m. islamica il periodo gialairide è probabilmente uno dei più difficili da identificare quanto a sicure attribuzioni.Una delle due scuole pittoriche gialairidi fu Baghdad. Esistono almeno tre manoscritti datati entro la prima metà ca. del Trecento, ma di essi il primo che - come sembra da studi recenti (Grube, 1991, pp. 379-380) - non sia stato dipinto o ridipinto in età successiva alla data riportata sul colofone è una copia del Kalīla va Dimna di Naṣr Allāh. Questo codice (Cairo, Nat. Lib., Adab fārsī 61) è datato al 1343-1344; a causa delle affinità stilistiche che le m. presentano con quelle di altre due copie della stessa opera conservate a Parigi (BN, persan 376; Suppl. persan 913; Grube, 1991, p. 383, nrr. 17-18) e con quelle di una Khamsa (Quintetto) di Niẓāmī (Londra, BL, Or. 13297) - tutte dell'ultimo ventennio del sec. 14° e attribuibili a Baghdad - è probabile che anch'esse siano da assegnare alla produzione di questa città, in quegli anni capitale gialairide. La succitata Khamsa di Niẓāmī è un manoscritto (Londra, BL, Or. 13297) eseguito a Baghdad e datato fra il 1386 e il 1388 (Titley, 1971): lo studio delle affinità stilistiche che queste m. hanno con quelle di molti altri manoscritti ha consentito l'attribuzione di questi ultimi alla scuola di Baghdad di quell'epoca (Grube, 1978, pp. 22-23, n. 60). Di grande qualità sono le immagini che illustrano una copia dei tre poemi di Khwājū Kirmanī (Fitzherbert, 1991), completata a Baghdad nel febbraio-marzo 1396 (Londra, BL, Add. Ms 18113); delle nove m. la sesta (c. 45v) reca la firma del maestro (ustād) Junayd al-Sulṭānī - titolo che viene a costui per essere pittore della corte di Sulṭān Ghiyāth al-Dīn Aḥmad (1382-1410) - e probabilmente anche le altre otto m. si devono allo stesso artista. Esse possono essere considerate senza dubbio fra i migliori prodotti dell'epoca gialairide e uno dei prototipi della scuola timuride (Sims, 1981, p. 56).Vengono attribuiti alla Baghdad gialairide della fine del sec. 14° altri due importanti manoscritti: una copia - assegnata peraltro al sec. 15° da Badiee (1978; 1984) e al 1640 da Schmitz (1992, pp. 7-13) - del Kitāb ῾ajā'ib al-makhlūqāt di al-Qazvīnī (già Coll. Friedrich Sarre; ottantatré fogli a Washington, Freer Gall. of Art, 54.33-54.114; 57.13; centoquattordici a New York, Public Lib., Spencer Coll., 45); una copia del Kitāb al-bulkhān (Oxford, Bodl. Lib., Or. 133; Carboni, 1988), miscellanea di opere astrologiche e astronomiche attribuita ad Abū Ma'shar al-Falakī (sec. 9°), contenente novantasette m., la quale reca più date, comprese fra il 1334 e il 1435, ma che probabilmente è da assegnare al periodo di regno di Sulṭān Aḥmad (1382-1410).Molto incerta è la storia del laboratorio pittorico di Tabrīz nel corso dei venticinque anni intercorsi fra la morte dell'ultimo grande sovrano ilkhanide Abū Sa'īd nel 1335 e la conquista della città a opera del gialairide Uways I (1356-1374) nel 1360. Tuttavia, vengono attribuite alla Tabrīz della metà del Trecento alcune m. provenienti da manoscritti dispersi e collazionate in album (Grube, 1975, nr. 6; 1980, tavv. 8A-B), realizzate in uno stile alquanto simile a quello caratteristico della prima scuola ilkhanide, ma prive della capacità espressiva di quel periodo. Dall'opera del già citato Dūst Muḥammad si apprende che Aḥmad Mūsā, il pittore che aveva lavorato a Tabrīz per l'ilkhanide Abū Sa'īd, era ancora attivo nella Tabrīz gialairide di Uways I, durante il regno del quale fece da maestro a Shams al-Dīn, colui che divenne il miniaturista più importante del periodo. Da Dūst Muḥammad si sa ancora che Shams al-Dīn fu maestro di altri due pittori: il già nominato Junayd e ῾Abd al-Ḥayy. Il laboratorio di Uways I a Tabrīz fu artefice di un certo numero di manoscritti illustrati, dei quali restano alcune pagine raccolte nel citato album compilato da Dūst Muḥammad nel 1544 (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.2154). Oltre