CAPUTO, Michele Maria
Nato a Nardò (Lecce) il 3 genn. 1808 da Pietro e da Francesca Lezzi, dopo aver compiuto gli studi nel seminario locale, vestì nel novembre 1827 l'abito dell'Ordine dei predicatori, e dal dicembre di quell'anno fece il noviziato a Taranto; alla fine di questo emise la professione solenne. In seguito frequentò il collegio teologico di Trani, conseguendovi la laurea. Ritornato a Nardò, fu ordinato sacerdote l'8 genn. 1832 e divenne professore di umane lettere nell'archiginnasio; quindi per molti anni insegnò filosofia e teologia agli studenti del suo Ordine. Ottenuta il 25 ott. 1835 la licenza di amministrare la penitenza, fu confessore delle monache di S. Clara e del conservatorio di Nardò; inoltre fu predicatore generale della diocesi e promotore degli esercizi spirituali, finché l'11 apr. 1841 venne nominato esaminatore prosinodale. Nel suo Ordine, dopo aver esercitato per vari anni l'ufficio di priore conventuale a Taranto, fu eletto nel 1845 provinciale di Puglia: in tale carica "si adoperò instancabilmente per l'osservanza regolare del suo Ordine, dando incessantemente prove del suo zelo ecclesiastico, e della sua irreprensibile condotta" (Proc. Dat. 214. f. 433v).
Ritiratosi a Nardò al termine del mandato, si dedicò agli studi, conseguendo il 25 giugno 1852 il titolo di maestro di teologia. Il 27 sett. 1852 il C. fu nominato vescovo di Oppido Mamertina e l'8 ottobre venne consacrato a Roma; ebbe anche i titoli di prelato domestico e di assistente al soglio pontificio: voci malevole insinuarono che il suo servilismo verso il governo borbonico, in favore del quale avrebbe fatto dello spionaggio politico, fosse stato la causa determinante di tale promozione.
La sua azione pastorale nella diocesi, dove aveva fatto il suo ingresso il 20 febbr. 1851, fu improntata a una rigida severità morale nei confronti di un clero tradizionalmente insofferente di ogni disciplina; ma fu soprattutto sul terreno patrimoniale che il C. fu intransigente, nel rivendicare i diritti della mensa episcopale su beni e rendite che da anni erano ormai appannaggio di privati e comunità religiose: perciò egli non esitò ad adire ripettitamente i tribunali civili, aprendo una lunga serie di liti giudiziarie e provocando il risentimento dei maggiorenti locali.
Nel conflitto con questi il C. uscì dapprima vincitore: il giudice regio Francesco Saverio Caiazzo fu trasferito; il sindaco e i capi della guardia urbana vennero rimossi; alcuni proprietari, avversari del vescovo, furono confinati a Palmi (1857). Ma in seguito alle accuse sempre più gravi che venivano lanciate contro di lui e fatte pervenire alle superiori autorità civili e religiose (tra le altre vi era quella che egli fosse spesso assente da Oppido per ritirarsi nel "piccolo villaggio di Piminoro, dove mantiene inonesta relazione con la donna, che tiene in casa quel Curato": cfr. De Giorgio, 1964, p. 121), ad evitare scandali, su suggerimento del governo napoletano, la S. Sede dispose il trasferimento del C. alla diocesi di Ariano Irpino (27 sett. 1858). La decisione di Roma, che manteneva al C. il governo pastorale, teneva conto anche degli elementi positivi della sua attività: egli aveva fondato nel 1854 i Monti frumentario e di pietà; aveva subito restaurato il seminario dotandolo di discreti insegnanti, tra cui Alessandro Novelli, poi primo, ma pessimo, traduttore italiano delle opere di Hegel; soprattutto si era mostrato molto devoto al papa, effettuando la visita adsacralimina nel dicembre 1854 (l'8 dicembre aveva presenziato alla proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione) e inviando sollecitamente il 3 ott. 1855 alla congregazione del Concilio la prima (e unica) relazione sullo stato della diocesi.
