MERCATI, Michele
MERCATI, Michele. – Nacque a San Miniato, tra Firenze e Pisa, il 6 apr. 1541 dal medico Pietro e da Alfonsina Fiamminga.
Ebbe un fratello, Francesco, e due sorelle, che presero entrambe i voti. Il nonno paterno, dal quale il M. ereditò il nome di battesimo, fu un noto umanista, vicino ai circoli neoplatonici fiorentini e amico di Marsilio Ficino, con il quale scambiò alcune epistole filosofiche. Secondo alcuni biografi, il padre del M. esercitò la sua professione a Roma sul finire degli anni Sessanta, divenendo medico pontificio, ma tale informazione non è suffragata dalle fonti. Pietro morì a San Miniato il 15 maggio 1585 all’età di settantuno anni e fu seppellito nella chiesa di S. Francesco, dove è conservata la lapide.
Il M., dopo una prima formazione umanistica sotto la guida paterna, proseguì gli studi presso l’Università di Pisa, dove iniziò a dedicarsi all’indagine della natura. Lo Studio pisano vantava in quegli anni insegnanti celebri del calibro di Andrea Cesalpino, professore di medicina pratica, lettore dei semplici e prefetto dell’orto botanico; tra lui e il M. nacque un lungo sodalizio. A Pisa il M. ricevette i gradi in filosofia e medicina il 18 marzo 1565, avendo come promotori, oltre a Cesalpino, Guido Guidi, Michelangelo Angeli, Manetto Manetti, Francesco Verini e Francesco Violi.
Nel 1566 il M. e la sua famiglia ottennero la cittadinanza di Firenze e forse egli risiedette brevemente nella città, dove entrò in relazione con l’ambiente mediceo. Negli anni immediatamente successivi si trasferì a Roma forse con l’aiuto del padre. La città si rivelò presto un luogo favorevole alla sua carriera e allo sviluppo dei suoi interessi naturalistici ed egli vi rimase, a eccezione di brevi periodi, per il resto della vita; a Roma acquisì rapidamente una certa notorietà. Nell’ottobre 1570 era tra gli archiatri di Pio V, in sostituzione del medico fiorentino Giorgio Ajola, morto prematuramente. Pur continuando a risiedere stabilmente in Vaticano, prima del 1574 fu richiamato a Firenze per fornire un consulto medico al granduca Cosimo I. Egli riuscì a mantenere il suo impiego nel palazzo apostolico anche dopo la morte di Pio V (1572). Durante gli anni del pontificato di Gregorio XIII (1572-85) il M. ricevette numerosi riconoscimenti tra cui, nel 1579, la cittadinanza romana; la sua fama crebbe considerevolmente, grazie in particolare alla fortuna di un trattato composto in precedenza ma pubblicato nel 1576, su richiesta del duca di Sora Giacomo Boncompagni, allarmato dalla peste che imperversava in varie aree della penisola (Instruttione sopra la peste…, Roma, V. Accolti, 1576).
Tra i diversi trattati pubblicati in quegli anni a Roma, in seguito alla diffusione dei timori del contagio, quello del M. si contraddistingue per uno stile chiaro ed elegante e per l’erudizione. L’Instruttione è una summa delle teorie tratte da autori antichi e coevi, tra cui Girolamo Fracastoro, rispetto al quale il M. mantiene una certa neutralità. Dopo aver fornito una definizione della peste e aver preso in esame le sue possibili cause, i segni premonitori e quelli diagnostici, il M. offre consigli preservativi e propone diversi tipi di cure. L’opera fu data alle stampe insieme con altri tre trattatelli, rispettivamente sui veleni, sulla podagra e sulla paralisi, composti per Cosimo I, che dell’ultimo è anche il dedicatario.
Medico personale di Gregorio XIII, il M. lo assistette fino agli ultimi istanti di vita. In particolare, è ricordato dai biografi del pontefice come l’unico, tra i diversi archiatri, a essere stato in grado di pronosticarne la fine imminente. Sull’avvenimento il M. scrisse un’operetta in italiano rimasta manoscritta, la Relatione della morte di papa Gregorio XIII (Archivio segreto Vaticano, Misc. Arm., II, 145, cc. 90-91), nella quale descrisse le ultime ore di vita del pontefice preventivamente difendendo il proprio operato da eventuali accuse.
