DANDOLO, Milly
Nacque il 4 genn. 1895 a Milano, nell'agiata famiglia di un chirurgo di origine veneta Alessandro, e di Elvira Janna. Studiò infatti a Castelfranco Veneto e poi in collegio a Padova, dove seguì le lezioni di C. Trabalza. Le sue attitudini letterarie si rivelarono precocemente: già nel 1909 iniziò a collaborare al Passerotto, ilsupplemento dedicato alle prove dei piccoli lettori del Giornalino della domenica, ideato da padre E. Pistelli che, con lo pseudonimo di Omero Redi, curava una rubrica, presto famosa, d'impronta educativa e esortativa, Le pistole di Omero. Della corrispondenza con l'allora direttore del Giornalino, L. Bertelli, il più famoso Vamba del Giornalino di Gian Burrasca, la D. farà un'affettuosa rievocazione in un racconto del 1922 apparso sullo stesso foglio, Storia di un uomo grande e di una bambina piccola. Fulo stesso Vamba a curare la prefazione della raccolta di versi composti dalla D. tra il 1909 e il 1912, pubblicati l'anno dopo da Treves con il semplice titolo di Poesie.
In questo adolescenziale debutto è già presente la vena malinconica e rassegnata che dominerà la narrativa della D. (Vamba ne sottolinea il "male soave") ma anche la sua fine sensibilità, l'attenzione alla forma, sebbene elementare, e al valore della parola.
Durante la guerra la famiglia Dandolo si rifugiò a Firenze per poi far ritorno a Venezia, città che fornirà più volte lo sfondo, ora cupo ora mondano, ai romanzi della Dandolo. Da qui essa inviò altre liriche al nuovo direttore del Giornalino, G. Fanciulli, il quale, pur apprezzandone la poesia, esortò la giovane alla prosa, avvertendone le "doti straordinarie di narratrice", e le commissionò un romanzo che uscì a puntate nel 1921.
Nino sogna anticipa un atteggiamento costante della D. nella sua copiosa produzione dedicata all'infanzia: il dolore, intimamente legato all'esistenza stessa, viene decantato e risarcito dall'innocenza deibambini, come viene ribadito in un racconto dello stesso anno, La narratrice di novelle; gli adulti possono alleviare questa condizione stimolando la fantasia infantile - si legge nel Cavallino con le ali - magaricon "un pezzo di cartone ritagliato".
Stabilitasi a Milano, la D. divenne redattrice del Giornalino e si specializzò in racconti brevi, favole, romanzi e novelle per bambini. Alcuni di questi saranno poi raccolti in volume: in Piccole storie di cose grandi (Torino 1923), Storie meravigliose del cielo e della terra (ibid. 1933), Ilcuore che germoglia (Brescia 1934), si è ormai consolidata una tematica intessuta di nuvole, cieli, stelle, raggi di luna, piccoli animali, e tramata da visioni, ricordi, colloqui con le cose. Più disteso si fa l'impianto narrativo nei racconti "marinari" di Narra il nostromo del 1926 (Torino), scritto in collaborazione con il marito Eugenio Gara; da una novella apparsa sul Giornalino nel 1923 con lo pseudonimo di Fiorel, La storia della carta, la D. sviluppò nel 1930 il romanzo Sette regni e una bambina ... ma la corona più bella è la carità (Firenze), che fin dal titolo rende esplicita la concezione adultistica della cultura per l'infanzia e l'ideologia sostanzialmente cattolica in senso conservatore della Dandolo.
Analoga l'impostazione delle altre opere: Un cuore di legno del 1929 (Milano), Figli di re e Ilmeraviglioso viaggio di Giuliano, rispettivamente del 1934 (Torino) e del 1936 (Brescia); Cuori in cammino (Torino 1930), vinse un premio della Soc. editrice italiana raccontando la prevedibile e lacrimosa storia di due fratellini partiti alla ricerca del padre disperso in guerra e raccolti da un vecchio, ricco misantropo che si fa conquistare dall'innocenza dei fanciulli. L'impronta cattolica diventa a volte manichea in alcune delle novellette comprese nella raccolta Il tesoro nascosto del 1937 (Milano), dove al "viandante saggio" si contrappone quello "stolto", alla "rondine saggia" quella "stanca" e così via. La raccolta costituisce una fonte preziosa per illustrare i caposaldi delle idee educative della D., quali la laboriosità, il buon senso, la bontà "naturale" dei poveri, e infine l'Economia e il Risparmio, che compaiono addirittura sotto le spoglie di buone fate nel Sogno di Marcello, ed esortano ad una autarchia basata su un riciclaggio a dimensione nazionale, dato che "la Patria è una grande famiglia". Né l'impianto favolistico arricchisce un lessico che più che chiaro è povero, mentre vivaci e mossi sono gli schizzi di Brunetta che corredano il volume.