alle m. del già ricordato Mir'ājnāma (1360-1370), a quegli stessi anni o a un decennio successivo si può assegnare un'altra m. anch'essa proveniente da un manoscritto disperso (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.2153, c. 28r; The Topkapı Saray Museum, 1986, fig. 49), che reca un'attribuzione ad Aḥmad Mūsā, senza dubbio un'aggiunta successiva. Il vero protagonista dell'illustrazione è l'inverno, con il suo gelo, gli arbusti spogli, qualche volo di uccelli e due coppie di animali: due orsi in fuga che hanno già visto i due cacciatori approssimarsi in groppa ai loro cavalli e due gazzelle ancora accosciate, ignare della presenza dei due uomini che invece hanno già lo sguardo puntato su di loro. Si tratta di una delle migliori realizzazioni della Tabrīz gialairide, dove tutti gli elementi della composizione concorrono in maniera assolutamente non casuale a rendere veritiera e quasi palpabile l'atmosfera di questa caccia invernale; in essa gli elementi cinesi appaiono, ormai, perfettamente islamizzati.Scuola timuride. - In tutte le città che furono capitali o sedi di governatorato durante il secolo e più di dominio timuride sorsero importanti scuole pittoriche: a Samarcanda Tamerlano (1370-1405) aveva riunito un folto gruppo di artisti ancora prima che i suoi territori raggiungessero il massimo della loro estensione; fra questi si ricorda ῾Abd al-Ḥayy, sottratto alla corte gialairide di Baghdad in seguito all'irruzione del 1398. Herat e Shiraz, ma anche Samarcanda, segnarono, con le loro scuole, uno sviluppo fondamentale nella storia della m. islamica: il Quattrocento timuride raggiunse una qualità senza precedenti nell'arte dell'illustrazione.Dopo una violenta battaglia, Tamerlano sottrasse ai Muzaffaridi la città di Shiraz nel 1393; questa fu governata prima da uno dei figli di Tamerlano, 'Umar Shaykh, e in seguito dai figli di quest'ultimo (dal 1393 al 1400 da Pīr Muḥammad; in seguito si successero prima Iskandar e poi il cugino Ibrāhīm Sulṭān). Iskandar fu una figura di fondamentale importanza nello sviluppo della m. timuride: governatore prima del Ferghana, un'area della Transoxiana, egli fu anche a Yazd prima di arrivare a Shiraz, ma prima ancora di ricoprire il ruolo di governatore, già negli ultimi anni del Trecento gli viene generalmente attribuito il patrocinio di due manoscritti all'incirca coevi (Grube, 1978, n. 149; Canby, 1993b, p. 53): uno dei due, una collezione di epiche, è datato al 1397-1398 (Londra, BL, Or. 2780), l'altro è uno Shāhnāma (Dublino, Chester Beatty Lib., P. 114). Le m. sono caratterizzate dalla fusione di elementi desunti sia dalla Shiraz muzaffaride sia dalla Baghdad gialairide, mentre l'abbondante uso dell'oro prelude ai capolavori della scuola di Iskandar dei primi decenni del secolo successivo.
Alcuni studiosi attribuiscono alla prima fase timuride di Samarcanda e Herat, e dunque ad anni intorno al 1400, un gruppo di pitture - in alcuni casi si tratta anche di disegni - eseguite su pezzi singoli di carta o di stoffa, talvolta su rotuli, attualmente composte in tre album (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., H.2152; H.2153; H.2160; Grube, 1981, n. 2). Esse sono suddivisibili in tre gruppi (Grube, 1981, pp. 1-2). Il primo è costituito da una serie omogenea di immagini - quasi sempre su carta, ma in qualche caso anche su seta - dipinte con spessi strati di colori, fra i quali prevalgono il marrone e il blu scuro, con tocchi occasionali di rosso e di oro, ripartite soltanto in due degli album (H.2153; H.2160). I soggetti sono generalmente identificati come nomadi, dervisci, sciamani, mostri; un certo numero di queste pitture è iscritto con il nome (parziale o completo) del maestro (ustād) Muḥammad Siyāh Qalam ('pennello nero'; Ipşiroğlu, 1976; Tanındı, 1981). Il secondo gruppo raccoglie le pitture in 'stile cinese': si tratta di immagini che sembrano seguire vari modelli cinesi, rese con colori molto