GIACCHI, Michele
Figlio primogenito di Biagio Maria e Maria Cristina Tiberio, nacque a Sepino, in Molise, il 10 apr. 1805 in una famiglia di proprietari e liberi professionisti che era al centro della vita pubblica locale. Il padre, che esercitava la professione medica, durante il periodo murattiano aveva ricoperto l'incarico di sindaco (1810-12) e dopo la Restaurazione si era affiliato alla carboneria, fondando la vendita sepinese. In tale contesto il G. ricevette la prima educazione, completando poi la propria formazione umanistica nel seminario della vicina Boiano.
Recatosi a Napoli nel 1821 per gli studi universitari, si laureò in legge e iniziò la pratica forense, legandosi subito a L. Romano e affermandosi nel foro della capitale per la speciale competenza nelle questioni demaniali. Nel 1836 sposò la casertana Giuseppina Maielli, figlia di un consigliere d'intendenza imparentata per via materna coi marchesi Isastia, e da lei ebbe cinque figli.
Avvicinatosi agli ambienti liberali sia per le radici familiari, sia per le amicizie napoletane, partecipò dapprima alle cospirazioni del 1847, quindi ai moti del 1848. In coincidenza con la disponibilità palesata da Ferdinando II per il rinnovamento politico, all'inizio del 1848 il G. aderì al Circolo costituzionale presieduto dal collega avvocato A. De Honestis, che aveva sede in palazzo Gravina. Coinvolto nei fatti del 15 maggio che videro sfumare l'effimera intesa fra il sovrano e i liberali, riuscì a sottrarsi alle più gravi conseguenze grazie all'autorevole intercessione del generale D. Lecca, di cui era avvocato di fiducia. L'alto ufficiale borbonico ottenne che gli fosse imposto soltanto un breve periodo di confino nella cittadina natale.
Tale vicenda non interruppe l'attività politica del G. che, eletto deputato per il distretto di Campobasso nella tornata suppletiva dell'ottobre 1848 con 689 voti su 1379 votanti, partecipò all'ultima sessione parlamentare (febbraio-marzo 1849) prima che fosse definitivamente chiusa la stagione costituzionale. Gli appelli nominali registrano il suo voto favorevole dapprima alla presa in considerazione (12 febbraio), quindi alla formulazione (3 marzo) dell'indirizzo al re contro il ministero, che fu approvato con 79 sì e 23 no.
L'elezione a deputato e questa ulteriore presa di posizione comportarono l'inclusione del G. nella lista degli "attendibili" per tutto il decennio successivo. Tornato alla professione legale, fu sottoposto a stretta vigilanza in tutti i suoi movimenti, sia nella capitale, sia nei periodici soggiorni nella natia Sepino, dove si recava per motivi familiari ma anche per tenere vivi i contatti clandestini. Ragioni di interesse lo conducevano di tanto in tanto, per la riscossione delle rendite, a Paduli dove aveva acquistato un fondo dai duchi di Sangro. Era peraltro frequente che gli venisse impartito l'ordine di allontanarsi da Napoli e di fare ritorno in patria, anche se poi ne era presto richiamato. Nel novembre 1853 dovette ricorrere ancora una volta alla protezione del generale Lecca perché gli fosse revocato un nuovo provvedimento di confino. Nell'ottobre 1857 subì, sotto l'accusa non provata di ospitare clandestinamente alcuni suoi compaesani, una perquisizione domiciliare da cui emersero elementi che confermavano i sospetti che proseguisse nella sua attività cospirativa.
L'antica amicizia con il Romano gli valse un ruolo di primo piano nell'atto finale del Regno delle Due Sicilie e nella successiva transizione, senz'altro la vicenda principale della sua biografia. Nominato direttore del ministero dell'Interno e della Polizia il 16 luglio 1860, il G. collaborò al rinnovamento dei quadri dell'amministrazione civile e alla preparazione delle elezioni, che il richiamo in vigore della costituzione del 1848 avrebbe comportato, nonché, più in generale, alla strategia politica dello stesso Romano, di cui era alle dirette dipendenze. Il 25 luglio lamentò in una circolare agli intendenti la lentezza con cui si formava la guardia nazionale, che avrebbe dovuto "salvare il paese dall'anarchia" (Saladino). Ebbe cura, in primo luogo, di controllare gli ambienti reazionari, e in particolare i vescovi, sul cui comportamento avverso al "nuovo ordine di cose" presentò una relazione al Consiglio dei ministri, chiedendo l'allontanamento di alcuni di essi (Scirocco). Inoltre, invitò alla calma gli ambienti patriottici, sconsigliando l'organizzazione di un moto napoletano, che pure era stato sollecitato da Torino al Comitato dell'ordine di cui S. Spaventa aveva assunto la direzione effettiva.
Nel clima concitato di quei giorni, il G., dopo aver provveduto a mettere in salvo la famiglia a Sepino, si era procurato un passaporto britannico e uno chèque di 2000 sterline, per essere pronto a fuggire nel caso che gli eventi avessero preso una piega sfavorevole. Fu lui a firmare la circolare del 29 ag. 1860, indirizzata a tutti gli intendenti e sottintendenti, che può in certo modo considerarsi la presa d'atto dello sfacelo della struttura statale: vi si faceva infatti appello, per "tener testa a' tristi sommovitori dei popoli contro il presente ordine di cose", a ciò che restava del vecchio sistema di potere, "i proprietari, gli uomini d'intelligenza, quei di mano ferma e risoluta, il clero illuminato", e alla guardia nazionale nella speranza che gli "agenti di governo" sapessero "suscitarla ed usarla" (De Sivo).
