mielofibrosi idiopatica
Patologia clonale rara della cellula staminale multipotente, con proliferazione extramidollare della normale emopoiesi e abnorme aumento dei fibroblasti, con progressiva fibrosi midollare. Ha un esordio lento e progressivo ed è tipica del sesso maschile in età avanzata. L’eccessivo sviluppo dei megacariociti (➔) e delle sostanze da essi prodotte (PDGF, TGF-B, EGF) è in grado di stimolare in maniera abnorme i fibroblasti, con conseguente aumento della fibrosi nel midollo. Ciò crea la metaplasia mieloide, ossia la colonizzazione da parte di cellule midollari di tessuti extramidollari come quello splenico ed epatico. Tra i sintomi più frequenti: astenia, pallore cutaneo e difficoltà digestiva dovuta alla presenza di splenomegalia, febbre, dolori ossei, sudorazione profusa e prurito. In alcuni casi l’esordio è segnato da una trombosi del circolo profondo portale.
Sono necessari l’esame morfologico del sangue venoso periferico per l’esame dei globuli rossi, che hanno il tipico aspetto ‘a lacrima’ (dacriociti), e l’esame istologico della biopsia ossea. Questa ultima può evidenziare un quadro di iperplasia midollare (fase florida) con aumento delle fibre collagene e reticolari, oppure una ipoplasia con emopoiesi scarsa (fase ipoplasica) o, nelle fasi ancora più avanzate, un quadro di osteosclerosi, per una quasi totale scomparsa delle cavità midollari. Sono stati inoltre proposti criteri maggiori, che includono la presenza della positività per la mutazione di JAK2 (una tirosinchinasi che ha un ruolo importante nella proliferazione midollare, in partic. della linea eritroide, e che può trovarsi mutata nelle patologie mieloproferative), l’assenza di evidenze per altre patologie, la presenza di alterazioni nella biopsia ossea; e criteri minori, che comprendono l’anemia, la splenomegalia, la leucoeritroblastosi e l’incremento dei valori di LDH.
Prevede diversi approcci: oltre alla semplice osservazione nei pazienti asintomatici (senza splenomegalia e alterazioni dell’emocromo), è prevista la terapia per l’anemia (androgeni, cortisonici e folati, eritropoietina) che può risolvere l’anemia nel 30% dei casi. Nel caso di importanti splenomegalie si utilizza la terapia citoriduttiva (idrossiurea e melphalan) a cui generalmente questa malattia risulta sensibile, in dosi tollerabili per non accentuare l’anemia già presente. Si può ricorrere a un approccio chirurgico (splenectomia), nei casi con imponenti splenomegalie che non rispondono alla chemioterapia o quando vi sia ipertensione portale con grosso impegno epatico. La radioterapia splenica si utilizza come terapia palliativa nei pazienti inoperabili o nel caso di dolore splenico postinfartuale. Sono utilizzati attualmente anche inibitori della neoangiogenesi (talidomide) con miglioramento della piastrinopenia, della splenomegalia (nel 40% dei casi) e dell’anemia (nel 30%) in pazienti con malattie all’esordio o non precedentemente trattati. Altri farmaci utilizzati in via sperimentale sono gli inibitori tirosinchinasici e gli inibitori della farnesil-transferasi. Ai pazienti con età inferiore a 60 anni viene riservato il trapianto di midollo osseo allogenico: l’attecchimento avviene nell’80% dei casi, ma la mortalità legata al trapianto è molto alta, soprattutto nelle fasce più alte di età e nei pazienti con fattori di rischio (bassi livelli di emoglobina, presenza di blasti in periferia).