vivaci e oro, spesso su seta chiara. Del terzo gruppo fanno parte quelle pitture che applicano convenzioni miste tipiche dei due gruppi precedenti, ma più simili al secondo; alcune sono su seta, talvolta in rotuli. In particolare, alcune illustrazioni del terzo gruppo sono state attribuite alla corte di Tamerlano a Samarcanda (Grube, 1981, n. 20). Infatti, Tamerlano aveva riunito nella sua capitale pittori provenienti sia dai principali centri persiani sia, con ogni probabilità, da quelli centroasiatici: questi ultimi sarebbero responsabili delle influenze cinesi del terzo gruppo di illustrazioni del Topkapı Sarayı Müzesi. Haase (1981) promuove l'ipotesi molto suggestiva di riconoscere lo stesso Tamerlano quale personaggio allusivo nei protagonisti di due famose scene (H.2153, cc. 3v-4r, 164v-165r; The Topkapı Saray Museum, 1986, figg. 80-81), benché nella seconda duplice immagine si tratterebbe di una sostituzione ideale di Salomone e la regina di Saba, con Tamerlano e una delle sue spose.Quanto alle altre pitture degli album di Istanbul, gli studiosi sembrano propendere più per una datazione al Quattrocento, con oscillazioni fra l'inizio e la fine, e per un'origine centroasiatica. Grube (1981, pp. 2-3; 1995c, p. 525) ha compiuto un'attenta disamina delle attribuzioni fatte sino a oggi: Turkestan o Transoxiana per le pitture del primo gruppo; Herat o comunque laboratori timuridi per le pitture del secondo e terzo gruppo; la Tabrīz turcomanna per il secondo gruppo.
Scuola mamelucca. - Sotto il dominio mamelucco Siria ed Egitto godettero di grande prosperità economica e grande impulso fu dato alla cultura e alla fioritura delle arti; sembra risalire a quell'epoca la scienza dell'araldica. I sultani mamelucchi favorirono senz'altro anche l'arte dell'illustrazione del libro, ma si sa per certo che fra i maggiori committenti di volumi illustrati vi erano i componenti della classe ricca e colta di lingua araba: per es. un ispettore fiscale di Damasco appose il suo nome su un manoscritto delle Maqāmāt che aveva acquistato nel 1375 (Londra, BL, Or. Add. 7293; Grabar, 1984, pp. 14-15).Così come alla base del governo mamelucco fu una rigida organizzazione civile e militare, altrettanto rigida - senza dubbio la più rigida di tutte le epoche artistiche islamiche - fu la composizione iconografica e stilistica dell'arte mamelucca in genere e di quella miniaturistica in particolare, che privilegiò le scene di interni, posizionate quasi sempre entro riquadri. E dal momento che i due centri governativi più importanti furono il Cairo, soprattutto, e Damasco, queste città furono anche le più importanti fucine artistiche, sedi peraltro di laboratori di volumi illustrati.Quanto ai soggetti, la scuola mamelucca non si discostò particolarmente dalle scelte delle precedenti scuole mesopotamiche (Mossul, Baghdad) e siriane: l'interesse maggiore fu per i trattati di argomento scientifico. Così lo stile riflette un incontro fra elementi siro-iracheni di tradizione bizantina ed elementi più marcatamente musulmani; non mancano influenze dall'area persiana, più vicine alla tradizione ancora selgiuqide (poche illustrazioni del sec. 14° rivelano elementi mongoli). Un problema in parte ancora irrisolto è l'attribuzione dei manoscritti a scuola siriana o egiziana, soprattutto per la produzione trecentesca.Il manoscritto più antico conservato è egiziano e risale alla seconda metà del sec. 13°: l'esemplare in copia unica del Risālat da'wat al-aṭibbā' (Banchetto dei dottori) di Ibn Buṭlān, medico e teologo cristiano di Baghdad del sec. 11° (Milano, Bibl. Ambrosiana, S.P.67 bis, già A.125 inf.; Ettinghausen, 1962, pp. 143-144; Löfgren, Traini, 1975-1981, I, nr. LXX, tavv. I-VI), che reca una data corrispondente al 4 dicembre 1273 e fu eseguito ad Alessandria d'Egitto. Nelle m., undici in tutto, si notano notevoli caratteri iraneggianti, soprattutto nei tratti somatici di alcuni personaggi. Le immagini hanno uno schema compositivo piuttosto fisso e impostato sull'uso della simmetria, la rigidità delle pieghe degli abiti fa sì che ciò che un tempo era la resa naturalistica di un morbido panneggio ora è divenuto un elemento stereotipato, quasi un òrnamento' delle stoffe medesime. La simmetria costruttiva dell'immagine è ottenuta grazie a un asse verticale mediano. Tuttavia questa fissità dello schema non impedisce di cogliere, nel comportamento dei personaggi, atteggiamenti molto realistici.