In linea con una distinzione praticata fin dai primi esperimenti ottocenteschi di letteratura educativa, la D. si dedicò anch'essa ai racconti "per fanciulle", tesi a ribadire per le donne i valori della famiglia e di un impegno esclusivamente privato, anzi casalingo, conformemente alle indicazioni delle encicliche degli anni Trenta di papa Pio XI. Una non innocente "soavità femminile" e materna distingue Il sogno di una notte di maggio (Milano 1924), Il silenzio degli usignoli (Firenze 1927), In ginocchio (ibid. 1929), e altri.
La D. estese la sua attività professionale con le collaborazioni alle riviste La Gazzetta del Popolo, l'Illustrazione italiana, La Lettura, La Cultura moderna, pubblicandovi per lo più brevi racconti o novelle a puntate. Nel novembre del 1931 G. Fanciulli inaugurava un supplemento settimanale gratuito della Gazzetta, la Sezione per i piccoli, e chiamava a lavorare con sé la D.: alla quale, d'altronde, non erano estranee iniziative di questo genere, dato che il marito, nel 1934, ne tentava una analoga, ma meno felice, con il Novellino, basato proprio su una facile divulgazione narrativa per fanciulli. La D. si dedicò anche alla traduzione e soprattutto alla riduzione dei grandi capolavori stranieri della letteratura per ragazzi, da David Copperfield a Peter Pan, dalle Lettres de mon moulin di Daudet a L'ami des enfants di Berquin. A questi si affiancavano le raccolte di racconti, tradotti o comunque ridotti, di grandi autori ritenuti adatti, o resi adatti, a un pubblico di "minori": Sacchetti, Gozzi, Maupassant, Jerome, Boccaccio, Berquin, Turgheniev, Daudet compaiono nel Contanovelle, ne Il mio novelliere, in Piccoliracconti, in Racconti per i più piccini, tutti illustrati da Parmeggiani, Terzi, Pinochi.
Nonostante l'apprezzamento del Fanciulli che parla di "realismo magico", nelle prose per l'infanzia della D. non si rintracciano influenze dickensiane né del settecentesco Berquin, né tanto meno della vena più aspra dello Scurpiddu di Capuana, per esempio: la produzione della D. resta ancorata ad un onesto mestiere ma ad un'arretrata formazione culturale e pedagogica, su cui pesa fortemente una concezione cattolica angusta e raramente duttile, che non permettono alla sua attività letteraria per l'infanzia di uscire da una serialità ripetitiva e deperibile.
Non è dunque casuale l'opera di divulgazione che la D. svolse intorno ai "miti" più noti e popolari del cattolicesimo, riproponendoli come storielle esemplari ed educative a quello stesso pubblico indifeso già avviato da Vamba e padre Pistelli sulla strada di un deamicismo che (come nota acutamente Faeti) si va colorando di fascismo: dalle "storie cristiane" di La buona novella (Torino 1933) alle agiografie di S. Francesco di Sales (Torino 1925), della Santa di Chantal (Roma 1938), dell'immancabile Fanciulla d'Orléans (curiosamente affiancata nell'edizione Treves del 1936 al romanzo quasi proibito Ècaduta una donna) a, ovviamente, La storia di Gesù (Torino 1924) e La storia dei Martiri (ibid. 1925). Meno soffocante e univoca si fa l'ispirazione nel Libro di Natale (ibid. 1926), scritto in collaborazione con il Fanciulli, che raccoglie canti, preghiere, fantasie adatte all'occasione.
