Microscopia
di Daria Steve Bocciarelli
Microscopia
sommario: 1. Introduzione storica. 2. Microscopia a contrasto di fase. 3. Microscopia in campo oscuro. 4. Microscopia analitica. 5. Microscopia elettronica a trasmissione. a) Il microscopio e il suo impiego. b) Allestimento dei preparati. 6. Microscopia elettronica a scansione. 7. Microscopio a emissione di campo. 8. Metodi analitici in microscopia. a) Metodi fisici di analisi del preparato; b) Analisi delle immagini. □ Bibliografia.
1. Introduzione storica
Sebbene la lente d'ingrandimento abbia origini molto remote (già nel II sec. d.C. Tolomeo descriveva le proprietà ottiche di sfere di vetro riempite d'acqua), solo alla fine del XIII sec. essa potè diventare di dominio comune con la costruzione e l'uso delle lenti da occhiali. Solo molto più tardi, nel XVII sec., fu possibile l'uso di un sistema di lenti, delle quali veniva corretta l'aberrazione cromatica. Nacque allora la microscopia come tecnica per l'osservazione degli oggetti di dimensioni inferiori al limite di visibilità dell'occhio, rivolta quasi esclusivamente allo studio della natura: insetti, foglie, fiori, cristalli naturali. Successivamente la tecnica di costruzione dei microscopi venne progressivamente perfezionata non solo per ciò che riguarda le parti meccaniche dello strumento, ma anche le tecniche di lavorazione e di accoppiamento delle lenti, fino a quando, verso la metà dell'Ottocento, fu introdotto l'uso dell'obiettivo a immersione.
Grazie a esso il potere risolutivo del microscopio - inteso come la minima distanza tra due punti dell'oggetto riconoscibili come distinti nell'immagine - fu portato a qualche decimo di micron.
Verso la fine del secolo scorso il microscopio ottico aveva raggiunto il suo limite di perfezione per opera di E. Abbe, che nel 1878 scriveva che microscopi capaci di potere risolutivo più elevato potevano ancora essere ottenuti solo se si fosse superata la limitazione data dalla lunghezza d'onda della luce.
Infatti, anche se l'osservazione in campo oscuro permise in seguito (nel 1903, per opera di H. F. W. Siedentopf e R. Zsigmondy) la visualizzazione (non la visione) di oggetti di dimensioni inferiori al potere risolutivo del microscopio, questo, in effetti, non potè essere superato in risoluzione fino all'avvento della microscopia elettronica. Tuttavia intorno agli anni trenta si ebbe un nuovo sviluppo della microscopia ottica: fino ad allora, per la formazione delle immagini, erano stati utilizzati solo gli effetti di ampiezza delle onde luminose, anche se accoppiati a effetti di polarizzazione, diffrazione, riflessione, largamente applicati per esaminare cristalli e osservarne la formazione da soluzioni saline; invece non erano stati sfruttati gli effetti di fase, sebbene fossero ben noti e i microscopisti sapessero che al limite di visibilità degli oggetti, con il microscopio tradizionale, una lieve defocalizzazione dell'immagine fosse utile per aumentarne il contrasto. L'utilizzazione degli effetti di fase si ebbe solo nel 1934 grazie al microscopio a contrasto di fase di F. Zernicke; poco dopo con l'uso dei film sottili, quali antiriflettenti e come filtri, furono introdotte in microscopia le tecniche interferenziali e ciò migliorò ulteriormente le prestazioni ottiche dei microscopi. In questo periodo gli interessi dei biologi erano fortemente orientati verso l'uso del microscopio come strumento analitico, quale già era stato nell'Ottocento per i fisici e i chimici, cosicché i fenomeni di assorbimento selettivo della luce, di sfasamento dell'onda luminosa e di eccitazione con radiazioni fluorescenti vennero largamente utilizzati con l'impiego di microscopi a ultravioletto, a infrarosso, a interferenza e a luce fluorescente.
Oggi si costruiscono microscopi assai perfezionati e versatili, che consentono di passare con facilità dall'uno all'altro di questi metodi di osservazione. Nel 1973 la struttura tradizionale del microscopio ottico, costituita da parti tubolari che sostengono e raccordano il sistema di lenti, è stata soppiantata da una costruzione a blocchi (Zeiss), che facilita l'intercambiabilità delle varie parti necessarie ai molteplici usi dello strumento. Lo schema ottico di base è tuttavia sempre quello dei microscopi in uso nel secolo scorso, consiste cioè di una sorgente di luce e di due lenti coassiali. L'oggetto da osservare viene posto tra la sorgente e la prima di queste due lenti, che è convergente a corta distanza focale e dà una prima immagine, fortemente ingrandita, dell'oggetto stesso; essa costituisce l'obiettivo del microscopio e alle sue qualità sono affidate la fedeltà e la nitidezza dell'immagine. La seconda lente infatti serve soprattutto a rendere visibile l'immagine fornita dall'obiettivo. Essa può essere una lente divergente che proietta la prima immagine su uno schermo o su una emulsione fotografica. In questo secondo caso il microscopio produce un'immagine reale.
La molteplicità delle parti che oggi si pongono a corredo di un microscopio, per renderlo completo, è relativa ai molti usi cui lo strumento può essere destinato: infatti non solo deve poter passare da bassi a forti ingrandimenti, dalla visione diretta a quella per proiezione, dalla visione per trasparenza a quella per riflessione, ma anche dalla visione normale a quella in luce polarizzata, dalla visione in campo chiaro a quella in campo oscuro, dalla microscopia normale a quella per fluorescenza o a quella in contrasto di fase e, eventualmente, a quella nell'ultravioletto o nell'infrarosso. Di queste varie possibilità offerte dalla microscopia ottica sarà detto in dettaglio nei capp. 2-4.
Per ottenere un maggior potere risolutivo furono infine costruiti microscopi a raggi X e microscopi elettronici: solo questi ultimi raggiunsero lo scopo, in quanto i primi hanno trovato applicazione esclusivamente in indagini analitiche.