È sicuramente attribuibile alla Siria un manoscritto delle Maqāmāt di al-Ḥarīrī (Londra, BL, Or. 9718), che reca il nome del pittore, un certo Ghāzī ῾Abd al-Raḥmān al-Dimashqī, cioè di Damasco (al-Asqalānī, 1929-1932, II, p. 134). Non è datato, ma lo si può assegnare agli ultimi anni del sec. 13°; dello stesso periodo è anche un'altra copia delle Maqāmāt (Londra, BL, Add. Ms 22114; Ettinghausen, 1962, fig. a p. 146).Nessuno dei manoscritti illustrati trecenteschi noti reca indicazione della provenienza. Molti studiosi (ma non tutti: Contadini, 1988-1989, pp. 44-45) sono concordi nell'attribuire a una scuola siriana almeno quattro manoscritti: due Maqāmāt di al-Ḥarīrī (Vienna, Öst. Nat. Bibl., A.F. 9; Oxford, Bodl. Lib., Marsh 458; Ettinghausen, 1962, pp. 147-153; Contadini, 1988-1989, p. 44, n. 38), un Sulwān al-muṭā', libro di favole scritto nel 1159 da Ibn Ẓafar detto al-Ṣiqillī, cioè il Siciliano, di cui la parte più cospicua è nella Coll. Homaizi nel Kuwait (Melikian-Chirvani, 1985), e un Kitāb manāfī' al-ḥayawān di Ibn Bakhtishū (Escorial, Bibl., Ar. 898; Contadini, 1988-1989). Il più antico di questi quattro codici è il primo, datato al 1334, con sessantanove m., mentre la seconda copia delle Maqāmāt è datata al 1337: risultano di singolare efficacia il nitore e la semplicità del compatto fondo oro e la cornice lineare blu con motivi apicati angolari, che costituirono elementi caratteristici di molte illustrazioni del periodo e che senza dubbio individuano una scuola, siriana o egiziana che sia. Su nessuno dei vari fogli sparsi del Sulwān al-muṭā' si leggono date, ma le m. sono assegnabili, con buona approssimazione, al secondo quarto del sec. 14°; si notano ancora il fondo dorato e la cornice blu con vari elementi ornamentali. Lo splendido manoscritto del Kitāb manāfī' al-ḥayawān dell'Escorial è datato al 1354 e reca anche il nome dell'autore, Ibn al-Durayhim al-Mawṣilī. In base a quanto riferito da una fonte di poco posteriore che traccia una biografia di al-Mawṣilī, nell'anno della compilazione del trattato lo scrittore doveva trovarsi a Damasco (Contadini, 1988-1989, p. 41); le novantuno m. illustrano animali non con lo scopo di fornirne una descrizione fisica - non si tratta, infatti, di un libro di zoologia benché probabilmente derivi dai trattati di zoologia di Aristotele -, ma con intento didattico.È datato allo stesso anno 1354 (19 maggio) anche un manoscritto del Kalīla wa Dimna di Ibn al-Muqaffa' (Oxford, Bodl. Lib., Pococke 400; Atil, 1981). Come tutti gli altri codici di questo secolo, anch'esso non contiene indicazioni circa il luogo di produzione; se per i quattro manoscritti precedenti è la Siria la regione oggi più accreditata per la loro origine, per questo volume - e per quello della stessa opera, all'incirca coevo (Parigi, BN, arab. 3467; Ettinghausen, 1962, fig. a p. 155; Grube, 1991, p. 375, nr. 3) - gli studiosi non hanno ancora sciolto i loro dubbi fra la Siria e l'Egitto.Di questo sec. 14° mamelucco fa parte anche un altro importante manoscritto che non presenta caratteristiche stilistiche molto differenti da quelle dei precedenti due codici: si tratta del Kitāb al-ḥayawān (Libro degli animali) di al-Jāḥiẓ, autore vissuto a cavallo dei secc. 8°-9° (Milano, Bibl. Ambrosiana, S.P.67, già Ar. D.140 inf.; Löfgren, Lamm, 1946; Löfgren, Traini, 1975-1981, II, nr. CXXX, tavv. IV-XVI). Fra le sue ottantasette m. è particolare e insolita quella della c. 25r (Löfgren, Traini, 1975-1981, tav. XI), ove è rappresentato Zhu'l-Qarnayn, l'Alessandro Magno del Corano, armato di spada e seduto accosciato su un trono affiancato da due personaggi anch'essi armati; la 'didascalia' recita: "E allo stesso modo [cioè come avvengono incroci fra animali] accadeva per Zhu'l Qarnayn: sua madre [...] era umana, ma suo padre [...] era uno degli angeli".