Tutt'affatto diverso il tono della produzione "per adulti" della D., tanto che lo stesso Fanciulli, sotto la cui guida la scrittrice era andata maturando attraverso le collaborazioni al Giornalino, sottolineando il carattere "amaro, doloroso, disperato" delle prose posteriori, ne tenta un accordo con certa vena malinconica delle poesie adolescenziali e di alcuni scritti per l'infanzia. In verità, resta sostanzialmente valido il lucidissimo giudizio di Anna Banti sul "romanzo rosa" e sulle sue autrici, che usano la penna come gagne-pain e adeguano contenuti disattenti a un pubblico di "dame e damigelle", piccolo-borghesi e di provata "inferiorità mentale". In questa ottica l'attività stessa della D. si disegna come proficuo mestiere, risultato di una capacità di adattamento dei propri mezzi a forme e tematiche in parte sentite come proprie, in parte imposte dal contesto culturale, ideologico e mercantile (come sempre, comunque, quando si tratta di prodotti di consumo). Per questi motivi, inoltre, più genuina può apparire la produzione per l'infanzia d'impronta religiosa della D., giacché nasconde meglio, per provenienza e destinazione, l'impalcatura ideologica.
La D. inaugurò questo versante già nel 1920 con una novella, Amara come la morte, pubblicata su La Lettura: l'anno dopo uscì a Milano presso Treves il primo romanzo, Il figliodel mio dolore, probabilmente però posteriore, secondo la testimonianza del Fanciulli, a Il vento nella foresta, edito nel 1922 sempre da Treves.
Fin dall'esordio, la vena "dolorifica" è strutturata su alcuni punti-cardine che risultano invariati anche negli scritti ulteriori: l'amore è condizionato dall'odio, per cui più si odia più si ama, ed è perciò fonte d'infelicità, articolandosi di solito sull'incontro-scontro di femmine deboli per definizione, ad alto tasso di fecondità, casalinghe o, più raramente, lavoratrici subalterne, con uomini incolori o perfidi per noncuranza. Con questi presupposti, l'unica via d'uscita per la donna - vittima designata, non più eroina - è la cupa introspezione della rassegnazione e della rinuncia, è l'immobilismo mentale e sociale, è la fissazione nel ruolo più asettico, se vissuto fuori d'ogni coscienza e di ogni rapporto sociale, nel ruolo cioè di madre. Questa, d'altra parte, è la chiave più originle della narrativa della D., che enfatizza il ruolo materno contro le tante "vampire" della letteratura femminile contemporanea, da Liala a Delly, riallacciandosi piuttosto al filone immediatamente precedente, tardo-ottocentesco, di certa Guglielminetti o della Negri.
Il Figlio del mio dolore, se esemplifica modi e forme di tutta la restante produzione narrativa della D., conserva l'impegno dell'esordio e la novità di un tentativo di autoanalisi trasposta nella figura della protagonista, Lalage, adolescente cupa e delicata, cui l'amore stronca la vita proponendosi come una forza misteriosa e ambigua, comunque malefica, sullo sfondo di una Venezia trasudante malinconia. La D. si libererà delle più evidenti ingenuità di questi inizi, come l'esotismo dei nomi (Lalage, Benoni): ma non della convinzione di fondo della debolezza della donna, che però costituisce in certo modo l'unico suo possibile riscatto perché la rende incapace e dunque incolpevole; né di una visione del mondo impregnata di dolore, anche nell'amore appunto, di morte e dunque di rassegnazione. Singolarmente, negli scritti "per adulti" la religione non soccorre lo spirito: le disperate vittime a volte si rivolgono a Dio, ma non sembrano ricevere aiuto e conforto né ci contano. Piuttosto, nella vastissima produzione successiva, la D. perderà la capacità, se non economizzerà sui tempi di scrittura, di evocare morbose atmosfere interiori trasfuse nel paesaggio e negli ambienti, e parallelamente scarnificherà, forse senza perdite, una prosa che, pur mantenendosi sempre corretta, accentuerà una elementarità che è in realtà povertà d'immaginazione e meccanicità da ripetizione. La monotonia di forme e temi d'altra parte non sfugge nemmeno ad alcuni contemporanei, sebbene - nel 1936 - si raccomandino (Lo Vecchio Musti) "i sani principi e ... i nobili sentimenti" della Dandolo. Disorientante è invece il richiamo, in un moderno dizionario di letteratura, a Katherine Mansfield, avvicinata alla D. per la natura inquieta e sensitiva.