La microscopia elettronica ebbe inizio con le ricerche compiute nei primi decenni del Novecento per la costruzione di tubi a raggi catodici: il fatto che fosse possibile la deflessione elettrostatica e magnetica dei raggi catodici portò H. Busch (1926, 1927) a dimostrare che, mediante un opportuno campo elettrostatico o magnetico, si poteva far convergere i raggi catodici, così come, con un pezzo di vetro di forma opportuna, si fanno convergere i raggi luminosi. Gli studi compiuti in quegli anni in Germania sulle proprietà delle lenti elettroniche (elettrostatiche e magnetiche), alla luce delle acquisizioni sulla natura ondulatoria degli elettroni, consentirono di ottenere le prime immagini elettroniche e nel 1932 M. Knoll e E. Ruska diedero la prima descrizione completa di un microscopio a lenti magnetiche. Da allora non fu più la lunghezza d'onda emessa dalla sorgente a limitare il potere risolutivo del microscopio, ma l'imperfezione delle lenti impiegate per formare l'immagine. Oggi, con i perfezionamenti introdotti negli ultimi anni nella costruzione degli apparecchi, non è più il potere risolutivo - che può andare oltre 2 o 3 Å - a limitare le prestazioni del microscopio elettronico, ma il contrasto ottenibile nell'immagine, cioè la visibilità dell'oggetto, e i problemi più grossi che si pongono sono relativi all'interpretazione dell'immagine elettronica e alla possibilità di ricavarne dati quantitativi.
2. Microscopia a contrasto di fase
Nel microscopio ottico convenzionale si ottiene l'immagine degli oggetti da osservare in quanto essi ostacolano il passaggio della luce, sono cioè in qualche misura opachi. Pertanto l'immagine registra l'insieme delle variazioni di intensità della luce che ha attraversato l'oggetto, dovute alla presenza dell'oggetto stesso e portate dal sistema ottico del microscopio sulla retina dell'osservatore o, eventualmente, su una emulsione fotografica. Sia l'occhio, sia l'emulsione fotografica sono infatti sensibili a differenze di intensità della luce; le immagini che essi sono capaci di registrare vengono chiamate ‛immagini di ampiezza', in quanto l'intensità della luce è legata all'ampiezza dell'onda luminosa. Se invece gli oggetti da osservare sono perfettamente trasparenti, cioè tali che l'ampiezza dell'onda resta costante nell'attraversarli, questi oggetti sono invisibili al microscopio convenzionale. Anche in questo caso, tuttavia, si ha un'alterazione dell'onda luminosa, non in ampiezza, ma in fase. Mettere in evidenza queste variazioni di fase, riconducendole a variazioni di ampiezza, e quindi di intensità luminosa, è il compito della microscopia a contrasto di fase, mediante la quale si è in grado di rendere visibili anche oggetti di bassissimo spessore e il cui indice di rifrazione differisce di poco da quello del mezzo circostante. Per ottenere questo, si separa il fascio di luce diffratto dall'oggetto da quello non diffratto, limitando con un diaframma anulare (d.a.) il fascio di luce che illumina l'oggetto. Sul piano focale dell'obiettivo (p.f.) si pone poi uno strato sottile, la cosiddetta lamina di fase (l.f.), necessaria per ritardare in fase il fascio diretto, o meglio quella parte di esso non deviata dalla presenza dell'oggetto. Quando i due fasci si ricombinano, si producono effetti di interferenza, e quindi di intensità, visibili, cioè registrabili dall'occhio dell'osservatore o dall'emulsione fotografica. A seconda dei rapporti di fase tra il fascio diffratto e quello diretto (o di ordine zero), l'immagine può apparire scura in campo chiaro o chiara in campo scuro.
Sebbene col microscopio a contrasto di fase possano essere visti particolari dell'oggetto che risultano invisibili al microscopio convenzionale per mancanza di contrasto, tuttavia il potere risolutivo non è migliore di quello del microscopio a luce ordinaria, perché è sempre legato alla lunghezza d'onda della luce impiegata per ottenere l'immagine, secondo la formula ben nota dell'ottica classica: d = λ/(2n sen α), in cui d è il potere risolutivo, λ la lunghezza d'onda, n l'indice di rifrazione del mezzo interposto tra l'oggetto e la lente (rispetto al vuoto) e α la semiapertura del cono di luce che illumina gli oggetti osservati. Con l'uso dell'obiettivo a immersione, che porta il valore di n a poco più di 1,5 e sen α = 1, il prodotto 2n sen α può essere di poco superiore a 3; quindi il potere risolutivo più spinto è dell'ordine di λ/3.
I particolari dell'oggetto compaiono nell'immagine a contrasto di fase in quanto differiscono (a parità di spessore) per l'indice di rifrazione, di cui il sistema non consente però alcuna misura. Il metodo ha larga applicazione: protozoi, batteri, cellule e loro particolari, non visibili con la microscopia ottica classica o con il microscopio elettronico, se non dopo fissazione, colorazione selettiva o trattamenti detrattivi che escludono lo studio di materiale vivente, possono essere osservati in vivo, cinematografandone addirittura i movimenti, le deformazioni patologiche, la moltiplicazione, la morte.
3. Microscopia in campo oscuro
Dal punto di vista fisico, questo metodo di visione è un caso particolare della microscopia in contrasto di fase. Tuttavia, sia perché si sviluppò assai prima e del tutto indipendentemente, sia perché ancor oggi viene realizzato in genere con altri mezzi tecnici, è conveniente considerarlo a parte.
L'oggetto da osservare viene illuminato obliquamente, in modo che il fascio diretto non penetri nell'obiettivo. Ciò si può ottenere semplicemente ponendo un diaframma di apertura anulare nel condensatore usuale del microscopio; ma per forti ingrandimenti conviene usare particolari tipi di condensatori, che utilizzano un gioco di specchi e di lenti per ottenere un'intensa illuminazione con l'inclinazione voluta. Le condizioni geometriche sono quindi analoghe a quelle che si realizzano nel microscopio a contrasto di fase per quanto riguarda l'illuminazione dell'oggetto, ma le condizioni fisiche risultano molto diverse per quanto riguarda la formazione dell'immagine. Manca infatti in questo caso il fascio d'ordine zero e l'immagine non può formarsi come risultato dell'interazione del fascio non diffratto con quelli diffratti. Ciò che si osserva è infatti una figura imprecisa, mal definita, sebbene estremamente brillante, su un fondo non illuminato. Il metodo consente di rilevare con vivace contrasto la presenza di particelle o particolari di un oggetto assai minuti, molto più di quanto si ottenga col microscopio tradizionale; pertanto, quando venne in uso, prese il nome di ultramicroscopia, nome che conservò fino all'avvento della microscopia elettronica. È stato molto sfruttato per l'osservazione di particelle colloidali in sospensione e viene tutt'oggi correntemente impiegato in microbiologia.
