Mimamsa
Sistema filosofico indiano sviluppatosi a partire dall’esegesi dei testi vedici.
Il termine significa letteralmente «desiderio di riflettere» e si trova già in testi sacrificali di epoca tardovedica dove indica l’indagine esegetica sui Brāhmaṇa (➔ Veda). La scuola della M. si distingue tuttavia da una mera esegesi orientata all’esecuzione corretta dei sacrifici per le sue tendenze sistematiche (mira, per es., a spiegare i sacrifici facendo appello al numero minore possibile di regole, mentre i manuali a uso degli officianti rituali preferiscono essere più espliciti e ripetitivi) e per i temi più generali (teoria della significazione, apprendimento del linguaggio, epistemologia, teoria dell’errore, ecc.) che non manca di affrontare fin dal suo testo fondamentale, il Mīmāṃsāsūtra («Sūtra della M.»). Questo è tradizionalmente attribuito a Jaimini, ma di fatto il nome di Jaimini è citato nel testo stesso, assieme a quello di Bādarāyaṇa (cui è attribuito il Vedāntasūtra «Sūtra del Vedānta») e di altri autori. All’uno o all’altro di questi vengono ascritte le opinioni prese in considerazione nel testo (che configura un metodo dialettico in cui si susseguono opinioni avversarie o pūrvapakṣa, contro-obiezioni o uttarapakṣa, e conclusioni o siddhānta) e via via approvate o respinte. In un singolo caso un’opinione poi respinta è ascritta proprio a Jaimini. Una situazione simile caratterizza anche il Vedāntasūtra, in cui sono citati Jaimini, Bādarāyaṇa e altri autori. I due testi sono anche accomunati da una simile struttura e da una tradizione di testi, tutti perduti, che commentavano il Vedāntasūtra subito dopo il Mīmāṃsāsūtra. Tutto ciò induce a pensare (secondo un’ipotesi presentata da Asko Parpola) che i due testi fossero originariamente un’unica opera e che le denominazioni frequenti per M. e Vedānta, ossia Pūrva M. e Uttara M., si riferissero originariamente alle due parti di un unico Mīmāṃsāsūtra, diviso in una parte precedente (pūrva) e una successiva (uttara), rispettivamente dedicate al dharma e al brahman. Tale origine comune delle due scuole permette anche di comprenderne meglio la complementarità. Di fatto, le scuole del Vedānta accettano quasi tutti i principi esegetici stabiliti dalla M., la quale, a sua volta, sostanzialmente non affronta i testi e i temi di pertinenza del Vedānta, ossia le Upaniṣad, la realtà ultima, la liberazione (mokṣa). A ogni modo, il Mīmāṃsāsūtra è il più lungo fra i testi fondamentali delle varie scuole e probabilmente anche il più antico, a giudicare dagli interlocutori filosofici citati e dalla struttura generale sopra descritta e che pare aver influenzato la composizione di altri sūtra. Il primo commento conservatoci è quello di Úabara Svāmin (forse 3°-5° sec.), che cita un precedente commentatore (detto Vr̥ttikāra) e il cui commento è diventato talmente fondante da determinare ogni successiva lettura del Mīmāṃsāsūtra. I due commentatori di Śabara, Kumārila Bhaṭṭa e Prabhākara Miśra, detto Guru (forse 6°-7° sec.), furono probabilmente coevi, dato che nonostante l’enorme influenza che ciascuno dei due esercitò sulla M. successiva, sembrano non conoscersi. A partire da loro si sviluppano le due correnti della Prābhākara (per le cui specificità, ➔ Prabhākara) e della Bhāṭṭa M., tuttora attive in India. Fra i subcommentatori di Prabhākara essenziale è Śālikanātha Miśra, che contribuì in maniera determinante alla fortuna della propria scuola, trattando temi rimasti poco accessibili nei testi, spesso oscuri, di Prabhākara. Fra quelli di Kumārila, si distinguono soprattutto Uṃveka Bhaṭṭa (8° sec.), Sucarita Miśra (ca.10° sec.), Pārthasārathi Miúra (ca. 11° sec.) e Someśvara Bhaṭṭa (13° sec.).