Il 6 sett. 1860 il G. presenziò all'udienza di congedo del ministero da Francesco II e l'indomani si recò insieme con il Romano alla stazione ferroviaria per ricevervi G. Garibaldi, contribuendo in tal modo alla pacifica transizione del governo, in cui venne peraltro confermato. Del saluto all'ultimo sovrano borbonico una circostanziata testimonianza è tramandata da R. De Cesare, che non solo poté ascoltarne il racconto dallo zio Carlo, che vi era stato presente in qualità di direttore del ministero delle Finanze, ma anche ritrovarne tracce a Sepino, fra le carte dell'archivio privato, poi purtroppo perduto, del G., il quale, in risposta alle sarcastiche espressioni di cortesia del re ("Don Michele, mi congratulo che Ella ha servito molto bene il paese"), avrebbe detto: "Ed ho la coscienza di aver servito ugualmente bene la Maestà Vostra; che se la Maestà Vostra mi avesse fatto l'onore di chiamarmi in altri momenti, ed avesse ascoltato i miei consigli, non si troverebbe nelle attuali condizioni"; e ancora: "Noi abbiamo il corto vedere di una spanna. Il futuro lo sa solo Iddio. Vostra Maestà parta in pace e sia pur sicura che questi suoi concittadini non dimenticheranno che la Maestà Vostra, col suo allontanarsi da Napoli, avrà risparmiato a questa città, che le diede i natali, gli orrori della guerra civile".
Consapevole di aver partecipato a un momento cruciale della storia, il G. confidava quello stesso giorno alla moglie di considerare il proprio contributo alla salvezza del paese come "il più gran titolo di nobiltà per la mia famiglia". Gli sviluppi dell'unificazione, tuttavia, non lo videro più protagonista. Sotto la dittatura garibaldina, poco dopo l'allontanamento del Romano, anch'egli fu sostituito alla direzione del ministero dell'Interno (8 ottobre). Nel successivo periodo luogotenenziale ricevette la nomina a vicepresidente della Gran Corte dei conti (dicembre 1860), ma si tenne lontano dalla vita politica, nonostante il ritorno al potere dello stesso Romano. Furono piuttosto i suoi fratelli Nicola e Tito, entrambi magistrati, a impegnarvisi, il primo riuscendo deputato per il collegio di Morcone e il secondo consigliere provinciale per il collegio di Sepino (1861).
L'esperienza acquisita nelle cause demaniali consentì al G. di assolvere a partire dal 5 genn. 1861 l'incarico di commissario ripartitore per la provincia di Terra di Lavoro (che ben conosceva, essendone originaria la moglie). La quotizzazione si rivelò però assai complessa, come in tutte le province, per la scarsa documentazione disponibile al fine di accertare i rispettivi diritti. Il G. diede conto del gran lavoro svolto, che aveva portato all'individuazione di circa mille vertenze, in una relazione conclusiva che in seguito pubblicò, dal momento che la questione demaniale non aveva perduto di attualità.
Nel 1862 divenne consigliere della Corte dei conti, riunificata a livello nazionale, in cui restò sino al congedo (1890) con il grado di presidente di sezione. Tale incarico gli consentì, nel 1876, l'ingresso al Senato, all'indomani della rivoluzione parlamentare che aveva segnato, con l'avvento al potere della Sinistra, un più rilevante ruolo della deputazione meridionale, cui il G. era evidentemente rimasto legato. Fu membro della commissione per le Finanze (1876-78) e, probabilmente grazie alla sua posizione, ciascuno dei tre figli maschi si avviò a una brillante carriera pubblica: il primo nel mondo bancario, il secondo nell'esercito, il terzo nella diplomazia. Meritato il conferimento del titolo di cavaliere dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e di quello della Corona d'Italia, con motu proprio del 28 maggio 1890 fu creato conte, con diritto di trasmissione ereditaria. Benché egli avesse presentato un'istanza in cui faceva riferimento alla nobilitazione della sua famiglia per via matrimoniale, il titolo comitale gli fu piuttosto riconosciuto in remunerazione "dei meriti e dei servigi insigni resi alla patria" (Arch. centr. dello Stato).
Morì a Roma il 24 dic. 1892 e fu commemorato in Senato, quattro giorni dopo, dal presidente D. Farini, dai colleghi G. Finali, F. Sprovieri, A. Calenda di Tavani, nonché dal ministro del Tesoro B. Grimaldi.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Consulta araldica, b. 262, f. 1868; Arch. di Stato di Napoli, Alta polizia, b. 17; Prefettura di Polizia, bb. 1640 II, 1766 II, 1883, 1904, 1993; Ministero di Polizia. Gabinetto, b. 1430; G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, II, Trieste 1868, p. 172; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Torino 1896, p. 510; R. De Cesare, La fine di un Regno, Città di Castello 1900, passim; G.B. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, II, Napoli 1915, pp. 368 s.; A. Saladino, Il tramonto di una capitale. Napoli e la Campania nella crisi finale della monarchia borbonica, Napoli 1961, p. 61; N. Ruotolo, Uomini illustri di Sepino, Matera 1971, pp. 63-86; A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione (1860-61), Napoli 1981, p. 16; C. Lodolini Tupputi, Il Parlamento napoletano del 1848-1849. Storia dell'istituto e inventario dell'archivio, Roma 1992, pp. 166, 197, 199.