4. Microscopia analitica
In aggiunta alla microscopia in luce polarizzata, già ben nota e largamente sfruttata nell'Ottocento, nel nostro secolo sono state messe a punto le seguenti tecniche microscopiche.
1. Microscopia nell'ultravioletto. - È quella che utilizza luce monocromatica di lunghezza d'onda inferiore a 4.000 Å e l'ottica tradizionale, ma con lenti costituite di particolari tipi di vetro (alla fluorite) o di quarzo, che garantiscano un basso assorbimento alle piccole lunghezze d'onda. Il potere risolutivo è più spinto di quello del microscopio convenzionale, in relazione alle minore lunghezza d'onda della luce usata. Al disotto di 2.500 Å, però, difficoltà tecniche praticamente insormontabili impediscono l'uso di questo metodo. Esso ha avuto un periodo di grande notorietà presso i biologi dopo le misure di microspettrofotometria di T. O. Caspersson (1936), che riuscì a localizzare gli acidi nucleici in preparati biologici sfruttando l'assorbimento selettivo ditali molecole nell'ultravioletto.
2. Microscopia nell'infrarosso. - Sfrutta la proprietà di alcune sostanze di assorbire selettivamente luce nell'infrarosso; si lavora in luce monocromatica di lunghezza d'onda compresa tra circa 8.000 e 12.000 Å. Questo microscopio differisce da quello tradizionale in quanto di solito l'ottica è costituita da combinazioni di specchi sferici o ellissoidali, anziché da successioni di lenti; si evita così l'assorbimento di luce, e quindi di calore, da parte della lente stessa, con variazioni del suo indice di rifrazione. Con questo metodo si studiano fibre sintetiche e naturali, sostanze chimiche, sezioni di tessuti biologici; sì può osservare materiale estratto da cellule, eventualmente separato per cr0matografia, e possono essere sfruttati effetti di polarizzazione.
3. Microscopia a interferenza. - È questo un metodo che produce il contrasto nell'immagine per interferenza, in luce bianca o monocromatica. Permette inoltre di misurare i ritardi di fase, o variazioni di cammino ottico della luce, provocati dal preparato in osservazione, con una precisione che raggiunge 1/10 della lunghezza d'onda della luce impiegata. In questo microscopio si utilizzano due fasci di luce provenienti dalla stessa sorgente: uno attraversa l'oggetto e subisce quindi ritardi di fase, l'altro viene trasmesso indisturbato. I due fasci vengono infine sovrapposti e formano un immagine interferenziale. A differenza di quanto accade nel microscopio a contrasto di fase, il fascio indisturbato non passa per il preparato (e quindi non è il fascio di ordine zero), ma passa completamente al di fuori di esso. Si ha così la possibilità di variarne a piacere la fase, il che rende possibile misurare la variazione di cammino ottico introdotta dal preparato. Questa misura porta alla determinazione dell'indice di rifrazione con possibile identificazione del materiale che costituisce le varie parti del preparato - diversi tipi di proteine, acidi nucleici, carboidrati hanno indici di rifrazione diversi - e quindi il metodo è utile in citologia e citochimica. Viceversa, conoscendo l'indice di rifrazione, si può determinare lo spessore del preparato. Questo sistema viene usato, nelle industrie o nella ricerca, per la misura dello spessore di film sottili. Per agevolare le misure, conviene in genere utilizzare la formazione di righe d'interferenza data dai due fasci sovrapposti e determinare il ritardo di fase dallo spostamento delle righe dovuto alla presenza del preparato.
4. Microscopia a fluorescenza. - È il tipo che utilizza luce ultravioletta per eccitare, nel preparato, una luce di fluorescenza: l'immagine non è formata dalla luce trasmessa o riflessa dal preparato, come nel microscopio tradizionale, ma il preparato stesso diventa luminoso, almeno in parte, e appare brillante su un fondo oscuro, poiché ogni altra luce viene eliminata mediante appositi filtri. L'ottica dello strumento è analoga a quella del microscopio tradizionale; la sorgente, però, deve emettere con particolare intensità luce di bassa lunghezza d'onda. La luce di fluorescenza è funzione della costituzione chimica del preparato e può essere di diversi colori; perciò questo strumento viene usato per l'identificazione di determinati costituenti chimici nelle polveri o in certi minerali e quindi anche per indagini criminologiche. Di recente è diventato di primaria importanza nella ricerca immunologica per le possibilità che offre nell'identificazione degli anticorpi, in quanto questi possono essere a tale scopo legati a sostanze fluorescenti. Ha assunto infine notevole importanza in genetica, in quanto sono state trovate sostanze fluorescenti che reagiscono con l'acido desossiribonucleico (DNA) e ciò permette di caratterizzare in modo sicuro i cromosomi in metafase, anche quelli che non potrebbero essere identificati con i metodi tradizionali.
5. Microscopia a raggi X. - Sono stati costruiti microscopi capaci di formare un'immagine utilizzando i raggi X come sorgente luminosa, ma, date le difficoltà tecniche che si incontrano nella costruzione di lenti capaci di deviare radiazioni elettromagnetiche di così bassa lunghezza d'onda, non hanno mai raggiunto un potere risolutivo migliore di quello del microscopio ottico. Pertanto immagini che utilizzino i raggi X come mezzo selettivo di informazione vengono oggi più agevolmente ottenute per proiezione da sorgenti puntiformi di raggi X su lastra fotografica, oppure come microfotografie a contatto (cioè mettendo il soggetto a contatto con un'emulsione fotografica, o altro materiale sensibile, come si fa per ottenere le radiografie per uso medico). Le immagini che così si ottengono vengono poi ingrandite otticamente e ciò che limita il potere risolutivo che si ottiene nell'immagine finale è la grana dell'emulsione fotografica su cui si forma la prima immagine o, nel caso che venga usato materiale sensibile senza grana, per esempio film di polivinile, la tecnica di rivelazione dell'immagine su di esso. Infatti, per l'osservazione delle immagini così ottenute, può essere usato anche il microscopio elettronico; ma il limite del potere risolutivo del metodo rimane di poco inferiore a 1.000 Å.