Bibl.:
Fonti. - Mas'ūdī, Kitāb al-tanbīh wa'l-ishrāf, Cairo 1938, p. 92ss.; Iṣṭakhrī, Kitāb al-masālik wa᾽l-mamālik, a cura di M.J. de Goeje, in Bibliotheca geographorum Arabicorum, I, Leiden 1870, p. 106; Ibn al-Haytham, Opticae thesaurus, Basel 1572 (rist. anast. a cura di F. Risner, D. Lindberg, New York-London 1972); ῾Alī Efendi, Manāqib-i Hünervarān, a cura di I.M. Kemâl (Türk Tarih Encümeni Külliyatı, 9), Istanbul 1926; F. Krenkow, An Early Note on the Technique of Painting, BurlM 47, 1925, pp. 46-51; Ibn Ḥajar al-Asqalānī, al-Durar al-Kāminah fī a῾yān al-mi᾽at al-thāminah, 4 voll., Heiderabad 1929-1932; A. Bausani, I Fratelli della Purità, Napoli 1978; W.M. Thackston, A Century of Princes: Sources on Timurid History of Art, Cambridge (MA) 1989.
Letteratura critica. - J. von Karabacek, Das arabische Papier, Mitteilungen aus der Sammlung der Papyrus Erzherzog Rainer 1, 1887, pp. 87-178; C. Huart, Les calligraphes et les miniaturistes de l'Orient musulman, Paris 1908; F.R. Martin, The Miniature Painting and Painters of Persia, India and Turkey, London 1912; T.W. Arnold, Survivals of Sasanian and Manichaean Art in Persian Painting, Oxford 1924; id., Painting in Islam. A Study of the Place of Pictorial Art in Muslim Culture, Oxford 1928 (New York 19652); T.W. Arnold, A. Grohmann, The Islamic Book: a Contribution to its Art and History from the VII-XVIII Century, München 1929; P. Pelliot, Des artisans chinois à la capitale abbaside en 751-762, T'oung Pao 26, 1929, pp. 110-112; F. Babinger, Papierhandel und Papierbereitung in der Levante, Wochenblatt für Papierfabrikation 62, 1931, pp. 1-12; A. Mousa, Zur Geschichte der islamischen Buchmalerei in Ägypten, Cairo 1931; A.P. Laurie, Materials in Persian Miniatures, in Technical Studies in the Field of the Fine Arts, Harvard University 3, 1934, pp. 146-156; I. Stchoukine, Un manuscrit du traité d'al-Jazari, sur les Automates au VIIsiècle de l'Hégire, GBA, s. VI, 11, 1934, pp. 134-140; id., La peinture iranienne, Bruges 1936; M. Aga-Oglu, The Landscape Miniatures of an Anthology Manuscript of the Year 1398 A.D., Ars islamica 3, 1936, pp. 76-98; K. Holter, Die Galen-Handschrift und die Makamen des Arîrî der Wiener Nationalbibliothek, JKhSWien, n.s., 11, 1937, pp. 1-48; D. Brian, A Reconstruction of the Miniature Cycle in the Demotte Shah Namah, Ars islamica 6, 1939, pp. 97-112; H. Buchthal, The Painting of the Syrian Jacobites in its Relation to Byzantine and Islamic Art, Syria 20, 1939, pp. 136-150; id., Hellenistic Miniatures in Early Islamic Manuscripts, Ars islamica 7, 1940, pp. 125-133; U. Monneret de Villard, Un codice arabo-spagnolo con miniature, La Bibliofilia 43, 1941, pp. 209-223; R. Ettinghausen, Painting in the Fatimid Period: a Reconstruction, Ars islamica 9, 1942, pp. 112-124; O. Löfgren, C.J. Lamm, Ambrosian Fragments of an Illuminated Manuscript Containing the Zoology of al-Ǧāḥiẓ (Uppsala Universitets Årsskrift, 5), Uppsala-Leipzig 1946; B. Farès, Une miniature religieuse de l'Ecole de Bagdad, datée 614 Heg./1217-1218, figurant le Prophète Muhammad, Bulletin de l'Institut d'Egypte, n.s., 28, 1947, pp. 259-262; id., Une miniature religieuse de l'Ecole arabe de Bagdad, Cairo 1948; U. Monneret de Villard, Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina in Palermo, Roma 1950; D. Barrett, Persian Painting in the Fourteenth Century, London 1952; B. Farès, Le Livre de la Thériaque: manuscrit arabe à peintures de la fin du XIIe siècle conservé à la Bibliothèque National de Paris, Cairo 1953; D.T. Rice, The Aghānī Miniatures and Religious Painting