Al momento della nomina alla nuova diocesi, il C., che, acquistando anche il titolo baronale di Sant'Eleuterio, manteneva l'amministrazione apostolica della chiesa di Oppido, pubblicava a Napoli una lettera pastorale in cui, dopo aver fatto una breve apologia del proprio operato precedente, invitava il clero a scrupolosa e zelante difesa non solo della Chiesa cattolica e del papa (p. 13: "qui est Pater patrum, episcopus universalis Ecclesiae, caput omnium episcoporum, centrum ecclesiasticae unitatis, qui gaudet honoris, iurisdictionisque primatu, et a solis hortu usque ad occasum auctoritatem spiritualem, sine limite exercet"), ma anche del sovrano Ferdinando II, cui egli parimenti non risparmiava iperboliche lodi.
Già considerato retrivo dai liberali, il C. si trovò in una situazione assai difficile quando, all'approssimarsi delle truppe garibaldine, un'insurrezione contadina manovrata dai reazionari sfociò nell'assassinio di una trentina di proprietari liberali. Mentre il fratello Giuseppe veniva arrestato dai garibaldini del Türr prontamente accorsi ad Ariano, egli si rifugiava a Napoli, ove chiese la protezione di Giuseppe Ricciardi. Questi, dopo avergli fatto intendere che l'unica via di salvezza sarebbe stata per lui schierarsi a favore del nuovo regime, il 17 sett. 1860 scrisse al Bertani che il giorno seguente gli avrebbe condotto il C., "il quale, primo fra tutti i vescovi del Regno, desidera fare atto di adesione al nuovo ordine di cose". Ciò avvenne puntualmente e il 20 sett. 1860 il Giornale officiale di Napoli pubblicò con notevole rilievo l'atto di adesione del C., datato 18 settembre.
Secondo le Memorie del Ricciardi, all'incontro di quel giorno sarebbe stato presente anche Garibaldi, il quale non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione per fare al vescovo d'Ariano "un predicozzo dei più saporiti", ricordandogli "i veri apostoli, i banditori sinceri delle verità evangeliche, essere non i preti, non il sommo pontefice, ma i liberali", mentre il C. che "l'udiva con viso compunto... gittandosi a' piedi del generale abbracciavane le ginocchia" (Carteggi di C. Cavour..., V, pp. 665 s.). La scena, verosimile se posta in relazione con il carattere dei due personaggi, non può però essersi svolta il 19 settembre, poiché quel giorno Garibaldi era assente da Napoli a causa di un rapido viaggio a Palermo; perciò, o si verificò qualche giorno dopo l'atto di adesione del C. nelle mani del Dertani, o è interamente frutto della fantasia del Ricciardi.
Poco tempo dopo il C. venne nominato cappellano maggiore dal luogotenente L. C. Farini e in tale qualità inviò una lettera pastorale "all'universo clero palatino e regio" (20 dic. 1860): in essa, dopo aver criticato la chiusa istruzione dei seminari che abituava "a comprimere la mente nella degradante contemplazione dei soli doveri", impedendo ai futuri sacerdoti di apprezzare il dono divino delle libere istituzioni politiche, invitava il clero ad accogliere "dalla giustizia e dalla Provvidenza di Dio questo Vittorio Emanuele, che le universe italiane genti han conclamato loro Re; questo novello Giuda Maccabeo, che, postosi a capo della Nazione, dedit se ut liberaret populum suum et acquireret sibi nomen aeternum" (la pastorale è ripubblicata da De Giorgio, 1965, pp. 185-188).