5. Microscopia elettronica a trasmissione
a) Il microscopio e il suo impiego
I limiti della microscopia ottica sono dovuti alla lunghezza d'onda della luce impiegata per illuminare l'oggetto da osservare (v. sopra, cap. 2; v. anche cap. 4, 1). Al di là dell'ultravioletto, nella gamma delle onde elettromagnetiche, né i raggi X (v. sopra, cap. 4, 5), né tanto meno i raggi γ sono utilizzabili come sorgenti di luce per una microscopia con elevato potere risolutivo, date le difficoltà che insorgono nel costruire lenti adatte a ottenere un sistema ottico efficiente.
La scoperta fatta nel terzo decennio del Novecento della doppia natura corpuscolare e ondulatoria degli elettroni diede la possibilità di superare le limitazioni del potere risolutivo del microscopio dovute alla lunghezza d'onda della luce impiegata per illuminare l'oggetto. Infatti la lunghezza d'onda λ di elettroni di massa m e di velocità v è data dalla formula di de Broglie λ = h/mv, dove h è la costante di Planck. Ne viene che elettroni, accelerati per es. da un campo elettrico di 100 kV, formano un fascio di lunghezza d'onda λ = 0,04 Å. Se si tiene conto che la lunghezza d'onda media dello spettro visibile è circa 100.000 volte più grande, è chiaro che microscopi elettronici che impieghino elettroni accelerati con 100 kV, se lavorassero con un'apertura numerica dell'obiettivo pari a quella utilizzabile in un microscopio ottico, raggiungerebbero poteri risolutivi 100.000 volte più spinti, arriverebbero a risolvere 0,1 Å. Questo in pratica non si può ottenere perché non si possono costruire lenti elettroniche di perfezione simile a quella che consente la lavorazione ottica del vetro; cosicché esse presentano aberrazioni tali da dover essere fortemente diaframmate. L'apertura dell'obiettivo diventa conseguentemente così piccola (10-2-10-3 rad) da impedire ai raggi diffratti dall'oggetto di contribuire a formare l'immagine, come richiesto dalla fisica classica (condizioni di Abbe). L'immagine, tuttavia, si ottiene per l'effetto di schermo che l'apertura stessa produce sugli elettroni deviati, elasticamente e anelasticamente, dall'oggetto in osservazione. Ogni punto dell'oggetto appare, nell'immagine, più o meno scuro, a seconda del numero di elettroni che è capace di deviare oltre l'apertura angolare dell'obiettivo. L'angolo di deviazione degli elettroni dipende dal numero atomico dell'elemento colpito; ma, se si considera la massa dell'oggetto, si ricava che l'immagine elettronica è una rappresentazione della distribuzione di densità nell'oggetto osservato.
Lo schema ottico di un microscopio elettronico a trasmissione è fondamentalmente analogo a quello di un microscopio ottico usato per proiezione: la sorgente di elettroni è quanto più possibile puntiforme e da essa esce un fascetto elettronico monocromatico poco divergente, che viene convogliato sull'oggetto da osservare mediante una o due lenti convergenti, che hanno la funzione di condensatore. Una prima immagine dell'oggetto viene fatta da un obiettivo a corta distanza focale e questa viene in genere ingrandita da due successive lenti convergenti dette, rispettivamente, lente intermedia e proiettore. Quest'ultima proietta l'immagine su uno schermo fluorescente o su un'emulsione fotografica, affinché possa essere, rispettivamente, osservata o registrata fotograficamente.
Le lenti elettroniche possono essere costituite da campi elettrici o magnetici, ma le lenti magnetiche hanno ormai quasi completamente soppiantato le lenti elettriche, a causa della loro molto maggiore facilità d'impiego e flessibilità d'uso, Esse sono costituite da solenoidi a molte spire percorsi da corrente continua; all'interno del solenoide, espansioni polari di forma opportuna concentrano il campo magnetico in una piccola zona e producono un andamento delle linee di forza del campo tale che la traiettoria degli elettroni che lo attraversano venga curvata, in modo analogo a come la traiettoria dei raggi luminosi viene deviata dalle lenti di vetro. Variando il potenziale alla sorgente, si può lavorare con fasci di elettroni monocromatici di diverse energie (in genere variabili da 40 a 100 e 125 keV), in funzione del tipo di preparato o del genere di osservazione che si vuol fare. Occorre conseguentemente variare l'intensità dei campi magnetici che costituiscono le lenti, affinché vengano mantenute le distanze focali e restino quindi immutati non solo lo schema ottico, ma anche la geometria del sistema. Per scopi particolari, sono stati costruiti microscopi che lavorano con elettroni di qualche MeV.
Nella fig. 8 è riportato il corpo di un moderno microscopio elettronico a trasmissione; sono messe in evidenza la successione delle lenti e la propagazione del fascio elettronico attraverso di esse. L'apparecchio è costruttivamente assai complesso, sia perché richiede notevole perfezione meccanica, in quanto l'allineamento delle lenti, utilizzabili solo sulla zona parassiale, deve essere fatto in modo molto rigoroso, sia per la presenza di numerosi diaframmi che devono essere spostabili con movimenti micrometrici, sia infine per la necessità di mantenere all'interno del corpo del microscopio un vuoto relativamente spinto (almeno 10-4-10-5 torr), in mancanza del quale gli elettroni perderebbero energia e verrebbero diffusi lungo il loro cammino. Inoltre il microscopio elettronico deve poter essere usato anche come diffrattore elettronico (di cui possiede tutti gli elementi costitutivi), il che consente di aggiungere informazioni sulla natura dell'oggetto che la sola osservazione morfologica non potrebbe dare. L'aggiunta di una lente intermedia consente inoltre di ottenere la figura di diffrazione su una zona molto limitata dell'oggetto (dell'ordine del micron), che può essere scelta con l'osservazione diretta dell'oggetto a forte ingrandimento. Tale tecnica è ovviamente molto utile nello studio di strutture complesse quali leghe, aggregati cristallini, miscele cristalline, processi di cristallizzazione. Il fatto che il microscopio possa essere corredato di un tavolino portaoggetto, capace di portare l'oggetto a temperature molto elevate o molto basse, rende anche possibile l'osservazione diretta di trasformazioni di fase.
