DEL GIOGANTE, Michele
Nacque a Firenze nel 1387 da Nofri di Michele di Maso Del Giogante (Mato riporta F. Flamini; ma Maso è scritto all'inizio dell'Arte della memoria, autografo, e Maso accetta O. Bacci, editore del trattatello; il cognome Del Giogante è noto a Firenze fin dal 1358, in seguito spesso normalizzato in Del Gigante); fu soprannominato il Forte, secondo quanto afferma egli stesso in più passi delle sue opere. Di lui sappiamo che sposò una monna Cosa, dalla quale nel 1424 ebbe un figlio, Piero, e che abitò in S. Lorenzo, in una casa descritta minutamente nella sua operetta mnemonica. I documenti del tempo lo indicano "computista", incaricato cioè di tenere e curare la contabilità di aziende e "famiglie" (nel senso albertiano della parola); e "ragioniere" il D. si definisce all'inizio del trattatello citato. Tale attività, che il Flamini ipotizza tradizionale nella sua famiglia e che fu continuata dal figlio, lo inserì nel vivo del mondo commerciale fiorentino, offrendogli l'occasione di stringere rapporti, tra gli altri, con Cosimo de' Medici.
Con lui, anzi, e con tutta la sua famiglia venne, col tempo, in grande familiarità e la sua presenza presso i Medici, assidua e premurosa, ne fece, per usare le parole del Flamini, un vero e proprio "poeta di corte". Il carteggio con i Medici, la fonte più importante sulla sua vita, ha per oggetto, di volta in volta, dichiarazioni di fedeltà, raccomandazioni di conoscenti, richieste di piccoli favori, consigli (e anche paternali), offerte di liriche in onore dei vari componenti la famiglia. A Cosimo, bandito da Firenze nell'ottobre 1433, scrive: "Non veggio dove far principio possa, / scrivere in prosa o 'n versi quel ch'i' voglio, / se non che vostro sono in carne e 'n ossa (Riccard. 2735, f. 171r): il D. non poteva sapere che l'anno successivo Rinaldo degli Albizzi, capo della fazione antimedicea, sarebbe stato a sua volta bandito e Cosimo avrebbe fatto rientro a Firenze, il che esclude che l'essere "vostro... in carne e 'n ossa" e le altre numerose dichiarazioni di fedeltà e disponibilità vadano intese come adulazioni servili e interessate. Nell'aprile del 1450 il D. donò a Piero de' Medici, che con una rappresentanza di cittadini andava a Milano per congratularsi con Francesco Sforza dell'avvenuta conquista della città, un "quadernuccio" fatto "con grande amore". Sia che esso rappresenti un frutto spontaneo della cura del D. sia che Piero gli avesse chiesto di mettere da parte conti e bilanci e fargli un promemoria politico per l'occasione, il "quadernuccio" testimonia ancora del particolare rapporto di fiducia che intercorreva tra il compilatore e il destinatario: vi sono raccolti una serie di documenti di vario genere, atti a rendere più facile la missione e cioè un breve riepilogo delle gesta dello Sforza, una copia della lettera scritta dallo Sforza alla Signoria di Firenze all'indomani della conquista di Milano, testimonianze delle reazioni suscitate in Firenze dalla presa di Milano e altre relative al precedente recupero di Verona e, per concludere, il volgarizzamento di una epistola del Petrarca.
Vissuto all'ombra della famiglia Medici, allora nella sua fase ascendente, il D. assunse con il passare del tempo un ruolo ben preciso e di un certo rilievo come protettore di poeti in volgare fino alla morte, avvenuta a Firenze il 1° dic. 1463 circa un anno prima di quella del suo amico e ormai signore, Cosimo. Fu sepolto in S. Marco.
All'amicizia che il D. strinse con il musico, cantore e poeta aretino Nicolò Cieco (a torto detto di Firenze nell'Arte della memoria), quando questi si stabilì a Firenze nel 1435, sono legate alcune ottave e l'unica opera in prosa della quale ci sia giunta notizia, L'arte della memoria, il trattatello più volte richiamato, contenuto alle cc. 28a-32a del cod. Riccard. 2743 della Biblioteca Riccardiana di Firenze. Opere di tal genere non sono sconosciute né all'antichità né al Medioevo, ed il Tocco, che le ripercorre studiandone una analoga del Bruno, le ha ricondotte tutte alla retorica erenniana. Tutte si fondano sull'associazione di un nome o di un'idea nuovi ad un luogo familiare e facile da tenere a mente. L'arte della memoria si compone di due parti ben distinte: la prima è data da una serie di cento "luoghi" presi da altrettanti luoghi familiari all'autore (particolari della sua casa: "la pancha di fuori", "l'uscio di via", "la cassa grande allato a l'uscio", ecc.), raggruppati in venti "titoli" di cinque "luoghi" ciascuno, ad ognuno dei quali è associato un simbolo o "arma" ("un Re", "la spada", "le chiavi della porta" ...); i motivi delle associazioni, non sempre evidenti, vanno ricercati nelle otto regole fondamentali ("figure della memoria artificiale") che costituiscono la seconda parte dell'operetta. Esse sono: la "fighura propria", legata all'esperienza diretta di uomini e cose; la "fighura inmaginativa", utile per ricordare parole che si riferiscono a persone o cose non viste; la "fighura significativa", secondo la quale a parole o nomi complicati vanno sostituiti altri più familiari che abbiano la stessa iniziale; la "fighura accientuale" che si applica a parole divisibili in più parti, provviste ciascuna di un senso proprio; la "fighura artista", per cui