TODINI, Michele
– Nato a Saluzzo, nel Ducato di Savoia, fu battezzato il 24 maggio 1616. Nulla è noto riguardo ai genitori.
Giunto a Roma verso il 1636, si distinse rapidamente nel campo degli strumenti musicali, sia come esecutore sia come costruttore. Dal 1650 al 1652 fu guardiano degli strumentisti della Congregazione di S. Cecilia, della quale era entrato a far parte intorno al 1640-45: si trattava di una carica di prestigio, in seguito ricoperta da musicisti quali Carlo Mannelli, Arcangelo Corelli e Giovanni Lorenzo Lulier. Suonò il violino nelle accademie del cardinale Vincenzo Costaguti, nonché altri strumenti ad arco ‒ alcuni di sua invenzione ‒ in numerose manifestazioni pubbliche. Fu anche suonatore di trombone e organista tra i ‘musici’ di Castel S. Angelo e del Campidoglio, dei quali nel 1676 era decano (in tale carica viene ancora segnalato nel 1684).
Nel 1650 avviò, nel suo appartamento privato in via dell’Arco della Ciambella (oggi vicolo Sinibaldi 1; l’edificio, sito presso il Pantheon, esiste tuttora nella sua struttura originaria), una ‘galleria armonica’, cui principalmente deve la sua fama. Nella galleria figuravano alcuni strumenti di nuova invenzione da lui costruiti, di cui diede conto nella sua Dichiaratione della galleria armonica eretta in Roma (Roma 1676; ed. facsimile a cura di P. Barbieri, Lucca 1988): un clavicembalo in cui aveva anche inserito, a scopo dimostrativo, gli antichi tetracordi enarmonici; un «violino a due registri», con all’interno una pochette inseribile con un comando sul capotasto; un altro violino congegnato in modo tale «che con quattro corde vi fosse la quinta, toccando un ordine di piroletti» (strumento che potrebbe essere considerato un anticipatore dei vari modelli di violino-viola proposti nel secolo successivo; p. 79); una viola da gamba, da lui adoperata in oratori, accademie e serenate «con ordegni dentro al manico da far sentire il soprano, tenore e basso, senza muover mai la mano dal luogo solito della viola» (p. 80). L’innovazione per archi che gli fruttò più successo fu «il violone grande o sia contrabasso», ch’egli si vantò d’aver introdotto in Roma e di aver «sonato per lo spazio di trent’anni» nelle musiche che gli «sopraggiunsero frequentissime» (p. 81).
La galleria dovette chiudere per due anni in seguito alla terribile epidemia di peste del 1656. Dopo la riapertura, Todini la arricchì con nuovi strumenti, alcuni dei quali, quando diede alle stampe la Dichiaratione, erano ancora in fase di perfezionamento.
Quasi nulla è noto dei ‘segreti’ di tali meccanismi, dei quali Todini era assai geloso e che furono addirittura ritenuti una ‘satanica arte’ («magicum incantamentum iure diceres»: così il suo amico Athanasius Kircher nella Phonurgia nova, Kempten 1673, p. 169). La galleria fu meta di frequenti visite da parte di illustri personaggi italiani e stranieri.
Nella sua versione definitiva, la galleria constava di tre camere. La prima conteneva due grossi orologi. Il primo rappresentava un «Pellegrino» a grandezza naturale (Dichiaratione..., cit., p. 1) che sgranava il suo rosario ogni quarto d’ora: ciò permetteva, contando i grani di quest’ultimo, di conoscere l’ora anche di notte, stando a letto. Il secondo, riproducente una fortezza con un’alta torre, era dotato di calendario perpetuo, con due sentinelle che battevano le ore su di una grande campana; il suo pregio maggiore risiedeva nella semplicità e silenziosità del meccanismo. Di entrambi gli orologi si è oggi persa ogni traccia.
Nelle due successive camere erano esibite le ‘macchine armoniche’. La seconda camera ospitava le statue lignee di Galatea e Polifemo, quest’ultimo rappresentato nell’atto di suonare una «sordellina o musetta» (specie di cornamusa; p. 6), i cui meccanismi venivano azionati tramite la tastiera di un sontuoso clavicembalo. Di tale gruppo, sfarzosamente decorato con riferimenti mitologici, è stato recentemente rinvenuto l’autore degli intagli: contratti e pagamenti del 1665-72 rivelano che si trattava di Jacob Reiff, originario di Salisburgo e operante a Roma, il quale ricevette 150 scudi per i lavori relativi a tale gruppo e all’orologio del «Pellegrino»; il tutto fu poi quasi totalmente dorato da Basilio Onofri, per la somma di 300 scudi. Clavicembalo e statue erano addossati a una parete ricoperta da tre tele, dipinte da Gaspare Dughet, che facevano da sfondo. Di tale gruppo è noto anche un modellino in creta, oggi al Museo nazionale degli strumenti musicali di Roma.