Il potere risolutivo limite che oggi raggiungono i migliori microscopi elettronici a trasmissione è di 2-3 Å. La determinazione sperimentale di tale limite è tuttavia sempre incerta, perché condizionata dalle caratteristiche fisiche dell'oggetto osservato: da queste, infatti, dipende il contrasto ottenibile nell'immagine, il quale determina la visibilità dell'immagine stessa o la possibilità di registrarla. L'immagine viene osservata su uno schermo fluorescente e registrata su un'emulsione fotografica. La sensibilità di quest'ultima supera quella del sistema schermo fluorescente-occhio dell'osservatore. Se si registrasse con un metodo più sensibile di quello fotografico, si potrebbero avere poteri risolutivi più spinti. In oggetti aventi struttura periodica, quali i reticoli cristallini, si possono, in determinate condizioni sperimentali, risolvere periodicità dell'ordine di 1 Å.
Le condizioni sperimentali sono estremamente importanti, perché a questi limiti intervengono, nella formazione delle immagini, effetti di fase, non solo dovuti all'oggetto e al suo supporto, ma anche dipendenti dalla zona dell'obiettivo utilizzata. Date queste condizioni, una microscopia elettronica in contrasto di fase può essere fatta senza richiedere dispositivi particolari (v. sopra, cap. 2), ma semplicemente sfruttando le condizioni fisiche del sistema oggetto-obiettivo.
Un forte aumento del contrasto dell'immagine elettronica può ottenersi realizzando l'immagine in campo oscuro, come si fa nell'ottica convenzionale (v. sopra, cap. 3): come in quest'ultimo caso, si elimina il fascio diretto, cioè il fascetto elettronico non deviato dall'oggetto, e si utilizza, per formare l'immagine, una parte degli elettroni deviati. L'immagine appare intensamente luminosa su uno sfondo oscuro.
Se si dispone la geometria del sistema in modo che il fascio deviato che si utilizza per formare l'immagine sia diretto lungo l'asse dell'obiettivo, e quindi anche delle altre lenti, il potere risolutivo che si ottiene è uguale a quello che si raggiunge nell'immagine normale, a campo chiaro, a differenza di quanto accade per l'immagine in campo oscuro dell'ottica tradizionale. Le basi fisiche relative alla formazione dell'immagine sono infatti diverse nei due casi, come già detto sopra.
L'uso del microscopio elettronico è oggi diffusissimo, sia per ricerche nel campo della metallurgia e della fisica dei solidi, sia, soprattutto, nel campo dello studio di tutte le strutture biologiche che, per le loro dimensioni, sono al di là dei limiti di osservazione della microscopia ottica (v. ultrastrutture biologiche). Anche la microscopia elettronica ha però i suoi limiti: essi sono dovuti non al potere risolutivo del microscopio (il quale potrà nei prossimi anni raggiungere i Å, cioè l'ordine di grandezza delle distanze tra gli atomi nelle strutture molecolari), ma ai trattamenti che il preparato deve subire per poter essere osservato e che producono effetti particolarmente pesanti su materiale biologico. Infatti il preparato: a) deve essere osservato nel vuoto e quindi necessariamente disidratato; b) deve essere in strato molto sottile, al massimo di qualche centinaio di Å e perciò il più delle volte il materiale viene sezionato, eventualmente dopo essere stato fissato, disidratato, incluso in apposita resina; c) dato il basso contrasto che gli elementi di basso numero atomico, quali quelli che costituiscono i materiali biologici, offrono nell'immagine elettronica, deve essere colorato con elementi pesanti.
Ne segue che il preparato non può, in genere, essere osservato senza drastici trattamenti fisici e chimici, attraverso i quali solo con l'uso di particolari, delicate e laboriose metodiche si arriva a salvaguardare l'integrità e a conservare la distribuzione spaziale delle strutture che si vogliono mettere in evidenza. In particolare, tali trattamenti escludono l'osservazione di materiale vivente. Essi potrebbero in parte essere evitati realizzando microscopi a elettroni di elevata energia; infatti sono stati costruiti microscopi che utilizzano elettroni di qualche milione di eV. L'elevata penetrazione del fascio elettronico in questo caso permette anche di osservare batteri viventi racchiusi in piccole camere umide; ma il bombardamento degli elettroni, che rompe le molecole e disintegra le compagini molecolari, distrugge in genere rapidamente ogni forma di vita.
D'altra parte, il contrasto nell'immagine, già basso in un microscopio normale se il materiale biologico non è colorato, si riduce ancora se si eleva l'energia del fascio elettronico. Pertanto l'uso dei microscopi a elettroni di elevata energia è praticamente limitato allo studio di materiali costituiti da elementi pesanti, quali, per es., i metalli e le leghe metalliche; in questi casi, i vantaggi legati all'elevata penetrazione degli elettroni si sommano a quelli dovuti alla forte riduzione dell'aberrazione cromatica delle lenti elettromagnetiche.