Fin dal suo impiego a palazzo sotto PioV il M. affiancò la sua attività di medico a quella di custode dell’orto vaticano dei semplici, carica affidatagli dal pontefice nel 1571. La «cura di conservatione et accrescimento dell’horto de semplici» gli fu confermata anche da Gregorio XIII (Instruttione sopra la peste, c. 2r).
Gli orti botanici fiorivano nelle principali città italiane con una finalità didattica e terapeutica. Oltre all’orto pisano, fondato da Luca Ghini nel 1543, particolarmente celebre era quello di Padova, istituito due anni dopo. A Roma, la volontà di incrementare l’orto e di affidarne la direzione al M. si inserisce nel quadro di una politica pontificia favorevole agli studi naturalistici, diffusa fin dalla metà del Quattrocento: nei giardini vaticani vi era un’area destinata alla coltivazione dei semplici almeno dal pontificato di Niccolò V. Tra Quattro e Cinquecento la città era stata teatro della riscoperta di alcune importanti opere antiche di storia naturale, edite e tradotte con il sostegno di vari pontefici. Tra i medici pontifici e cardinalizi numerose furono le personalità interessate allo studio della natura e in particolare Ippolito Salviani e Andrea Bacci. In alcuni casi le cariche di custode dell’orto e di lettore dei semplici potevano coincidere.
Il M. cominciò a radunare una collezione di fossili e metalli che fu poi collocata in un gabinetto nei pressi dell’orto. È difficile ricostruirne esattamente la genesi, ma l’intento del M. di costituire una raccolta mineralogica rimanda almeno alla seconda metà degli anni Settanta (Instruttione, c. a1r). Secondo Giovanni Maria Lancisi, negli stessi anni il M. cominciò a lavorare a un’opera illustrata che doveva essere un trattato su pietre e minerali e un catalogo delle collezioni. Essa avrebbe anche dovuto costituire la risposta «italica» al De re metallica di Giorgio Agricola, ma vide la luce solo più di un secolo dopo (Metallotheca. Opus posthumum, Romae 1717).
La collezione del M. richiama altre raccolte di naturalia coeve, come quelle di Francesco Calzolari a Verona, Ulisse Aldrovandi a Bologna e Ferrante Imperato a Napoli, ma presenta la specificità di essere una «metallotheca». Stando all’incisione che apre l’opera, gli esemplari erano divisi in 19 armadi numerati e corredati da un’iscrizione che ne dichiarava il contenuto (I. Terrae, II. Sal et nitrum, III. Allumina, IV. Succi acres, V. Succi pingues, VI. Marina, VII. Lapides terrae similes, VIII. Lapides animalibus innati, IX. Lapides idiomorphoi, X. Saxa et lapidefacta, XI. Marmora, XII. Silices et fluores, XIII. Gemmae, XIV. Aurum et argentum, XV. Aes, XVI. Plumbum et stimmi, XVII. Ferrum et somona, XVIII. Affinia metallis sponte nascentia, XIX. Affinia metallis qua in fornacibus existunt). Tale disposizione è parzialmente ricavata dalla prima collezione mineralogica europea, quella di Johannes Kentmann.
Negli anni del pontificato di GregorioXIII l’orto e la metalloteca furono arricchiti con molti nuovi esemplari attraverso scambi con altri naturalisti (tra cui Aldrovandi, Imperato, Aurelio Stagno, Marsilio Cagnati), grazie ai doni di alti prelati, ma anche utilizzando le reti diplomatiche dello Stato pontificio. Il M. si fece spedire alcuni rari semi dalla penisola iberica e soprattutto dal Nuovo Mondo dai legati pontifici in Spagna e Portogallo. Alcune descrizioni dell’orto e della metalloteca ai tempi di Gregorio XIII si trovano tra le carte dell’Aldrovandi (Bologna, Biblioteca universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, vol. 143, t. III, cc. 140r-143v).
Dopo la morte di Gregorio XIII, l’ormai celebre M. ricevette un importante riconoscimento: nel 1585 dal granduca Francesco I fu ascritto insieme con il fratello nel novero dei patrizi della città di Firenze.