La M. definisce uno strumento di conoscenza valida (pramāṇa) come un mezzo che permette di conoscere un oggetto prima ignoto. Questo requisito fa sì che non vengano ammesse fra i pramāṇa accettati dalla M. la memoria e la percezione prolungata di uno stesso oggetto (mentre è un pramāṇa genuino il primo atto percettivo che ci permetta di cogliere l’oggetto). Più in generale, l’epistemologia della M. si caratterizza contemporaneamente per l’aderenza al mondo comune e al Veda e per la rigida divisione dei loro ambiti rispettivi. A eccezione del Veda, tutti gli strumenti conoscitivi si basano direttamente o indirettamente sulla percezione sensibile (dato che è questa a fornire i dati bruti a partire dai quali è possibile elaborare un’inferenza, un’analogia, ecc.) e sono quindi inevitabilmente legati all’ambito del sensibile. Al contrario, il Veda, in quanto comunicazione linguistica indipendente da un autore umano (➔ Kumārila Bhaṭṭa), è l’unico strumento conoscitivo che permetta di conoscere il trascendente. Ne deriva una simmetria di fondo fra percezione sensibile e Veda i quali si corrispondo nei propri diversi ambiti. Tale simmetria non è violata da alcun tipo di percezione ultrasensibile (yogipratyakṣa, ➔ pratyakṣa) in grado di cogliere il trascendente (ammessa da tutte le scuole che si rifanno a un fondatore storico capace di conoscere direttamente il trascendente e insegnarlo). La possibilità di una percezione non limitata ai dati sensibili è infatti decisamente avversata dalla M. in nome del fatto che l’esperienza ordinaria (loka) è il nostro unico parametro e non è legittimo postulare senza prove alcuno scostamento da questa, come l’esistenza di individui straordinari che abbiano un accesso diretto al trascendente.
Il maggiore contributo della M. alla filosofia indiana avviene in ambito esegetico. Oggetto dell’esegesi della M. è il Veda, ma poiché a questo è riconosciuto un valore paradigmatico, le regole elaborate hanno valore generale (fanno eccezione le regole che derivino da caratteristiche precipue del Veda, come il non dipendere da un autore) e sono applicabili a qualunque esempio di linguaggio. Storicamente, l’esegesi della M. è, per es., alla base della giurisprudenza indiana. L’assunto di fondo dell’esegesi della M. è l’idea che ogni unità testuale (intesa come una clausola con verbo finito) abbia un significato, per cui l’interpretazione deve assolutamente evitare di giungere ad attribuirle nessun significato o più di un significato. In partic., solo la parte prescrittiva del Veda possiede, secondo la M., un significato autonomo. Le speculazioni delle Upaniṣad, come le esplicazioni mitologiche dei Brāhmaṇa e gli inni delle Saṃhitā, sono invece comprensibili solo come appendici di una prescrizione. Le affermazioni che descrivono il sé (ātman) presenti nelle Upaniṣad sono perciò interpretate come supplementi delle prescrizioni sacrificali cui forniscono eulogie riguardanti il sé inteso come agente del sacrificio. Al centro dell’ermeneutica della M. è quindi una prescrizione, o meglio un verbo di significato prescrittivo, cui vengono connesse unità testuali anche molto lunghe. Per es., tutto ciò che riguarda il sacrificio Darśapūrṇamāsa – e cioè le sostanze rituali, i riti preparatori e di conclusione, gli strumenti da utilizzare, le divinità cui rivolgersi, i sacrificanti, ecc. – è connesso alla singola prescrizione «Chi desidera il cielo sacrifichi con i sacrifici Darśapūrṇamāsa». Centrale è quindi un’azione. Questa consiste in una forza efficiente (bhāvanā), espressa da ogni terminazione verbale finita ed equivalente all’attivarsi di una persona. La radice verbale, invece, esprime lo strumento di tale attivazione e non l’attivazione stessa, per cui nella prescrizione citata la radice verbale in ‘sacrifichi’ equivale a ‘mediante un sacrificio’, mentre la componente attiva del verbo è presente solo nella terminazione. Ciò è provato, sostiene la M., dal fatto che la radice verbale è presente anche in termini che non indicano affatto un’attivazione (per es., la radice di ‘cuocere’ è presente anche in ‘cuoco’), mentre le terminazioni verbali finite indicano invariabilmente un’attivazione. Specifica di una prescrizione, secondo la scuola Bhāṭṭa, è una seconda forza efficiente, detta forza efficiente linguistica (śabdabhāvanā), comunicata dalla terminazione verbale di ottativo, imperativo, gerundivo e simili e capace di indurre l’attivazione da parte dell’ascoltatore. La forza efficiente linguistica ha perciò come oggetto la forza efficiente, la quale consiste in uno sforzo mirante a uno scopo desiderato (secondo la scuola Bhāṭṭa, il desiderio è indispensabile come movente dell’azione).