Tra amori malandati, infanticidi e suicidi infantili, donne precocemente sfiorite e personaggi maschili di cui non si ricorda nemmeno il nome - stupratori senza volto, innamorati senza anima o senza carattere, ottimi sposi e padri esemplari ma noiosi - la D. scrisse una notevole mole di romanzi: nel 1924 escono a Milano La nostra notte presso la Bottega di poesia e presso Treves Le stelle nel mare; nel 1926 Il dono dell'innocente presso Treves e Uccelli senza nido a Firenze presso Le Monnier; nel 1928, ancora da Treves, Il dolore degli altri; l'anno dopo, a Firenze, da Salani, In ginocchio, e a Milano, da Treves, Tempo di amare; nel 1930, ancora da Salani, Forte come l'amore, e l'anno dopo Come agnelli tra i lupi presso Treves-Tumminelli (Milano-Roma); nel 1936, sempre da Treves, Ècaduta una donna; nel 1939 ancora da Treves Liberaci dal male e nel 1940 a Milano, presso Rizzoli, La fuggitiva, dagli echi fogazzariani; l'anno dopo, ancora a Milano, L'amata ritorna e La prigioniera da Rizzoli e da Mondadori L'angelo ha parlato; nel 1942, rispettivamente da Rizzoli e Mondadori, La donna del mio destino e Terra in vista. Del 1944 sono le mille pagine di Croce e delizia (Mondadori), uno dei pochi romanzi che si rifaccia direttamente alla tradizione del nostro melodramma ottocentesco, e per il quale vale ancora il bonario ma severo giudizio del Raya ("roba troppo seria e stiracchiata per la povera Milly"); infine, nel 1946, escono Abbiamo veduto una stella, a Firenze, presso Garzanti, e Una voce dall'ombra, a Milano, da Rizzoli.
Inoltre, la D. riuscì ad affiancare a questa frenetica attività quella di traduttrice: a lei si devono le versioni delle Memorie sulla Rivoluzione francese e il Direttorio di Laure d'Arbantès, del già citato Peter Pan e di altre opere per l'infanzia, delle Lettere della Mansfield, di Paul et Virginie di Bernardin de Saint-Pierre, dei Racconti di D. H. Lawrence, di alcuni brani del Diario di Sarnuel Pepys. Né va dimenticato l'impegno costante su giornali e riviste con novelle brevi o più distese, alcune racchiuse ne La luce dell'anima, edito dalla S.E.I. nel 1924 (Torino), e in Due anime (Firenze, Marzocco, 1952) e quello più episodico nel campo della poesia che porterà alla raccolta, pubblicata postuma dalla S.E.I. nel 1951, della Scatola armonica.
Forte come l'amore è l'esempio di un romanzo confezionato per un facile e frettoloso consumo: in esso la D. abbandona i tentativi di introspezione e di analisi, banalizza gli ambienti, non sfuma sapientemente la secchezza dei pregiudizi; propone, in definitiva, lo scheletro di un romanzo "rosa", gli ingredienti-base che, con leggere varianti e ammodernamenti, arriveranno fino all'odierno fotoromanzo. Lo stesso livello di scrittura sostiene Ècaduta una donna del 1936, che ottenne larghi consensi e da cui fu tratto un film interpretato da Isa Miranda. Certo, la tecnica della D. si è scaltrita, ma solo nel senso del perfezionamento di un congegno collaudato: non è in queste pagine, che pure ebbero tanto successo, che si trova il meglio della Dandolo. Il tratto più notevole di questo inelegante pasticcio è la comparsa del tema del denaro. Per la prima volta la D. individua la funzione progressiva che può ricoprire per la donna il guadagnarsi la vita; ma sostanzialmente ambiguo resta il suo atteggiamento: che, pur ostentando disprezzo e ignoranza delle ricchezze, prudentemente annovera tra i "sani principi" il prestigio sociale basato sul benessere economico, tanto che lo insegna anche ai bambini.
