MIMESI (μίμησις)
È il termine filosofico dei Greci per definire l'origine e l'essenza dell'arte nelle sue molteplici estrinsecazioni (suoni, parole, figure). L'arte è, nel loro concetto, imitazione della natura circostante agli uomini. In sede puramente filosofica Platone svalutò l'arte-mimesi in quanto imita le cose, gli oggetti, che a loro volta sono imitazioni dell'"idea" assoluta di ciascun gruppo di cose e di oggetti; onde Aristotele cercò di presentare la m. come imitazione non delle cose particolari, ma direttamente dell'idea universale.
In un piano più pratico, e più vicino all'attività artistica, Socrate aveva indicato una soluzione nel senso di poter raggiungere la perfetta m. prendendo dai vanî oggetti gli elementi più belli e riunendoli in un oggetto ideale, creato intellettualmente, il quale possedesse cosi, tanto esteriormente che eticamente, un alto grado di umanità. "Poiché non è facile trovare un solo uomo che abbia tutte le parti incensurabili, riunendo da molti le cose più belle di ciascuno, voi artisti fate apparire bello tutto quanto il corpo" (Xenoph., Mem., iii, 10, 2; cfr. Aristot., Polit., 1281; Cic., De invent., ii, 1, 3). Il passo di Cicerone è anche più chiaro in quanto egli chiama veritas questa somma di singole parti desunte dalla massa degli uomini. Si può pertanto dire che, almeno in epoca ellenistica, vi è doppia mimesis e doppia veritas: quella dei singoli, parziale, realistica; e quella dell'arte, totale, intellettuale; frazione di verità e verità intera.
La m. pertanto può assumere tre gradi di intensità, secondo Aristotele (Poet., 1460 b): o si imitano le cose come sono (1° grado); o si imitano come sembra che siano (2° grado); o si imitano come debbono essere (3° grado). Al 1° grado noi diremmo che si sono fermati Policleto, Polignoto e in genere gli artisti del V sec.; il 2° grado è quello di Lisippo (quales viderentur esse, Plin., xxxiv, 6°); al 3°, secondo Aristotele, è giunto soltanto Sofocle.