in Islam, BurlM 95, 1953, pp. 128-134; S.M. Stern, A New Volume of the Illustrated Aghānī Manuscript, Ars orientalis 2, 1957, pp. 501-503; R. Ettinghausen, Persian Ascension Miniatures of the Fourteenth Century, in Oriente e Occidente nel Medio Evo, "Atti dei Convegni dell'Accademia dei Lincei, Roma 1956", Roma 1957, pp. 360-383; id., On Some Mongol Miniatures, Kunst des Orients 3, 1959, pp. 44-65; E.J. Grube, Materialen zum Dioskurides Arabicus, in Aus der Welt der islamischen Kunst. Festschrift für Ernst Kühnel zum 75. Geburtstag am 26.10.1957, Berlin 1959, pp. 163-194; D.S. Rice, The Oldest Illustrated Arabic Manuscript, Bulletin of the School of Oriental and African Studies 12, 1959, pp. 207-220; E. Wellesz, An Early al-Ṣūfī Manuscript in the Bodleian Library in Oxford, Ars orientalis 3, 1959, pp. 1-26; F. Rosenthal, Al-Mubashshir ibn Fatik: Prolegomena to an Abortive Edition, Oriens 13-14, 1960-1961, pp. 132-158; A. Ateş, Un vieux poème romanesque persan: Récit de Warqah et Gulshāh, Ars orientalis 4, 1961, pp. 143-152; B. Gray, Persian Painting, Genève 19612 (London 1930); R. Ettinghausen, La peinture arabe, Genève 1962; E.J. Grube, Studies in the Survival and Continuity of Pre-Muslim Traditions in Egyptian Islamic Art, Journal of the American Research Center in Egypt 1, 1962, pp. 75-102; id., Three Miniatures from Fusṭāṭ in the Metropolitan Museum of Art in New York, Ars orientalis 5, 1963, pp. 89-95; I. Güner, Some Miniatures of the Jāmi῾ al-Tawārīkh in Istanbul, Topkapı Museum, Hazine Library no. 1654, ivi, pp. 163-176; G. Wiet, Recherches sur les bibliothèques égyptiennes aux Xe et XIe siècles, CahCM 6, 1963, pp. 1-11; E. Wellesz, Islamic Astronomical Imagery. Classical and Bedouin Tradition, Oriental Art, n.s., 10, 1964, pp. 85-91; I. Güner, The Fourteenth-Century Miniatures of the Jāmi῾ al-Tawārīkh in Istanbul, Topkapı Museum, Hazine Library no. 1654 (tesi), Ann Arbor Univ. 1965; I. Stchoukine, Origine turque des peintures d'une anthologie persane de 801/1398, Syria 42, 1965, pp. 137-140; B. Dodge, The Fihrist of al-Nadīm. A Tenth Century Survey of Muslim Culture, New York 1970; A.S. Melikian-Chirvani, Le roman de Varqe et Golšāh, Arts asiatiques 22, 1970, pp. 1-262; G.M. Meredith-Owens, Some Remarks on the Miniatures in the Society's Jāmi῾ al-Tawārīkh, Journal of the Royal Asiatic Society, 1970, pp. 195-199; M.Ş. Ipşiroğlu, Die Entstehung des iranischen Landschaftsbildes, Persica 5, 1970-1971, pp. 15-26; H.C. Graf von Bothmer, Die Illustrationen des Münchener Qazwīnī von 1280 A.D. (tesi), Univ. München 1971; P. Mackay, Certificates of Transmission of a Manuscript of the Maqāmāt of Ḥarīrī (ms. Cairo, Adab 105), Transactions of the American Philosophical Society, n.s., 61, 1971, 4; N. Titley, A Fourteenth-Century Khamseh of Niẓāmī, BrMusQ 36, 1971, pp. 8-11; S.C. Welch, A Flower for Every Meadow, New York 1972; L.D. Reinolds, N.G. Wilson, Scribes and Scholars. A Guide to the Transmission of Greek and Latin Literature, Oxford 19742; E.J. Grube, Miniature islamiche nella collezione del Topkapı Sarayı di Istanbul, Padova 1975; G. Inal, Artistic Relationship between the Far and the Near East as Reflected in the Miniatures of the Ǧāmi῾ at-Tawārīḥ, Kunst des Orients 10, 1975, pp. 108-143; D. King, Medieval Mechanical Devices, History of Science 8, 1975, pp. 284-289; P.P. Soucek, An Illustrated Manuscript of al-Bīrūnī. Chronology of Ancient Nations, in The Scholar and the Saint. Studies in Commemoration of Abu᾽l-Rayhān al-Bīrūnī and Jalal al-Dīn Rūmī, a cura di P. Chelkowsky, New York 1975, pp. 103-168; O. Löfgren, R. Traini, Catalogue of the Arabic Manuscripts in the Biblioteca Ambrosiana, 2 voll., Vicenza 1975-1981; The Genius of Arab Civilization. Source of Renaissance, a cura di J.R. Hayes, Oxford 1976; E.J. Grube, Fusṭāṭ Fragments, in The Keir Collection, Islamic Painting and the Arts of the Book, a cura di B.W. Robinson, London 1976, pp. 23-66; id., Pre-Mongol and Mamluk Painting, ivi, pp. 69-128; M.