In quel periodo continuava a lavorare nel palazzo apostolico concentrandosi in particolare sulle sue collezioni. Nel primo ruolo della famiglia di Sisto V (Biblioteca apost. Vaticana, Ruoli, 65, c. 4r), del 1587, egli è incluso nel novero degli archiatri, ma con la funzione specifica di «semplicista». L’anno seguente, però, la salute già precaria del M., che era pletorico e soffriva di calcolosi, si aggravò obbligandolo a lasciare la cura dell’orto al medico e naturalista Castore Durante, dall’anno precedente lettore dei semplici dell’Università. Mantenne invece la direzione della metalloteca, che continuò ad accrescere. Un tale ampliamento ne rese necessario il trasloco in uno degli edifici adiacenti al cortile del Belvedere, nei locali attigui alla galleria delle statue greche e romane che facevano parte della collezione in quanto «marmi». Contrariamente all’immagine idealizzata fornita dall’incisione che apre il catalogo, la collezione era dunque disposta in diverse sale (Metallotheca, p. 314).
In quanto naturalista di corte, presso il pontefice il M. godeva di una grandissima considerazione, che gli valse diversi riconoscimenti, tra cui la nomina a protonotario apostolico. Nel 1587 fu designato come maggiordomo del cardinale Ippolito Aldobrandini, futuro Clemente VIII, durante il viaggio in Polonia compiuto per negoziare la pace tra Sigismondo III e Massimiliano arciduca d’Austria. Il viaggio fu per il M. occasione per raccogliere piante e minerali per fare «designare molte pietre di figura determinata per far stampare» (Bologna, Biblioteca universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, vol. 21, t. IV, c. 169r). Durante quel soggiorno portò anche a compimento l’opera De gli obelischi di Roma (Roma, D. Basa, 1589), commissionatagli da Sisto V per commemorare il reperimento e l’estrazione dell’obelisco di Costanzo e di quello di Augusto ritrovati nell’area del circo Massimo e nel 1587 collocati rispettivamente nelle piazze di S. Giovanni in Laterano e del Popolo. Secondo Lanciani (p. 148), il M. ebbe una parte attiva in questa impresa, ricostruendo la frammentaria iscrizione in geroglifici che si trovava sulla base di uno dei due obelischi.
L’opera, dedicata a Sisto V, costituisce una raccolta di varie notizie sugli obelischi reperite negli scritti degli autori antichi. Dopo una sezione generale in cui sono presentate le loro principali caratteristiche, le modalità di costruzione e l’uso che ne veniva fatto nell’antico Egitto, offre una sommaria descrizione dei geroglifici che ne componevano le iscrizioni. Si sofferma quindi su alcuni obelischi particolari, sulla traslazione di alcuni di essi nella Roma imperiale e sulla loro sorte in età barbarica; tratta inoltre della loro nuova fortuna, fornendo una meticolosa descrizione dei quattro obelischi sistini (oltre a quelli citati, l’obelisco di S. Pietro e quello di S. Maria Maggiore). Il letterato Latino Latini denunciò una serie di imprecisioni contenute nell’opera; il M. rispose con alcune Considerazioni sopra gli avvertimenti del sig. Latino Latini… (Roma, D. Basa, 1590), nelle quali oltre a difendere le sue posizioni inserì altre considerazioni sulla natura dei materiali di cui erano composti gli obelischi e una digressione sulle possibilità contemporanee di «intendere le lettere hieroglifiche» (pp. 115-148).
La familiarità acquisita con il cardinale Aldobrandini durante il viaggio in Polonia valse al M. la possibilità di restare a palazzo anche quando questi divenne pontefice (30 genn. 1592). Nonostante un sensibile peggioramento delle condizioni di salute, tra il 1591 e il 1593, il M. continuò a occuparsi delle sue collezioni e assunse nuovamente la carica di medico pontificio. Da Clemente VIII ricevette anche vari incarichi diplomatici che lo riportarono in Toscana e diverse onorificenze, tra cui il titolo di commendatore di S. Spirito in Saxia.