La terza camera conteneva il più sorprendente dei meccanismi della galleria: la «Machina maggiore con sette strumenti sotto una sola tastatura» (p. 8). Detta tastiera di comando era quella di un grande clavicembalo dotato di pedali; tramite ventitré leve facilmente estraibili essa poteva azionare, da soli o in varie combinazioni, i seguenti sei strumenti: una «spinettina all’ottava alta», uno «spinettone», un «tiorbino» (cioè una spinetta con le corde di budello; pp. 10 s.), un organo (del quale sono menzionati i registri di principale, ripieno e flauto; p. 54), un violino e una lira (entrambi suonanti «con l’arco suo vero»; pp. 22 s.). All’epoca della stesura della Dichiaratione Todini stava ancora lavorando a un meccanismo che permetteva, tramite una pedaliera, di realizzare automaticamente sull’organo gli accordi del basso continuo. Il complesso era inserito in una ricca cornice comprendente anche un dipinto del già citato Dughet, oggi disperso assieme a tutto il congegno. Nel 1673 Kircher riferì che Todini soleva effettuare una dimostrazione pubblica con musica «armoniosa e composta dall’autore con sommo ingegno», tanto che «non solo colpisce mirabilmente le orecchie degli ascoltatori, ma anche lascia sbalorditi e attoniti i loro occhi ad ogni sobbalzare dei tasti, tanto che si direbbe un magico incantamento» (Phonurgia nova, cit., pp. 168 s.). Lo spettacolo iniziava con le tre spinette che suonavano in alternanza o variamente accoppiate: come già anticipato, la cosa più sorprendente era vedere i tasti di tutti questi strumenti che si abbassavano da soli, senza alcun apparente collegamento fra loro. Seguiva poi l’esecuzione di composizioni per violino e per lira, con accompagnamento di cembalo. La dimostrazione si chiudeva con l’organo, su cui l’autore alternava pezzi ora allegri, ora flebili, ora concitati fino a risvegliare «furori bellici» (p. 169).
Todini aveva investito nella galleria tutti i suoi proventi di strumentista e nel 1677 si trovò assediato da ben trenta creditori, per un debito totale che superava l’enorme cifra di 9000 scudi. Per evitare che dette macchine gli venissero confiscate, in quello stesso anno le smontò e si rifugiò nella chiesa di S. Maria dell’Anima, presso piazza Navona, con alcuni dei loro costituenti essenziali. Ciò mise i creditori con le spalle al muro, costringendo le parti a un accordo sulla divisione degli utili provenienti dalle esibizioni pubbliche della galleria.
Morì improvvisamente a Roma il 3 maggio 1690. Tutti i suoi debiti furono riscattati dai marchesi Verospi, i maggiori suoi creditori, e la galleria fu trasferita nel loro palazzo al Corso (ora sede del Credito Italiano al civico 374).
Nel 1722 la galleria, nella nuova ubicazione, venne descritta da Filippo Bonanni (Gabinetto armonico, Roma 1722). Valutata circa 12.000 scudi, intorno alla metà del secolo fu sottoposta a un radicale restauro, costato 280 scudi, effettuato da Gioacchino Martelli, il quale vantava competenze nel campo tanto della meccanica quanto degli strumenti musicali: era infatti allievo di Luigi Wood, un ‘macchinista’ inglese operante a Roma, autore fra l’altro dei primi quattro pianoforti costruiti in città. Ancora nel 1761 la galleria era in perfette condizioni operative, come indirettamente testimonia Sigismondo Antonio Manci, un viaggiatore proveniente da Trento che in quell’anno la visitò in compagnia di personaggi altolocati, alla presenza della marchesa Verospi: della «Machina maggiore», da lui chiamata «la maraviglia del mondo», egli riferì essere «una cosa che stordisce il veder sonar da sé l’istrumento», azionato da un frate seduto alla tastiera di comando (Trento, Biblioteca comunale, ms. 1079: Diario di Sigismondo Antonio Manci di Ebenheim, II, 1760-61, 2 aprile 1761, c. 111v). Nel 1770 Charles Burney riportò però che la galleria era caduta in disuso, essendo deceduto chi effettuava detta pubblica dimostrazione (The present state of music in France and Italy, London 1771, pp. 379 s.). Estintisi i Verospi (1775), nel 1796 la «Machina maggiore» fu smontata e venduta. In seguito si ha solo notizia della «Machina di Polifemo e Galatea», che nel 1825 fu rifiutata dai Musei Vaticani, cui era stata offerta in vendita. Passata poi al conte Alessandro Zeloni, dopo il fallimento di quest’ultimo (1860) fu acquistata dal visconte Étienne-Gilbert-Eugène de Sartiges, ambasciatore francese presso la S. Sede, che verso il 1868 la trasferì a Parigi. Nel 1889 fu quindi ceduta al Metropolitan Museum of art di New York, dov’è tuttora conservata, priva però del meccanismo con cui veniva originariamente azionata. Oggi si discute, tuttavia, se la statua di Galatea, così come adesso appare, corrisponda effettivamente alla descrizione fornitaci dalla Dichiaratione e dalle fonti archivistiche coeve.
Fonti e Bibl.: E. Winternitz, Musical instruments and their symbolism in Western art, London 1967; S. Pollens, M. T.’s golden harpsichord: an examination of the machine of Galatea and Polyphemus, in Metropolitan Museum Journal, XXV (1990), pp. 33-47; P. Barbieri, T., M., in Grove Music Online, 2001, https://doi.org/10.1093/gmo/ 9781561592630.article.28045 (19 aprile 2019); Id., M. T.’s ‘Galleria Armonica’: its hitherto unknown story, since 1650, in Early Music, XXX (2002), pp. 565-582; Id., M. T.: «Dichiaratione della Galleria armonica eretta in Roma...», in Roma barocca. Bernini, Borromini, Pietro da Cortona, a cura di M. Fagiolo - P. Portoghesi, Milano 2006, pp. 304 s.; S. Pollens, M. T.’s golden harpsichord: changing perspectives, in Music in art, XXXII (2007), pp. 143-151; H. Heyde, T.’s golden harpsichord, in Journal of the American Musical Instrument Society, XXXIX (2013), pp. 5-61; P. Patris - A. Rizzo, An unfolding tale: the making and transformation of the decorative elements of the golden harpsichord, ibid., pp. 62-88, 190-196.