VITERBO, Michele (Peucezio). – Nacque a Castellana (Bari)
l’8 ottobre 1890 da Nicola, ufficiale postale, e da Silvia Francavilla.
Primogenito di cinque fratelli e tre sorelle, compì la prima formazione in un ambiente familiare connotato da un vivo richiamo agli ideali risorgimentali.
Diversi membri della famiglia avevano preso parte ai moti antiborbonici fin dal 1799. Suo padre fu volontario nella campagna garibaldina del 1867 e aderì alla Lega dei liberi pensatori di Giovanni Bovio.
In tale contesto Viterbo maturò una giovanile adesione al mazzinianesimo, i cui temi portanti concorsero in modo rilevante alla definizione del suo profilo culturale. Studente presso la Regia Scuola normale maschile di Bari, avviò, non ancora quindicenne, un’apprezzata corrispondenza giornalistica da Castellana per varie testate regionali e nazionali, tra cui il Giornale d’Italia. Nel 1906 iniziò a scrivere per il Corriere delle Puglie (poi Gazzetta di Puglia e infine Gazzetta del Mezzogiorno), quotidiano di cui avrebbe rappresentato a lungo una delle firme più autorevoli. Come pubblicista riportò all’attenzione del suo tempo numerosi eventi e personaggi della storia pugliese e contemporaneamente documentò vari aspetti della realtà socioeconomica meridionale, individuando nell’alfabetizzazione e nell’elevazione culturale delle masse contadine l’elemento cardine per la loro emancipazione. Questa attenzione si rafforzò con il conseguimento del diploma di abilitazione all’insegnamento e l’avvio, nel 1909, dell’attività di maestro nelle scuole elementari di Castellana, che svolse fino alla chiamata alle armi nel 1915.
Il mancato prosieguo di un sistematico percorso di studi, dovuto alle ristrettezze familiari conseguenti la morte del padre, non gli impedì di dedicarsi a un incessante lavoro di ricerca e approfondimento da autodidatta, in virtù del quale svolse un’intensa attività di conferenziere e pubblicò vari saggi su temi di attualità politica, problemi di storia del Mezzogiorno e ricerche di storia locale. L’attenzione per la vita di Castellana si tradusse in un suo progressivo coinvolgimento nelle vicende politico-amministrative locali, grazie anche all’apprendistato compiuto al seguito di Nicola De Bellis, politico di area giolittiana. Pur appoggiando solo alcuni aspetti del suo programma, inerenti l’agricoltura e il decentramento amministrativo, Viterbo fu al fianco di De Bellis nell’animata campagna del 1908 per le elezioni politiche suppletive nel collegio di Conversano. Negli stessi anni un crescente interesse per le condizioni e le lotte dei contadini lo avvicinò agli ambienti del movimento socialista barese e a figure come Giovanni Colella e Giuseppe Di Vagno, con i quali entrò in rapporti amichevoli.
Nel 1909 fondò con Alfredo Violante la rivista Puglia giovane, particolarmente impegnata nel documentare le condotte illecite che favorirono l’affermazione nelle elezioni politiche in Puglia di vari candidati ministeriali. Una netta presa di posizione contro i metodi giolittiani caratterizzò la sua collaborazione, dal 1911, con la rivista Humanitas, fondata e diretta a Bari dal repubblicano Piero Delfino Pesce, vivace luogo di elaborazione e confronto per numerosi esponenti dell’intellettualità democratica emergente. In quegli anni strinse solida amicizia con Araldo di Crollalanza.
Favorevole all’estensione del suffragio e molto critico verso la politica governativa per il Mezzogiorno, si avvicinò alle posizioni di Gaetano Salvemini, che nel 1912 manifestò interesse per i rilievi da lui formulati sulla legge Daneo-Credaro, con particolare riguardo alla denuncia della sperequazione dei sussidi statali in favore delle scuole dell’Italia settentrionale. Tale tema, accanto alla campagna promossa dalla Lega antiprotezionista contro le scelte governative in materia di politica commerciale, fu al centro dell’iniziativa dell’Associazione di propaganda politica, che con Viterbo radunò molti attivisti baresi vicini a L’Unità. Simili posizioni concorsero a definire una visione complessiva del meridionalismo, convergente in più punti con il pensiero salveminiano, che egli illustrò nel pamphlet La questione meridionale alla vigilia del suffragio allargato (Bari 1913).
Significativa espressione del municipalismo democratico fu l’esperienza dell’Associazione Pro-Castellana, di cui Viterbo fu fondatore e presidente. Nata per favorire la partecipazione attiva dei cittadini alle questioni amministrative e difendere i pubblici interessi, essa fu anche «strumento di resistenza al conformismo prefettizio e ministeriale» (M. Viterbo, Dagli ultimi re..., 2006, p. 127), avversando i giolittiani nelle elezioni politiche del 1913 e vincendo con una propria lista le elezioni amministrative del 1914.