Pur non entrando mai a far parte del Collegio medico cittadino, né del corpo dei professori dello Studium Urbis, per la sua posizione di «naturalista pontificio» fu una personalità di spicco nell’ambiente culturale romano. I suoi legami con numerosi letterati attivi nella città sono testimoniati dai molti componimenti poetici che corredano le sue opere, composti da personalità quali Achille Stazio, Benedetto Arias Montano, Marc-Antoine Muret e Silvio Antoniano. Tra i medici intrattenne rapporti di amicizia con M. Cagnati, il quale lo definì il più grande esperto nell’ars medica, nella res herbaria e nello studio dei metallica, affermando di aver visitato la metalloteca e di essere in possesso di uno degli esemplari manoscritti dell’opera (M. Cagnati, Variarum observationum libri quatuor, Romae 1587, pp. 236, 265). Il M. è ricordato da C. Durante nell’Herbario novo nell’elenco di coloro che gli fornirono consigli per la compilazione della sua opera (Romae 1585, c. 5r). Al di là della cerchia cittadina, numerosi furono i medici e i naturalisti con i quali entrò in relazione. Gli scambi scientifici contribuirono considerevolmente all’accrescimento delle sue collezioni. Oltre al legame particolare con A. Cesalpino, che grazie all’intercessione del M. fu chiamato a Roma da Clemente VIII nel 1592 come lettore dello Studium Urbis e archiatra pontificio, fu legato personalmente e scientificamente anche a U. Aldrovandi, come è attestato dalle otto lettere conservate nell’epistolario aldrovandesco e da una lettera di questo al medico Girolamo Mercuriale. Durante un viaggio a Roma il M. gli «mostrò minutamente […] tutte le cose minerali della sua metalloteca, e parimenti tutte le piante del giardino» (Bologna, Biblioteca universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, vol. 21, t. IV, c. 169r). Il «museo metallico» del M. oltre a essere stato – secondo le parole del suo ideatore – uno dei principali centri di attrazione della città (Metallotheca, p. LI) doveva dunque costituire anche un luogo di studio, di confronto e di dibattito.
L’interesse per la storia naturale, le sue collezioni e le attività in Vaticano non assorbirono il M. in maniera esclusiva. Nel corso del suo lungo periodo romano egli entrò in contatto con gli ambienti oratoriani e divenne devoto penitente e amico di Filippo Neri nonché medico suo e della Congregazione.
Numerose sono le testimonianze di questa frequentazione conservate negli atti del processo di beatificazione di Filippo Neri e nella corrispondenza degli oratoriani. Pur non avendone mai fatto parte, il M. partecipò attivamente alla vita della Congregazione, prendendo decisioni specifiche sulle nomine interne o svolgendo le funzioni di intermediario tra la Congregazione e il palazzo apostolico. Prestò le sue cure a Filippo in diverse occasioni e in particolare nel 1579, nel 1585 e nel 1587. Altre volte, invece, fu lui a essere testimone attonito di guarigioni operate da Filippo, al quale pure si rivolse durante gli attacchi più gravi della sua calcolosi, come accadde tra il 1581 e il 1582. Nel 1590, nuovamente in preda a un forte attacco, il M. fu ricoverato nella casa professa. In quell’occasione, secondo un testimone del processo, Filippo predisse la morte del M., attribuendola allo studio eccessivo che gli richiedeva la Metallotheca. L’amicizia tra i due è attestata anche da uno scambio di missive nel 1591, quando il M. si era recato in convalescenza a San Miniato (Roma, Archivio della Congregazione dell’Oratorio, B.III, 3, cc. 69-70; Lettere e rime di s. Filippo Neri, pp. 91-93.). Nell’elenco dei libri di Filippo risultano le due opere del M. sugli obelischi, la prima delle quali era presente anche nella biblioteca dell’oratoriano Cesare Baronio.
Il M. morì a Roma il 25 giugno 1593.
In punto di morte il M. fu assistito da Cesare Baronio e da Filippo Neri, il quale gli diede l’estrema unzione. Medico della sua ultima malattia fu Cesalpino, che effettuò anche l’autopsia. Fu sepolto il 30 giugno nella chiesa della Vallicella, nella cappella dei Mezzabarba, e lasciò le sue sostanze alla Ss. Trinità dei Pellegrini. La collezione, invece, fu abbandonata e lentamente saccheggiata.