Iniziarono allora contro il C. le violente reazioni degli ambienti cattolici non sufficientemente bilanciate dal favore delle autorità governative locali, tanto che su sollecitazione del Farini, fu costretto a intervenire lo stesso Cavour per indurre il recalcitrante principe di Lequile, sovrintendente ai regi palazzi di Napoli, a permettere che il vescovo d'Ariano esercitasse "in via provvisoria" le funzioni di cappellano maggiore (9 genn. 1861). Frattanto, poco dopo che il giornale cattolico torinese l'Armonia (13 gennaio 1861) ebbe rinfacciato al C. una sua recente dichiarazione in favore del potere temporale dei papi (contenuta in una lettera violentemente controrivoluzionaria inviata a Pio IX nel gennaio 1860), si mosse la congregazione del Concilio con un monitorio (28 febbr. 1861) che definiva la sua pastorale del 20 dicembre "ridondante di errori, di contraddizioni e massime ingannatrici, che se farebbero torto ad ogni uomo onesto, ad un vescovo imprimono un marchio di biasimo, di riprovazione, di esecrazione" (Di Domenico, p. 220) e gli intimava di lasciare l'incarico di cappellano maggiore usurpato al legittimo titolare Pietro Naselli, arcivescovo di Nicosia, rientrando nella sede di Ariano o presentandosi a Roma. Ma il C., benché lasciato dal governo italiano senza alcun aiuto finanziario (il 1º apr. 1861 scriveva al Cavour: "mi si riconosca lo assegnamento dovutomi qual Cappellano Maggiore, e con ciò circondato di splendore, fisserò gli sguardi riverenti delle moltitudini, otterrò la ossequiosa obbedienza del clero, e giganteggerà la credenza d'essere la mia causa buona perché fortunata": cfr. Liberazionedel Mezzogiorno, IV, p. 423) e morale, rimase fermo sulle sue posizioni respingendo anche le sollecitazioni dell'arcivescovo di Napoli, Sisto Riario Sforza. Il 17 sett. 1861 fu perciò scomunicato dalla S. Sede. Il 4 genn. 1862 fece un ulteriore passo avanti sulla via della dissidenza aderendo con una pubblica lettera alla Società emancipatrice del clero, fondata a Napoli dal domenicano L. Prota Giurleo (che assumerà un carattere sempre più spiccatamente antiromano) e dichiarando di accettare la presidenza di tutte le associazioni clerico-liberali italiane: cosicché pur essendo egli alieno forse, incapace certo, di teorizzare l'opportunità di formare un clero o di costituire una Chiesa cattolica nazionale, per la sua qualità di vescovo assumeva preminente posizione di responsabilità nel movimento antipapale e si attirava i più accesi attacchi dei clericali.
Quando, colto da rapida malattia, il C. morì a Napoli il 6 sett. 1862, la Civiltà cattolica poté scrivere che "fu il solo che tra i vescovi del mondo la Chiesa avesse dovuto piangere come degenere dalla sublime unanimità dell'episcopato cattolico, (XIII [1862], 1, pp. 758 s.).
Fonti e Bibl.: Arch. Segr. Vat., Proc. Dat. 214, ff. 431-445; Ibid., Congr. del Concilio,Rel. ad limina,Oppiden.; Milano, Museo del Risorg., Carte Bertani, cartella 48, plico VI, n. 55 (lettera di G. Ricciardi del 17 Sett. 1860); La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia. Carteggi di Camillo Cavour..., Bologna 1954, IV, pp. 180, 192, 386, 406, 423 s.; V, pp. 265 s., 284; F. Di Domenico, Ilcard. Sisto Riario Sforza, Napoli 1905, pp. 212, 217-226, 228; E. Federici, Sisto Riario Sforza cardinale di S.R.C. arcivescovo di Napoli 1810-1877, Roma 1945, pp. 256 s.; B. Croce, Aneddoti di varia letter., IV, Bari 1954, p. 275; M. L. Trebiliani, Indicazioni su alcuni gruppi del clero nazionale ital. nel decennio1860-70, in Rass. storica del Risorg., XLIII (1956), p. 567 n. 4; Celso [C Falconi], I cattolici napol., in Il Mondo, 3 sett. 1962; G. Russo, Il cardinale Sisto Riario Sforza e l'unità d'Italia, Napoli 1962, pp. 33 s., 57, 113 s.; Id., Il discorso di fra' Giovanni Pantaleo a Napoli il13 sett. 1860, in Nuova riv. storica, XLVI (1962), pp. 336-343; G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Napoli 1964, I, pp. 403, 455; II, pp. 18, 212-215, 348, 354, 369, 405, 407 s., 419, 461; R. Aubert, Il pontificato di Pio IX, Torino 1964, pp. 161, 780; G. De Giorgio, Fra' M.M.C. vescovo garibaldino, in Historica, XVII (1964), pp. 107-122; XVIII (1965), pp. 169-197; G. Russo, La situazione napol. nel periodo delle luogotenenze ed il secondo esilio del card. Sisto Riario Sforza, in Asprenas, XII (1965), pp. 230, 236, 256, 295.