ad un nome di persona o di cosa si associa la professione esercitata o nella quale ricorre; nella "figura famosa" è la fama legata ad un nome che aiuta a ricordarlo; la "figura volontaria" collega ad una parola una intenzione o la volontà di adoperarla in qualcosa; ultima è la "figura di condizione effettiva", che opera associando ad una parola o ad un fatto il suo opposto. Lo scarto tra tono e procedimento esemplificativi della prima parte e quelli teorici della seconda ha dato luogo a varie ipotesi sulla composizione del trattatello. Il Flamini (e con lui V. Rossi nel recensire La lirica toscana), chiama in causa il D. nella prima parte e maestro Nicolò nella seconda, come se fossimo in presenza di due opere diverse. Il Tocco si limita a dire che l'opera fu scritta dal D. "sulla scorta di Nicolò Cieco". Per il Bacci, che ugualmente si richiama al Cieco seppure in termini diversi dal Flamini, il D. fa "tesoro dei precetti fornitigli da Niccolò Cieco" (p. 112). L'incipit dell'opera resta sulle generali: "appresso io Michele di nofri di Michele di Maso del Giogante ragioniere mosterrò il prencipio dello 'nparare l'arte della memoria la quale mi mostrò il maestro Niccholò Ciecho da Firenze nel 1435 di dicembre, quando ci venne". La seconda parte, in definitiva, è stata effettivamente copiata da un'altra opera o almeno dettata (come farebbe credere il "mostrò"), oppure è stata elaborata dal D. su indicazioni generiche del Cieco (tenendo conto che, come osserva il Bacci, nel ms. su "mostrò è scritto, d'altro inchiostro e forse d'altra mano, mi disse": p. 118 n. 1). Il Bacci, pur conoscendo l'interpretazione del Flamini, non ne fa parola e si limita ad annotare, in margine ad un altro discorso, che il D. fu "aiutato forse e indettato da Nicolò Cieco" (p. 115). E tra questo generico "indettare" e il "trascrivere" del Flamini (p. 188) deve vedersi il rapporto tra il poeta e il ragioniere. La produzione lirica del D., costituita da sonetti (spesso caudati) ed ottave, non costituisce un corpus unitario: gran parte delle diciotto poesie di sicura attribuzione (e lo stesso sonetto a Giovanni di Cosimo presentato come anonimo dal Flamini e attribuito al D. dal Rossi) sono d'occasione (le liriche II-IV, VII, IX-XV, XVII della raccolta curata dal Lanza). Quanto all'argomento le possiamo riunire in tre gruppi: quelle che svolgono i motivi tradizionali della lirica d'amore (crudeltà della donna amata, infelicità dell'innamorato, ecc.), quelle di argomento autobiografico e le sei liriche (I, VII, VIII, X, XIII, XIV) connesse con la famiglia Medici. La I, dedicata alla moglie di Piero, Lucrezia, è una vera e propria laus familiae: chiamati in causa il "caro sposo" ed i "suoceri cari", si chiude con la terzina "e dico, tengo, termino e raccolgo / che questi quattro in terra senza pari / se fussino immortal degno sarebbe". L'VIII, sulla scorta di una lunga tradizione, canta un uccellino di Lucrezia: nella figura di questo "vago augelletto", che "arbitro avendo al potere uscir fora" dalla sua "gabbia d'oro" non tarderebbe "un'ora / di tempo a ritornare a chi [lo] prezia", è ravvisabile lo stesso poeta che, ben apprezzato nella famiglia medicea, non sente alcun bisogno di essere "sciolto alla verdura". Le venticinque ottave stese nel 1441 in occasione del Certame coronario affrontano in maniera convenzionale e con scarsa vena poetica l'argomento della gara, l'amicizia, ma sono interessanti per il riconoscimento della dignità del volgare ("... volgar idioma d'onor degno"), dei giusti sforzi e meriti dell'Alberti, promotore della competizione, e per l'affermazione esplicita, anche se non priva di parole e toni di maniera, dei propri limiti poetici, che lo porta a tenersi al di fuori del Certame ("né vo', né chieggio esser qui messo in sorte, / né venir in cimento..."). Il giudizio sulla produzione poetica del D., ferma restando la precisa affermazione di innegabili limiti, e contenutistici e formali, varia da quello, tutto sommato, benevolo del Flamini, del Rossi e del Lanza, che ne mettono in risalto, con le parole di quest'ultimo, "linearità" e "chiarezza", a quello decisamente negativo del Bacci, che lo definisce "poeta popolano" e armato solo di "buone intenzioni".
Edizioni: L'arte della memoria, in O. Bacci, Prosa e prosatori, Milano-Palermo-Napoli 1906, pp. 95-138; tutte le liriche in A. Lanza, Lirici toscani del '400, Roma 1973, I, pp. 667-81; le ottave per il Certame anche in A. Bonucci, Opere volgari di L. B. Alberti, I, Firenze 1843, pp. CLXVIII-CLXXIV.
Bibl.: G. Mancini, Vita di L. B. Alberti, Firenze 1882, pp. 229 ss.; F. Flamini, La lirica toscana del Rinascimento ai tempi del Magnifico, Pisa 1891, pp. 188-91, 238-45, 321, 597-601, 679 ss. (recens. di V. Rossi, in Giorn. stor. d. letter. ital., XVIII [1891], pp. 380 s., 384 s.; e di S. Morpurgo, in Riv. crit. d. letter. ital., VIII [1891], p. 70); F. Tocco, Le opere latine di G. Bruno esposte e confortate con le italiane, Firenze 1889, p. 28; O. Bacci, Un trattatello mnemonico di M. D., in Prosa e prosatori, cit.; A.Oberdofer, Premessa all'ediz. d. "Regulae artificialis memoriae" di L. Giustinian, in Giorn. stor. d. letter. ital., LX (1912), pp. 118 s.; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1933, p. 159.