L’incombere della Grande Guerra lo vide prima interventista critico, poi attivista per i comitati di assistenza civile. Pur accusando i nazionalisti di dar voce a un fanatismo di stampo imperialista, condivise con altri intellettuali democratici la critica al neutralismo giolittiano, in virtù della quale valutò la mobilitazione interventista del maggio del 1915 come espressione delle forze più innovative della società italiana. Nell’orazione Gli operai e la patria (Bari 1915) accusò i socialisti neutralisti di ‘operaismo’, ossia di subordinare agli interessi di una sola classe quelli dell’intera nazione. Per riconciliare popolo, democrazia e patria, Viterbo esortò a promuovere il pubblico interesse «senza odio né rancori contro questa o quella classe, ma fondendo tutte le classi insieme», ritenendo ingiusto circoscrivere la questione sociale al «cosiddetto proletariato». Per Viterbo, infatti, vi erano proletari anche «fra la borghesia, fra i lavoratori della penna, dell’ufficio e della scuola, oscuri lavoratori non organizzati in leghe, né in cooperative» (ibid., p. 17).
Nell’estate del 1916 combatté al fronte, prima in Val d’Assa, poi sul Carso monfalconese, partecipando ad azioni per le quali fu decorato, nel 1924, con la croce al merito di guerra. Allontanato dal fronte per malattia contratta in guerra, fu in seguito comandato, con il grado di tenente, all’Ufficio storico della mobilitazione in Roma.
Nel dopoguerra sostenne le iniziative salveminiane della Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, affiancando il meridionalismo ai motivi del combattentismo democratico.
Particolare attenzione dedicò in quegli anni al tema del decentramento amministrativo, raccogliendo le sue tesi nel volume Un problema nazionale: il decentramento (Milano 1920). In esso, rilevando come l’uniformità legislativa danneggiasse soprattutto il Mezzogiorno, sottolineò la necessità di attribuire maggiori poteri e capacità di spesa agli enti intermedi, affinché la loro azione fosse più sollecita e aderente alle esigenze dei territori.
Conseguita nel 1920 l’abilitazione all’ufficio di direttore didattico delle scuole elementari pubbliche, operò nelle istituzioni periferiche di governo della scuola, prima come consigliere, poi come deputato scolastico provinciale, lavorando con intensità al rafforzamento delle istituzioni sussidiarie, dai patronati scolastici ai corsi di istruzione popolare e professionale. In questo ambito animò, dal 1921, le iniziative della Sezione barese della Società Umanitaria, giungendo a dirigere, tra il 1923 e il 1924, la trasformazione del competente ufficio della Sezione in Ente pugliese di cultura popolare e professionale, che guidò fino al 1943.
Nei primi anni Venti Viterbo seguì con interesse il movimento cooperativo e aderì al Partito socialista riformista italiano (PSRI), nella cui lista di riferimento fu candidato alle elezioni politiche del 1921, senza riuscire eletto. Nella sua attività di pubblicista, che nel 1921-22 svolse anche per Il Mondo e Critica politica, ritornò sul tema del decentramento, pubblicando per la collana Biblioteca di studi sociali, curata da Rodolfo Mondolfo, il volume Il Mezzogiorno e l’accentramento statale (Bologna 1923). L’opera fu positivamente accolta da critici di diverso orientamento, da Tommaso Fiore su La Rivoluzione liberale a Sergio Panunzio su Critica fascista.
Proprio la crescente attenzione di Viterbo per il pensiero di Panunzio e l’instaurarsi di un rapporto di amicizia e collaborazione influirono sulla svolta degli anni 1923-24, segnata dall’avvicinamento al fascismo. In tale adesione si ritrovano i tratti tipici dell’orientamento assunto da quei segmenti sociali che videro nel nuovo corso politico un’opportunità per superare le angustie del parlamentarismo liberale e candidarsi alla guida di un processo di modernizzazione fondato su un nuovo modello di integrazione, ancorché autoritario, delle classi lavoratrici. Distante dallo squadrismo e dal reazionarismo agrario, Viterbo vide nel sindacalismo corporativo lo strumento attraverso cui l’Italia avrebbe guidato un processo di trasformazione sociale, finalizzato al superamento di capitalismo e comunismo, conquistando un ruolo centrale in Europa.
Il carattere urbano e ‘tecnocratico’ del suo accostamento al fascismo si manifestò con l’interesse per le realizzazioni sociali, le organizzazioni sindacali e i ‘gruppi di competenza’, cui partecipò dalla fine del 1923. In tale contesto si colloca anche l’iniziativa, condotta con Panunzio e Antonio De Tullio, di istituire nel 1924 a Bari la Camera di commercio italo-orientale, con l’intento di promuovere gli scambi con i Paesi dell’area levantina, in risposta alle istanze di crescenti settori dell’imprenditoria locale. Operando come segretario, poi direttore generale dal 1929 al 1935, Viterbo pose le basi per un’ulteriore realizzazione tesa a garantire una proiezione internazionale al Mezzogiorno: la Fiera del Levante (1930), di cui fu vicepresidente fino al 1943.