b) Allestimento dei preparati
Il preparato deve essere tanto sottile che gli elettroni che lo attraversano per formare l'immagine abbiano una probabilità estremamente bassa di urtare più di un atomo di una delle molecole comprese nel materiale in esame. In un comune microscopio, che funziona al massimo con 100 kV alla sorgente o poco più, ciò accade, nel caso di materiale di peso atomico elevato, per spessori non superiori a qualche decina di Å. Se si tratta di materiale a peso atomico basso, quale si trova nei campioni biologici, si possono raggiungere alcune centinaia di Å di spessore. Da ciò deriva che, in genere, i metalli e i loro composti o leghe non possono essere osservati direttamente per trasparenza, in quanto non si riesce a ridurli in strato sufficientemente sottile e, del resto, se vengono deposti come film, non presentano la stessa struttura che hanno nel massello. Occorre pertanto levigare la superficie di un blocchetto tratto dal massello e osservarla per riflessione anziché per trasparenza, il che è possibile se si inclina opportunamente sia la sorgente degli elettroni, sia il preparato; dato però che in questo modo si abbassa sensibilmente il potere risolutivo dell'apparecchio, si preferisce fare della superficie levigata una replica, cioè un calco costituito di un materiale di bassa densità (resine sintetiche, silice, alluminio) steso in strato sottile, che può essere portato al microscopio in modo normale. Per mettere in evidenza le particolarità della superficie riportate nella replica, occorre però che la superficie stessa, o la sua replica, venga sottoposta al processo di ‛ombratura'. Questo consiste nella proiezione, sotto incidenza quasi radente, di un fascio molecolare di un metallo pesante, che sottolinei sporgenze e anfratti della superficie in esame. Anziché all'ombratura si può anche procedere alla ‛decorazione', che consiste nel far depositare selettivamente su determinate strutture un metallo pesante.
Se il materiale da osservare è invece di bassa densità, quali sono i preparati biologici, è possibile, con l'uso di particolari tipi di microtomi (ultramicrotomi), ottenerne sezioni sufficientemente sottili. È però necessario, per far questo, dare consistenza al pezzo procedendo a un'inclusione in una resina sintetica, il che richiede la fissazione e la disidratazione del preparato. La fissazione è il passo più delicato per la preservazione del preparato e deve spesso essere studiata caso per caso. In genere viene fatta chimicamente, mediante un primo breve passaggio in glutaraldeide o formaldeide o acroleina e un successivo trattamento con acido osmico; questi fissatori vanno impiegati sempre in bassa concentrazione in opportune soluzioni tampone. Alla fissazione segue la disidratazione (ottenuta passando il preparato in una serie di soluzioni alcoliche a concentrazioni crescenti) durante la quale può essere fatta una postfissazione o colorazione del preparato con sali di un metallo pesante (acetato di uranile, acido fosfotungstico, ecc.). Segue alla fine l'impregnazione col monomero della resina prescelta per l'inclusione (Araldite, Epon, Vestopal, glicol metacrilato, ecc.) e la conseguente polimerizzazione in stufa.
Le sezioni che si ottengono dall'ultramicrotomo possono essere a loro volta colorate con metalli pesanti, allo scopo di sottolinearne le particolarità morfologiche - anche se la fissazione in osmio costituisce di per se stessa una colorazione -, oppure possono subire particolari trattamenti chimici per evidenziare in esse strutture particolari. Questi trattamenti, soprattutto se sottrattivi, dipendono necessariamente dal tipo di fissazione usato e risentono delle difficoltà inerenti alla non sempre facile penetrabilità del polimero includente. Si può anche sezionare il materiale biologico dopo congelamento senza, o quasi, fissazione, trattarlo e poi includerlo; in questo caso, però, esso subisce durante il taglio tali sollecitazioni meccaniche da presentarsi poi fortemente deteriorato. Tuttavia questa tecnica viene frequentemente usata quando si vogliano eseguire indagini immunologiche che non sarebbero possibili su materiale incluso, né sul blocco in toto. In questo caso l'anticorpo viene marcato con una molecola organica che contiene ferro; la ferritina, ed è pertanto identificabile al microscopio elettronico: la tecnica è analoga a quella in uso per la microscopia a fluorescenza (v. sopra, cap. 4, 4).
Una tecnica che permette di osservare particolarità morfologiche di cellule o tessuti senza alcun trattamento chimico e senza alterazione del preparato è quella del criodecapaggio. Essa consiste nel congelare a bassissima temperatura e con grande rapidità un minuto blocchetto del materiale da osservare, così da produrre una vetrificazione dell'oggetto. Sempre a bassa temperatura e sotto vuoto spinto, poi, il blocchetto viene spaccato con un colpo di lama e dal piano di frattura viene fatta sublimare l'acqua vetrificata fino a una determinata profondità. Su tale piano restano allora in rilievo le parti del preparato che non sublimano: proteine, lipidi ecc. Poiché la superficie di frattura segue in genere determinate strutture del preparato, in particolare le membrane, la tecnica offre una visione di tale superficie che differisce sostanzialmente da quanto si ottiene con l'osservazione di una sezione sottile del preparato. Infatti si affacciano alla superficie di taglio concavità e convessità in una visione quasi tridimensionale. Anche in questo caso, come per l'osservazione di superfici metalliche, bisogna ricorrere a una replica ombrata per giungere all'osservazione al microscopio elettronico.
Preparati già di per se stessi sottili, come virus animali o batterici, piccoli aggregati molecolari, fibre o flagelli isolati, alcuni tipi di spore, possono essere osservati liberi senza nessun trattamento. In genere, però, il basso contrasto che essi offrono obbliga a ricorrere anche in questo caso a metodi di colorazione, o utilizzando l'affinità di talune parti del preparato per certi composti metallici, in modo che esse appaiano particolarmente scure nell'immagine (contrasto positivo), oppure facendo depositare attorno ai singoli elementi del preparato e negli anfratti delle sue strutture un sale di un metallo pesante, in modo che le particolarità dell'oggetto spicchino chiare su un fondo scuro (contrasto negativo). Le due immagini che così si possono ottenere per uno stesso preparato offrono dati complementari.
6. Microscopia elettronica a scansione
Questo metodo era già stato proposto da H. Stintzing (v., 1929) prima che venisse in uso la microscopia elettronica per trasparenza. Fu tuttavia sviluppato solo più tardi, dopo che le tecniche di registrazione degli elettroni ebbero raggiunto il necessario grado di perfezione.