Ş. Ipşiroğlu, Siyah Qalem. Vollständige Facsimile-Ausgabe der Blätter des Meisters Siyah Qalem aus dem Besitz des Topkapı Sarayı Müzesi, Istanbul and Freer Gallery of Art, Washington, Graz 1976; D.T. Rice, The Illustrations of the 'World History' of Rashīd al-Dīn, a cura di B. Gray, Edinburgh 1976; The World of Islam, a cura di B. Lewis, London 1976; U. Monneret de Villard, Book Painting (B) The Relations of Manichaean Art to Iranian Art, in A Survey of Persian Art. From Prehistoric Times to the Present, a cura di A.U. Pope, P. Ackerman, V, Teheran 19773, pp. 1820-1828; E.J. Grube, The Hippiatrica Arabica Illustrata. Three 13th Century Manuscripts and Related Material, ivi, XIV, pp. 3138-3155; J.A. Badiee, An Islamic Cosmography: the Illustrations of the Sarre Qazwīnī (tesi), Ann Arbor 1978; B. Gray, The World History of Rashīd al-Dīn. A Study of the Royal Asiatic Society Manuscript, London 1978; E.J. Grube, Persian Painting in the Fourteenth Century. A Research Report, AnnION 38, 1978, 4, suppl. 17 (rec.: A.S. Melikian-Chirvani, Studia Iranica, suppl. 2, 1979, pp. 165-166); F. Gabrieli, U. Scerrato, Gli Arabi in Italia (Antica Madre), Milano 1979 (19852); M.S. Simpson, The Illustration of an Epic: the Earliest Shahnama Manuscripts, New York-London 1979; O. Grabar, S.S. Blair, Epic Images and Contemporary History. The Illustrations of the Great Mongol Shahnama, Chicago 1980; B.W. Robinson, Rashid al-Din's World History. The Significance of the Miniatures, Journal of the Royal Asiatic Society, 1980, pp. 212-222; E.J. Grube, La pittura dell'Islam: miniature persiane dal XII al XVI secolo, Bologna 1980; id., The Problem of the Istanbul Album Paintings, Islamic Art 1, 1981, pp. 1-30; Z. Tanındı, Some Problems of Two Istanbul Albums, H. 2153 and 2160, ivi, pp. 37-41; C. Haase, On the Attribution of Some Paintings in H. 2153 to the Time of Timur, ivi, pp. 50-55; E. Sims, The Relations between Early Timurid Painting and Some Pictures in the Istanbul Albums, ivi, pp. 56-61; E. Atil, Kalila wa Dimna. Fables from a Fourteenth-Century Arabic Manuscript, Washington 1981; M.S. Simpson, The Role of Baghdād in the Formation of Persian Painting, in Art et société dans le monde iranien, a cura di C. Adle (Bibliothèque iranienne, 26), Paris 1982, pp. 91-115; M.M. Sadek, The Arabic Materia Medica of Dioscorides, St. Jean-Chrysostome 1983; J.A. Badiee, The Sarre Qazwini: an Early Aq Qoyunlu Manuscript?, Ars orientalis 14, 1984, pp. 98-103; O. Grabar, The Illustrations of the Maqāmāt, Chicago-London 1984 (con bibl.); A.T. Adamova, L.T. Gjuzal'jan, Miniatury rukopisi poémy ''Shahname'' 1333 goda [Un manoscritto miniato dello Shānāma del 1333], Leningrad 1985; T. Allen, Byzantine Sources for the Jāmi῾ al-Tawārīkh of Rashīd al-Dīn, Ars orientalis 15, 1985, pp. 121-136; A.S. Melikian-Chirvani, Sulwān al-Muṭa῾ fī ῾Udwān al-Atbā῾. A Rediscovered Masterpiece of Arab Literature and Painting, 3 voll., Kuwait 1985; R. Ward, Evidence for a School of Painting at the Artuqid Court, in The Art of Syria and the Jazīra, 1100-1250, Oxford 1985, pp. 69-83; M. Barrucand, Le Kalīla wa Dimna de la Bibliothèque Royale de Rabat, un manuscrit illustré īl-khānide, in Mélanges offerts au Professeur Dominique Sourdel, REI 54, 1986, pp. 17-48; A. Daneshvari, Animal Symbolism in Warqa wa Gulshāh (Oxford Studies in Islamic Art, 2), Oxford 1986; The Topkapı Saray Museum. The Albums and Illustrated Manuscripts, a cura di J.M. Rogers, cat., London 1986; R. Ettinghausen, O. Grabar, The Art and Architecture of Islam: 650-1250 (The Pelican History of Art), Harmondsworth 1987; P. Soucek, The Life of the Prophet: Illustrated Versions, in Content and Context of Visual Arts in the Islamic World, "Papers from a Colloquium in Memory of Richard Ettinghausen, New York 1980", a cura di P. Soucek, London 1988, pp. 193-218; S. Carboni, Il Kitāb al-bulhān di Oxford, Torino 1988; id., The London