La prigioniera giustifica l'inserimento della D. tra gli "scrittori mondani": la Venezia del romanzo non è infatti l'ambiente quotidiano della protagonista, ma lo sfondo frivolo ed elegante alla sua impossibile fuga. Eppure, al di là dei dati esteriori, La prigioniera più si avvicina alla sensibilità degli esordi della D., coerentemente ne rispecchia le convinzioni in quei toni pacati e insieme torbidi di un'analisi che si accompagna al controcanto lirico di paesaggi e ambienti. Ma rispetto al primo romanzo, Il figlio del mio dolore, in cui questi elementi compaiono in maniera più diretta, non ancora fortemente mediati da un mestiere attento soprattutto alle componenti del consumo, e che dunque riescono a comporre una scrittura a volte originale e affascinante, La prigioniera risulta appannata da vent'anni di ripetizioni e fissità di formule, nonostante tenti, complicando le tematiche e le motivazioni della protagonista, di rendere un ritratto di donna più problematico, seppure ancorato alle solite coordinate della rassegnazione a un destino "naturalmente" predeterminato. Timidamente la D. solleva il problema di una maternità indesiderata, che comunque non si rifiuta, ma che almeno si ammette che possa costituire un legame pesante e condizionante, una "catena" che costringe la protagonista a "voltare le spalle a ogni possibilità di luce". Se La prigioniera sembra interrogarsi sul diritto alla felicità, e non solo sui doveri di madre, si tratta tuttavia di un tentativo senza conseguenze: nello stesso 1941 esce L'angelo ha parlato, che riconferma i livelli mediocri della produzione della D. e si inserisce in una piccola schiera di romanzi dai titoli di grande presa (C. Ronchi, L'angelo dell'aurora, M.Baldeva, L'angelo di fuoco, e soprattutto L. Peverelli, Gliangeli non si sposano). La tragica soluzione con la morte della protagonista e della sua figlioletta, probabilmente precoce suicida, non è nuova nella D.: già l'eroina de Il vento nella foresta (1922) uccide la bambina illegittima appena partorita, perché non abbia a soffrire in quanto donna lo stesso disperato destino della madre. Questo è il tema dominante dell'ideologia "femminile" della D., fortemente venata dall'idea vetero-cattolica dell'ineluttabilità delle colpe dei padri, anzi delle madri, e quella fascisteggiante, peraltro preesistente e resistente, di una destinazione "naturale" delle donne al matrimonio e alla maternità. Paradossalmente, in questo universo disegnato dalla mano del maschio, gli uomini non esistono: la D. non si sofferma a caratterizzarli, bastandone la menzione ad evocare un ruolo, un tipo e una funzione, che poi è quella di fornire sicurezza alla partner, per sua natura debole e indifesa. L'assenza degli uomini si tramuta in assenza di passioni: se i primi nella loro inconsistenza di personaggi non possono dar voce a un sentimento, le donne sono marchiate da un trauma, vissuto in proprio o precedentemente alla loro nascita ma altrettanto definitivo, che le rende incapaci di esprimere i propri moti interiori. L'unica forza che riesce ad agitarle è appunto la maternità, che si manifesta come istinto ontologico: la rivalutazione della maternità e della funzione riproduttrice era nell'aria, piuttosto nella realtà del paese bombardato dai miti fascisti. della stirpe, della fecondità, del ruolo casalingo della donna.
Va attentamente valutata la funzione che la D. e le altre scrittrici a lei vicine svolsero nell'"educazione sentimentale" di generazioni di bambini e "signorine" e dei ceti culturalmente subalterni, e il peso che tuttora esercitano su di un patrimonio culturale di atteggiamenti, comportamenti e valori. La formazione cattolica impedisce alla D., a differenza degli stereotipi più accreditati del romanzo "rosa", una visione ottimistica e aproblematica della realtà, e dunque un'evasione consolatoria: più sottilmente, le ragioni dell'esistenza vengono rintracciate nell'accettazione delle condizioni sociali correnti, in una rassegnazione al destino come adeguamento alla natura. D'altra parte, la D. misura i propri personaggi sul suo pubblico, che è già in partenza discriminato, tagliato fuori dalle possibilità, economiche e sociali, della felicità. E sembra particolarmente adatta alla sua produzione la variante coloristica che Anna Banti suggerisce per il misero "alfabeto dell'immaginario" del romanzo "rosa": piuttosto, esso è "grigio", come la velocità, la folla, la disattenzione.
La D. morì a Milano il 27 sett. 1946, dopo tre anni di malattia che non le impedirono di continuare la sua attività fino alla fine.
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