Anche questo metodo utilizza un fascetto elettronico per illuminare l'oggetto. Questo, però, non è direttamente impiegato per formare l'immagine, ma esplora l'oggetto percorrendolo secondo linee successive, così come il nostro occhio scorre una pagina scritta. Questo procedimento, che è lo stesso usato per la trasmissione televisiva, si chiama ‛scansione dell'oggetto'. Gli elettroni diffusi all'indietro dalla superficie dell'oggetto investita dal fascetto elettronico vengono raccolti da uno scintillatore, il quale è accoppiato a un fotomoltiplicatore mediante una guida di luce. Il segnale amplificato viene utilizzato per modulare un tubo a raggi catodici, il cui fascio elettronico percorre per linee lo schermo fluorescente, in sintonia col fascetto primario che esplora l'oggetto da osservare. Compare allora sullo schermo del tubo televisivo l'immagine dell'oggetto, il cui ingrandimento, dato dal rapporto fra le dimensioni del reticolo di scansione sullo schermo e quelle del reticolo di scansione sull'oggetto, si controlla variando quest'ultimo. Il sistema quindi non utilizza lenti elettroniche per formare l'immagine; tuttavia queste sono necessarie per rendere il fascetto esploratore sottile e intenso: dalla sezione del fascetto, infatti, e dalla sua densità di corrente dipende in modo essenziale il potere risolutivo del microscopio. Il fascetto esploratore raggiunge normalmente circa 100 Å di diametro, con una corrente tra 10-10 e 10-12 A e una tensione alla sorgente tra 10 e 40 kV.
Il potere risolutivo, oltre che dalle caratteristiche tecniche del sistema, dipende anche dall'interazione tra il fascetto elettronico e il preparato e cioè dalle fluttuazioni del numero di elettroni secondari diffusi o emessi dall'oggetto e utilizzati per la formazione dell'immagine. Ne segue che il potere risolutivo non può scendere al disotto di 30-40 Å (v. Simon, 1970) e quindi è al limite circa venti volte inferiore a quello di un buon microscopio elettronico di tipo convenzionale. Viceversa la profondità di fuoco è enorme, poiché arriva a 10.000 volte quella di un microscopio elettronico convenzionale; ciò consente di vedere le anfrattuosità della superficie dell'oggetto in un'immagine quasi tridimensionale. Questa profondità di fuoco è anche molto più grande di quella data da un microscopio ottico usato per forti ingrandimenti. Per questa ragione e per il fatto che la superficie dell'oggetto osservato è molto estesa e il potere risolutivo è almeno venti volte più spinto di quello di un microscopio ottico, il microscopio a scansione è diventato un mezzo insostituibile per l'esame della superficie e dell'usura di materiali vari, quali acciai, leghe, ceramiche, transistori, microcircuiti, semiconduttori, e per lo studio morfologico in biologia.
Il sistema della scansione dell'oggetto può essere usato anche raccogliendo gli elettroni trasmessi dal preparato, anziché quelli inviati dalla sua superficie. In questo caso il potere risolutivo può raggiungere circa quello di un microscopio elettronico convenzionale; ma il preparato deve essere in strato molto sottile e quindi si perde il vantaggio della grande profondità di fuoco.
7. Microscopio a emissione di campo
Il microscopio a emissione di campo proviene da un analogo dispositivo sperimentale creato per misurare il lavoro di estrazione degli elettroni da superfici metalliche e le sue variazioni in presenza di vari materiali adsorbiti (v. Mülfer, 1936). Esso è costituito da una punta sottile, la cui estremità ha un raggio di circa 1.000 Å, che si affaccia in una camera sferica nella quale è mantenuto un vuoto spinto. Tra la punta e la parete della camera a essa opposta è mantenuta una differenza di potenziale relativamente bassa: 1,5-3 kV. Molto intenso è tuttavia il campo elettrico in prossimità della punta, poiché questa è molto aguzza. Infatti, se r è il raggio di curvatura della punta (v. fig. 14) e V la tensione applicata, l'intensità del campo alla punta è E = V/Kr, dove K è una costante il cui valore è pari a circa 5. Per r = 1.000 Å e V = 3 kV, si raggiunge un campo di intensità E = 6 • 107 V/cm. Se alla punta è applicata una tensione negativa rispetto alla parete della camera, da essa vengono sottratti elettroni che, percorrendo traiettorie rettilinee (nel vuoto molto spinto), raggiungono la parete opposta della camera. Se questa porta uno schermo fluorescente, su di esso compaiono delle macchie luminose, la cui posizione è in cornspondenza dei punti emittenti, cioè degli atomi del reticolo cristallino del materiale che costituisce la punta. L'immagine è pertanto la proiezione di tale reticolo.
L'ingrandimento è dovuto Solo alla geometria del sistema ed è circa uguale al rapporto tra la curvatura della camera e quella della punta. Potendo quest'ultima raggiungere circa 1.000 Å, una camera di 5 cm di raggio è sufficiente per raggiungere un ingrandimento di 500.000 volte.
Se si inverte la polarità del campo elettrico, dalla punta vengono estratti ioni anziché elettroni, i quali tuttavia sono in numero insufficiente a dare immagini visibili, a meno che nel microscopio non si mantenga un'atmosfera di idrogeno, elio o neon. In questo caso le molecole del gas si ionizzano nell'intenso campo presso la punta e vengono proiettate normalmente alla sua superficie. La tensione agli elettrodi è tra 5 e 30 kV. Una pressione del gas di 10-3 torr permette di ottenere una forte brillantezza dell'immagine senza perdita di risoluzione per diffusione degli ioni da parte degli atomi del gas ionizzato. Il microscopio è capace di mostrare la localizzazione di atomi che distano tra loro fino a 2-3 Å. Tuttavia il quadro che si ottiene non è un'immagine dell'oggetto nel senso usuale della parola, in quanto non è il risultato dell'interazione tra l'oggetto e una radiazione che lo illumina e che produce poi l'immagine: è solo ciò che si ottiene dalla proiezione rettilinea di elettroni o ioni da un oggetto autoemittente. Perché ciò si verifichi occorrono le caratteristiche fisiche necessarie, che sono proprie dei metalli e dei loro composti. Con questa tecnica infatti sono stati studiati numerosi fenomeni chimici di superfici metalliche, come ossidazione e corrosione, e fenomeni di diffusione di impurità dall'interno alla superficie del metallo, formazione di fasi superficiali, tutti processi che danno luogo a variazioni del lavoro di estrazione.