Il M. lasciò incompiuta la sua opera principale, la Metallotheca: riuscì a descrivere interamente solo il contenuto di 9 dei 19 armadi del Museo e del decimo lasciò solo alcuni frammenti. Sovrintese inoltre alla realizzazione di 117 tavole in rame, la cui quasi totalità fu opera dall’incisore tedesco Anton Eisenhoit prima del 1581, raffiguranti i diversi esemplari contenuti nella collezione e i procedimenti di estrazione. Per ogni specimen è fornita la definizione e vengono descritte le caratteristiche fisiche, la provenienza, le proprietà e il possibile uso. Numerosi sono gli autori ai quali il M. fa riferimento: tra quelli antichi, oltre ad Aristotele, al quale è accordato un posto particolare, numerosi filosofi naturali, ma anche storici e poeti. Tra le fonti coeve diversi sono i medici e i naturalisti, e in particolare Agricola, che costituisce la sua principale fonte, Cesalpino, Girolamo Cardano, Aldrovandi, Garcia da Orta, Pier Andrea Mattioli, Andrés Laguna e alcuni esploratori, come Vasco de Gama e Amerigo Vespucci. Nella trattazione il M. rimane fondamentalmente fedele alle teorie aristoteliche. Ciò è particolarmente evidente nei passaggi in cui cita la genesi dei minerali per condensazione o l’origine dei fossili, considerati pietre, o nel rifiuto del concetto di erosione per dissoluzione che era invece stato formulato da autori più antichi. Al di là del conservatorismo, di cui è stato a più riprese tacciato dai posteri, appare però significativo lo sforzo di radunare il più grande numero possibile di tipi rocciosi e minerari provenienti dal Vecchio e dal Nuovo Mondo, di offrirne una chiara sistematizzazione e di metterli a disposizione del pubblico attraverso il Museo e l’opera a stampa.
Dopo la sua morte gli eredi e gli amici prossimi tentarono di dare alle stampe il manoscritto e le tavole, ma non ottennero il supporto di Clemente VIII (Bologna, Biblioteca universitaria, Fondo Ulisse Aldrovandi, vol. 21, t. IV, c. 169r). Nonostante il desiderio di molti uomini di scienza di vedere l’opera pubblicata, il manoscritto giacque nascosto, all’interno del Museo secondo alcuni e in Toscana secondo altri, fino al 1665, quando fu ritrovato dal letterato e scienziato fiorentino Carlo Dati, che lo acquistò, ne consentì la consultazione ad alcuni studiosi tra cui Niels Stensen e tentò senza successo di darlo alle stampe (Metallotheca, pp. XXXIV s.). Il manoscritto e le tavole passarono poi agli eredi di Dati, fin quando l’archiatra pontificio G.M. Lancisi, col sostegno di Clemente XI, li acquistò e ne curò la pubblicazione insieme con Pietro Assaliti, il quale corredò il testo di numerose note. L’opera vide la luce nel 1717 con un ricco paratesto in cui venivano ricostruite le circostanze di composizione e di pubblicazione e veniva offerta al lettore una prima biografia del M. redatta da Carlo Magelli (ibid., pp. XXI-XXVI). Alcune delle tavole di Eisenhoit non erano state rinvenute e dunque Lancisi le fece incidere a partire dai disegni conservati nel manoscritto da Louis Goumier. I rami mancanti furono poi ritrovati e da essi furono tirate nuove tavole pubblicate nell’appendice di una seconda edizione dell’opera (Appendix ad Metallothecam Vaticanam, Romae 1719). La pubblicazione della Metallotheca si inserisce in un processo di riscoperta dei classici perduti della medicina romana cinquecentesca, che nel 1713 portò Lancisi a curare l’edizione delle inedite Tabulae anatomicae di Bartolomeo Eustachi. Al momento della sua apparizione, l’opera del M. suscitò reazioni contrastanti. Se alcuni scienziati, prevalentemente italiani, celebrarono la recente riscoperta, Oltralpe furono pubblicate dure recensioni nelle quali si apprezzava la qualità delle immagini, ma si criticava l’arretratezza del testo.
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E. Andretta