microeconomia
La prospettiva d’analisi
della microeconomia
La microeconomia è quella parte della teoria economica che tradizionalmente si occupa del comportamento dei diversi agenti economici, analizzando i fenomeni allocativi riguardanti, tipicamente, merci, famiglie, imprese, industrie e mercati. Si differenzia dalla macroeconomia (➔ p), che, invece, ha come oggetto di studio l’analisi dei grandi aggregati e si focalizza su indicatori riferiti all’intero sistema Paese. Nella macroeconomia, infatti, il consumo aggregato è spiegato dal reddito e dalla ricchezza a disposizione delle famiglie; l’investimento dipende dal confronto tra il tasso di interesse e la redditività dei capitali, nonché dalle aspettative imprenditoriali; la disoccupazione è l’esito del riflesso sul mercato del lavoro della divergenza tra l'offerta aggregata, uguale alla produzione che si adatta a quanto viene richiesto dal mercato, e la domanda aggregata, definita, nell’ipotesi più semplice di assenza di commercio con l’estero e di intervento pubblico, dalla somma di consumi e investimenti desiderati.
È abituale ricondurre la fondazione della microeconomia al francese M.-E.-L. Walras (➔) nei primi anni 1870, mentre la nascita della macroeconomia è universalmente fatta risalire all’opera principale di J. M. Keynes (➔), General theory of employment, interest and money (1936), scritta all’indomani della grande crisi degli anni 1930. La contrapposizione, per lo più fittizia, ha fini prettamente didattici: per verificarlo, è sufficiente osservare che sia la ‘micro’ sia la ‘macro’ hanno come obiettivo lo studio del funzionamento del sistema economico. Ciò che cambia è semplicemente la prospettiva d’analisi adottata. Tuttavia, va anche osservato che un problema di coerenza sussiste. È reso evidente dal tentativo di «microfondare la macroeconomia» (➔ microfondazione della macroeconomia), iniziato e sviluppato sin dai primi anni 1970 da R.E. Lucas (➔), con l’intento di introdurre, come ipotesi a fondamento della macro, i comportamenti ottimizzanti degli agenti economici, nonché di fornire a tali comportamenti una prospettiva dinamica attraverso un’analisi intertemporale delle scelte effettuate. Un tentativo, questo, che ha dato nuovo slancio alla microeconomia, mettendo al contempo nell’angolo la macro, e che ha riscosso in gran parte successo. Ne è prova il fatto che qualunque analisi macro oggi proposta ‒ come, per es., gli effetti della stretta creditizia di cui soffrono dai primi anni 2000, in diversa misura, le principali economie avanzate – non può fare a meno di esplicitare le sottostanti ipotesi micro sul comportamento degli agenti. Rimane la constatazione che la microeconomia tradizionale non può essere posta a unico fondamento della macroeconomia solo attraverso la mera aggregazione delle azioni dei singoli. Il maggiore ostacolo che si frappone a questa interpretazione è il fatto che nei mercati, ‘luogo economico’ dove l’aggregazione dovrebbe realizzarsi, si creano interazioni tra le scelte degli agenti e i problemi di coordinamento. Ciò fa sì che la macro risulti diversa dalla somma di questi comportamenti, che a livello micro dovrebbe rappresentare appunto il funzionamento complessivo del sistema economico.
Due notazioni sono infine fondamentali per comprendere i rapporti tra micro e macro. Da una parte, la stessa opera principale di Keynes, la General theory, suggeriva ipotesi di comportamento al fine di spiegare, per es., la dipendenza del consumo dal reddito, anche se diverse da quelle che vengono abitualmente proposte dalla teoria standard. Dall’altra, M. Friedman (➔), in un famoso articolo (The role of monetary policy, 1968), prima dell’avvio del tentativo di microfondare la macro, sosteneva che il tasso di disoccupazione è la risultante di un insieme di fattori che agiscono all’interno di un mercato del lavoro dai connotati tipicamente walrasiani, suggerendo così implicitamente un approccio micro alla macro.
Relativamente ai temi della microeconomia nella sua accezione tradizionale, essa analizza il funzionamento del sistema economico mediante lo studio del comportamento degli agenti – consumatori e imprese – sia quando compiono le loro scelte come singoli sia quando interagiscono tra loro, per es. attraverso il mercato. A livello micro si assume che gli individui siano dotati di razionalità, cioè in grado di ordinare le alternative o le opzioni disponibili, e tra queste scelgano quelle ottimali per il raggiungimento dei loro fini, come la massima utilità per il consumatore e il massimo profitto per l’impresa. Il consumatore e l’impresa rappresentano i due lati del mercato. Se si ipotizza, come avviene molto spesso nella teoria tradizionale, che il regime di mercato prevalente sia quello di concorrenza perfetta (➔ p), le famiglie e le imprese assumono i prezzi esistenti sul mercato come dati non modificabili dal loro comportamento. Dalle massimizzazioni di utilità e profitto è allora possibile ricavare per aggregazione le quantità domandate e offerte, sia di beni sia di input. L’interazione tra famiglie e imprese in mercati caratterizzati da concorrenza perfetta dà origine al prezzo di equilibrio, il prezzo cioè che rende coerenti le scelte effettuate da famiglie e imprese in modo tale da uguagliare domanda e offerta. Il funzionamento complessivo del sistema economico è analizzato attraverso un modello di equilibrio economico generale, mentre gli aspetti normativi vengono studiati all’interno dell’economia del benessere (➔ benessere, teoremi dell’economia del), dove i due teoremi fondamentali stabiliscono in quali condizioni un’economia coordinata da mercati concorrenziali è in grado di assicurare l’efficienza, ovvero è in grado di realizzare l’ottimo di Pareto (➔ Pareto, ottimo di p). Se quelle condizioni non sono soddisfatte, l’ottimo paretiano non viene raggiunto e si determina il cosiddetto fallimento del mercato: esso può derivare da una molteplicità di cause, come la presenza di esternalità, di beni pubblici, di asimmetrie informative, di problemi di principale-agente, di mercati non concorrenziali (➔ anche mercato, fallimenti del).