8. Metodi analitici in microscopia
a) Metodi fisici di analisi del preparato
Le informazioni che si possono trarre da un'immagine microscopica sono in rapporto al tipo di apparecchio usato, poiché da esso dipendono i tipi di interazione tra il fascio illuminante e l'oggetto che l'immagine riporta. La microscopia ottica registra fenomeni di assorbimento della luce (v. sopra, cap. 4, 1) o di variazione del cammino ottico (v. sopra, cap. 4, 2 e 3) oppure anche di eccitazione di luce di fluorescenza (v. sopra, cap. 4, 4). Nel caso di microscopi a raggi X (v. sopra, cap. 4, 5) ci si limita a immagini per assorbimento, per quanto potrebbero essere affrontati anche aspetti relativi all'eccitazione di radiazione secondaria. Per quanto riguarda i microscopi elettronici, invece, le immagini sono dovute alla diffusione degli elettroni da parte dell'oggetto; tuttavia per lo studio analitico di questo viene sfruttata anche l'emissione di radiazione secondaria che, composta da raggi X e da elettroni, dipende anch'essa dall'interazione del fascetto elettronico con l'oggetto esplorato. Lo spettro dei raggi X emessi dal preparato è caratteristico degli elementi che lo costituiscono: la sua analisi consente pertanto di identificare gli elementi chimici che costituiscono l'oggetto e di misurarne la quantità entro il volume colpito dal fascetto elettronico. Poiché questo può essere cosi sottile da raggiungere appena qualche centinaio di Å di diametro, l'analisi può essere effettuata con notevole dèttaglio e con l'osservazione contemporanea dell'oggetto a forte ingrandimento. L'analisi spettroscopica dei raggi X emessi dal preparato viene eseguita con i metodi usuali, cioè o mediante un cristallo che agisce come reticolo e un corrispondente sistema di registrazione dei raggi X diffratti, oppure con un rivelatore a stato solido. La sensibilità del metodo consente di rilevare fino a 10-16 g di elemento. Essa dipende però anche dal numero atomico dell'elemento in questione: gli elementi di numero atomico molto basso, da cui sono in gran parte costituiti i materiali biologici, sono deboli emettitori di raggi X e pertanto per essi questo tipo di analisi è più difficile, talora (per Z ≤ 8) praticamente impossibile. In questo caso solo dei sistemi di trattamento chimico del preparato che consentano di legare all'elemento che interessa delle molecole contenenti atomi pesanti possono consentire un'analisi. Questo processo è del resto ben noto in microscopia elettronica come ‛colorazione' del preparato ed è stato ed è largamente sfruttato come metodo qualitativo per mettere in evidenza, nei preparati biologici, certe molecole o gruppi molecolari a preferenza di altri.
Sono utilizzabili per l'analisi anche gli elettroni riflessi all'indietro dal preparato, oppure quelli emessi come secondari: i primi sono in grado di fornire informazioni sulla topografia superficiale dell'oggetto (l'intensità degli elettroni riflessi dipende dal numero atomico del materiale riflettente); i secondi possono essere analizzati e utilizzati in modo analogo a quello usato per i raggi X secondari nell'identificazione dell'elemento emittente, in quanto, se il preparato è in strato molto sottile, essi si presentano in uno spettro discreto caratteristico dell'elemento emittente (elettroni di Auger). Tale tipo di analisi viene però usato raramente, perché le condizioni che lo rendono attuabile sono più critiche di quelle che consentono l'analisi dei raggi X.
Un metodo analitico interessante può essere applicato al microscopio ionico a emissione di campo: in un punto dello schermo fluorescente si pratica un foro e si inclina la punta emittente in modo che una macchia luminosa dell'immagine cada sul piccolo foro. L'atomo che la genera può allora, spinto fuori dalla punta da una differenza di potenziale di qualche centinaio di volt, passare attraverso il foro e proseguire lungo un tubo di 1 m di lunghezza, al termine del quale viene rivelato da un moltiplicatore elettronico. Il tempo che esso impiega a percorrere questo cammino (tempo di volo) viene misurato con un oscillografo e da questo si risale alla massa dello ione e quindi al tipo di atomo emittente (v. Müller e altri, 1968).
b) Analisi delle immagini
Le immagini fornite dai microscopi sono in genere insiemi di forme che differiscono per numero, dimensioni, valori di contrasto e possono essere ottenute con mezzi fisici diversi (luce di varie lunghezze d'onda, raggi X, elettroni) atti a rilevare caratteristiche fisiche particolari dell'oggetto. L'occhio permette una valutazione completa, ma soggettiva, dell'immagine. La visione diretta, inoltre, non dà in genere la possibilità di seguire le trasformazioni del preparato nel tempo, soprattutto se dipendenti da diversi fattori: casi tipici sono i passaggi di stato nei sistemi a molte fasi, che possono essere seguiti al microscopio ottico, e le variazioni nella forma e nel numero di corpuscoli citoplasmatici, di notevole importanza per la biologia, e la comparsa di alterazioni patologiche, che vengono seguite al microscopio elettronico. Dalle informazioni contenute nell'immagine si possono ottenere dati analitici caratterizzando le forme presentate dall'immagine e poi o misurandone per ogni punto la luminosità, oppure, quando l'immagine sia rivelata su emulsione fotografica, la densità ottica corrispondente. Per arrivare a questo, occorre perlustrare sistematicamente l'immagine, raccogliendo, punto per punto, dati fotometrici. Ciò si ottiene o muovendo un fascetto luminoso esploratore avanti e indietro e traslandone sistematicamente il percorso, oppure tenendo fisso il fascetto e spostando corrispondentemente l'immagine. Al fascetto può essere sostituita una macchia di luce ottenuta sullo schermo di un oscillografo. Si usa, poi, un fotomoltiplicatore per ricavare dati fotometrici che così vengono raccolti correlati alle coordinate di ogni punto esplorato. La registrazione su nastro e l'elaborazione mediante un calcolatore dei dati ottenuti sono necessarie affinché essi siano utilizzabili; è necessaria, inoltre, un'accurata taratura e valutazione critica dei risultati.
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