La M. è anche nota nella cultura indiana come vākyaśāstra («insegnamento sistematico riguardante le frasi») poiché il suo legame con l’esegesi vedica determina un’attenzione al linguaggio nella sua forma di testo (intendendo con questo termine qualunque passaggio formato da frasi interconnesse, indipendentemente dalla sua forma scritta od orale). Contemporaneamente, però, la M. si discosta dall’olismo linguistico di Bhartr̥hari e dei sostenitori dello sphoṭa. Per la M., infatti, al di fuori dell’ambito del trascendente, l’esperienza ordinaria (loka) è l’autorità ultima, e l’esperienza ordinaria è univoca – sostiene la M. – nel mostrare che le parole (e non le frasi) sono i veicoli minimi del significato. Le due scuole della M. si oppongono invece nel descrivere il processo tramite il quale dalle parole si giunge al significato della frase. Per la corrente Bhāṭṭa le parole dapprima designano ciascuna il proprio significato e poi i significati vengono collegati fra loro. Resta da spiegare come si giunga da tanti significati slegati a un significato unico per la frase. Secondo i Bhāṭṭa, tale significato unico è comunicato dalle parole tramite designazione secondaria (lakṣaṇā). Le parole, quindi, designano primariamente il proprio significato e secondariamente quello della frase. Si parla perciò di abhihitānvayavāda («teoria che propugna la connessione di [significati] precedentemente espressi»), in opposizione all’anvitābhidhānavāda («teoria che propugna l’espressione [del significato della frase] da parte di [parole] precedentemente connesse») propugnata dalla scuola di Prabhāvkara. Sul piano fonetico, la M. distingue fra fonemi e loro manifestazione sonora. Solo quest’ultima è localizzata temporalmente, mentre i fonemi sono permanenti (nitya). Parimenti fisso è il legame fra significanti e significati, giacché non è pensabile che una convenzione stipulativa abbia ‘a un certo punto’ dato origine al linguaggio poiché anche per stipulare una tale convenzione sarebbe stato necessario utilizzare parole. L’ipotesi che la convezione sia stata stipulata da Dio, infine, è respinta mediante il ricorso al principio noto in Occidente come rasoio di Occam (➔).
La M. adotta in gran parte l’ontologia elaborata dal Vaiśeṣika adattandola però al proprio empirismo di fondo (l’autorità ultima per decidere dell’esistenza di una sostanza è perciò l’esperienza ordinaria) e a una sorta di rasoio di Occam per cui a meno di ragioni cogenti si deve ricorrere alla soluzione più economica. Dunque, sostiene la M., non esiste alcun Dio. Egli non è infatti visibile nell’esperienza ordinaria e ricorrere a Lui per spiegare il mondo equivale a ricorrere a ipotesi non necessarie. Un Dio da solo non basta infatti a spiegare le disuguaglianze nel mondo, per cui sarebbe necessario comunque postulare anche il meccanismo della retribuzione karmica (➔ karma): ma allora perché non postulare solo quest’ultimo?