Qazwini: an Early 14th-Century Copy of the "῾Aja᾽ib al-makhlūqat", Islamic Art 3, 1988-1989, pp. 15-31; A. Contadini, The Kitāb manāfi ῾al-ḥayawān in the Escorial Library, ivi, pp. 33-57; Arabesques et jardins de paradis. Collections françaises d'art islamique, cat., Paris 1989; S.S. Blair, On the Track of the 'Demotte' Shahnama Manuscript, in Les manuscrits du Moyen-Orient. Essais de codicologie et de paléographie, "Actes du Colloque, Istanbul 1986", a cura di F. Déroche, Istanbul-Paris 1989, pp. 125-131; A.M. Piemontese, Catalogo dei manoscritti persiani conservati nelle biblioteche d'Italia, Roma 1989; T. Fitzherbert, Khwājū Kirmānī (689-753/1290-1352): an 'éminence grise' of Fourteenth Century Persian Painting, Iran 29, 1991, pp. 137-151; E.J. Grube, Prolegomena for a Corpus Publication of Illustrated Kalīlah wa Dimna Manuscripts, Islamic Art 4, 1991, pp. 301-481; B. Schmitz, Islamic Manuscripts in the New York Public Library, New York-Oxford 1992; E.R. Hoffman, The Author Portrait in Thirteenth-Century Arabic Manuscripts: a New Islamic Context for a Late-Antique Tradition, Muqarnas 10, 1993, pp. 6-20; L. Golombek, The Paysage as Funerary Imagery in the Timurid Period, ivi, pp. 241-252; S.S. Blair, The Development of the Illustrated Book in Iran, ivi, pp. 266-274; S.R. Canby, Depictions of Buddha Sakyamuni in the Jami῾ al-Tavarikh and the Majma῾ al-Tavarikh, ivi, 1993a, pp. 299-310; id., Persian Painting, London 1993b; M. Barrucand, Architecture et espaces architecturales dans les illustrations des Maqâmât d'al-Ḥarîrî du XIIIe siècle, in The Art of the Saljūqs in Iran and Anatolia, "Proceedings of a Symposium, Edinburgh 1982", a cura di R. Hillenbrand, Costa Mesa 1994, pp. 79-88; B. Brend, A Reconsideration of the Book of Constellations of 400/1009-1010 in the Bodleian Library, ivi, pp. 89-95; J. Raby, Saljūq-Style Painting and a Fragmentary Copy of al-Ṣūfī's ''Fixed Stars'', ivi, pp. 106-117; R. Hillenbrand, The Relationship between Book Painting and Luxury Ceramics in 13thCentury Iran, ivi, pp. 134-145; S.S. Blair, J.M. Bloom, The Art and Architecture of Islam: 1250-1800 (The Pelican History of Art), New Haven 1994; M.L. Swietochowski, S. Carboni, Illustrated Poetry and Epic Images: Persian Painting of the 1330's and 1340's, cat., New York 1994; S. Carboni, The Illustrations in the Mu᾽nis al-aḥrar, ivi, pp. 8-47; A. Morton, The mu᾽nis al-aḥrār and its Twenty-Ninth Chapter, ivi, pp. 49-66; M.L. Swietochowski, The Metropolitan Museum of Art's Small Shānāmah, ivi, pp. 67-127; A. Hagedorn, Badr ad-Dīn Lu᾽lu᾽ von Mosul (reg. 1233-1259): zu Auftraggebern islamischer Kleinkunst im 13. Jahrhundert, Zeitschrift der Deutschen morgenländischen Gesellschaft, suppl. 10, 1994, pp. 493-507; S.S. Blair, A Compendium of Chronicles: Rashid al-Din's Illustrated History of the World, London 1995; S. Carboni, I manoscritti in arabo, in Da Bagdad a Iṣfahān. Pittura e calligrafia islamica dall'Accademia Russa delle Scienze, San Pietroburgo, cat., Lugano 1995, pp. 85-99; A.B. Chalidov, ivi, pp. 152-163 nr. 18; E.J. Grube, A Drawing of Wrestlers in the Cairo Museum of Islamic Art, in id., Studies in Islamic Painting, London 1995a, pp. 63-125, 517-519; id., Materialien zum Dioskurides Arabicus, ivi, 1995b, pp. 126-157, 519-524; id., Persian Painting in the Fourteenth Century, ivi, 1995c, pp. 158-290, 524-528; A.M. Piemontese, Colophon persiani fioriti e illustrati, in Scribi e colofoni. Le sottoscrizioni di copisti dalle origini all'avvento della stampa, "Atti del Seminario. X Colloquio del Comité international de paléographie latine, Erice 1993", a cura di E. Condello, G. De Gregorio, Spoleto 1995, pp. 473-493; Studies in Persian Painting, a cura di R. Hillebrand, Cambridge 1996; A. Touwaide, Farmacopea araba medievale, Codice Ayasofia 3703, I-IV, s.l., s.d.; S.S. Blair, J. Bloom, Epic Images and Contemporary History: the Legacy of the Great Mongol Shahnama, Islamic Art 5 (in corso di stampa).