Gli stessi anni lo videro attivo anche negli enti di governo locale: dal 1924 fu membro della Commissione reale dell’Amministrazione provinciale di Bari, poi commissario straordinario dal 1927 e preside dal 1929 al 1931. In tali vesti favorì l’insediamento dell’Università di Bari (1925) e la nascita della Pinacoteca provinciale (1928), oltre a curare vari interventi in ambito viario, infrastrutturale, assistenziale, scolastico e artistico-culturale.
Dopo un breve periodo di interruzione, la sua attività amministrativa fu rilanciata nel 1935 con la nomina a podestà di Bari, carica che rivestì per due mandati, fino alle dimissioni dell’aprile del 1943. Pur operando tra ristrettezze e avversità, svolse l’incarico con forte spirito di iniziativa, prestando particolare attenzione all’edilizia popolare, agli istituti scolastici e all’iter realizzativo dell’ospedale Policlinico. Tra il 1936 e il 1938 fu anche membro della Corporazione della metallurgia e della meccanica.
La sua attività istituzionale non interruppe quella di pubblicista, che in quel periodo egli svolse prevalentemente per la Gazzetta del Mezzogiorno, giornale di cui guidò il consiglio di amministrazione dal 1933 al 1940.
Nel 1937 sposò Anna Mongiò, di Maglie (Lecce), con la quale ebbe tre figli.
Dopo la caduta del regime, il suo operato fu oggetto di esame nell’ambito dei provvedimenti per le sanzioni contro il fascismo. Interrogato nel 1945 dalla Commissione provinciale di polizia, fu prima condannato al confino, poi prosciolto dalla Commissione centrale presso il ministero dell’Interno. Dopo lungo contenzioso, riuscì prosciolto anche dall’accusa di profitti di regime.
Tra l’ottobre del 1943 e il 1949 visse, in confino e poi in condizione appartata, a Maglie, ove elaborò un’amara riflessione retrospettiva sulla sua esperienza, che intrecciò con una revisione parzialmente critica del fascismo.
Superate le procedure epurative con esito favorevole, Viterbo tornò a Bari e dal 1950 riprese a scrivere per la Gazzetta del Mezzogiorno con lo pseudonimo di Peucezio. Negli anni seguenti compì un’ultima esperienza politica mediante l’adesione al Movimento sociale italiano (MSI), nelle cui liste fu eletto, come indipendente, al Consiglio provinciale di Bari nel 1952 e nel 1956.
Di crescente rilievo fu il suo impegno negli studi storici. In particolare, La Puglia e il suo acquedotto (Bari 1954) e la trilogia Gente del Sud (I, Antiche civiltà, Bari 1959; II, Da Masaniello alla Carboneria, Bari 1962; III, Il Sud e l’Unità, Bari 1966) furono positivamente accolte in ambito scientifico, conseguendo numerosi riconoscimenti. Nel campo degli studi risorgimentali, la sua opera tese a rivalutare il contributo attivo delle popolazioni meridionali al processo di unificazione. In tale direzione si esplicò anche il suo impegno, dal 1954, come presidente del Comitato di Bari dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, per il quale curò l’organizzazione di convegni di rilevante profilo scientifico. Fu presidente della Deputazione di storia patria per le Puglie dal 1939 al 1943, poi vicepresidente dal 1966 al 1973. Nel 1927 e nel 1970 fu insignito di medaglia d’oro per meriti in campo scolastico e culturale dal ministero della Pubblica Istruzione.
Morì a Bari il 13 aprile 1973.
Opere. Oltre ai testi citati, si segnalano le pubblicazioni postume: Dagli ultimi re borbonici alla caduta del fascismo, a cura di S. Viterbo De Jaco, Fasano 2006; Diario di un italiano che non va d’accordo con nessuno 1943-1945, a cura di N. Viterbo, s.l. 2018.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Bari, Fondo Michele Viterbo; Archivio Digitale Michele Viterbo ‘Peucezio’, micheleviterbo-peucezio.it. L. Masella, Tra corporativismi e modernizzazione. Le classi dirigenti pugliesi nella crisi dello stato liberale, Lecce 1983, ad ind.; A. Vallone, Ricordo di M. V., in M. Viterbo, Gente del Sud. Antiche civiltà, Bari 1987, pp. IX-XXVI; Comitato di Bari dell’Istituto per la storia del Risorgimento, La rivalutazione del Risorgimento pugliese e meridionale attraverso l’opera di M. V., Bari 1988; G. Salvemini, Corrispondenze pugliesi, a cura di P. Minervini, Molfetta 1989, ad indicem.