MICHELE da Calci
MICHELE da Calci (al secolo Giovanni Berti). – Nacque a Calci, nel comitato pisano, presumibilmente verso la metà del secolo XIV. Divenuto frate minore con il nome di Michele da Calci, risiedette nella Marca anconetana, dove fece parte di gruppi di francescani sostenitori della dottrina secondo cui Cristo, in quanto uomo, e i suoi apostoli non avevano avuto proprietà, né personalmente né in comune, ma avevano disposto dei beni loro necessari per semplice usus facti: dottrina affermata dal pontefice Niccolò III nel 1279 con la bolla Exiit qui seminat e in seguito oggetto di discussione nel mondo ecclesiastico fino all’esplicita condanna da parte di Giovanni XXII con la bolla Cum inter nonnullos del 1323. Quei frati esercitavano attività di proselitismo nell’Italia centrale, fino alla Toscana: in tale contesto si situano le vicende conclusive della vita di M., per il resto pressoché sconosciuta.
Giunto a Firenze nel gennaio del 1389 per la cura d’anime di un gruppo di fedeli che ne condividevano le convinzioni religiose, il 20 aprile, nella settimana successiva alla Pasqua, M. fu arrestato insieme con un confratello e condotto nelle carceri del vescovado. Nei giorni seguenti il vescovo Bartolomeo Oleari, anch’egli dell’Ordine dei minori, coadiuvato dal vicario Antonio Bindi, lo sottopose a un processo inquisitoriale. M., dichiarato eretico per le sue credenze riguardo alla povertà di Cristo e degli apostoli, subì la cerimonia della svestizione e della degradazione e quindi fu consegnato alle autorità comunali. Il tribunale del Popolo e del Comune lo condannò a morte, probabilmente cogliendo l’occasione per rinsaldare i rapporti, oltre che con il vescovo, con la Curia di papa Urbano VI, dopo le tensioni dei mesi precedenti culminate nell’interdetto contro la città mostratasi disponibile verso il papa avignonese Clemente VII.
Il 30 apr. 1389 M. morì sul rogo fuori dalle mura di Firenze, oltre la porta della Giustizia, nei pressi della chiesa di S. Maria del Tempio.
Di tali avvenimenti reca testimonianza – accanto agli atti del tribunale, che riportano il nome al secolo del frate – una breve narrazione in volgare – la Storia di fra M. minorita – di anonimo autore fiorentino, partecipe della fede di Michele. La prima parte, dopo qualche breve notizia sul soggiorno di M. a Firenze nei primi mesi del 1389, racconta l’arresto, la detenzione nelle carceri del palazzo vescovile e i processi ecclesiastico e civile cui egli fu sottoposto; la seconda parte descrive il cammino del condannato attraverso le vie della città fino al rogo e, nel contempo, le reazioni dei Fiorentini al suo supplizio. Nei colloqui con il compagno di prigionia, e soprattutto di fronte al vescovo e poi davanti al capitano del Popolo e del Comune, M. rivendica chiaramente la sua appartenenza a una Chiesa opposta a quella ufficiale, ma in continuità con quella delle origini del cristianesimo: egli rifiuta di essere chiamato «fraticello», nome con il quale l’autorità ecclesiastica indicava come eretici gli assertori della povertà assoluta di Gesù Cristo, rivendica la sua identità di frate minore, giudica eretico il papa Giovanni XXII per aver definito Cristo «proprietario», condanna anche i suoi successori perché si sono conformati a tale dichiarazione, delinea una tradizione religiosa ed ecclesiastica alternativa a quella della Chiesa romana e i cui campioni sono riconosciuti in Gioacchino da Fiore, s. Francesco, s. Domenico, s. Bonaventura e Pietro di Giovanni Olivi, oltre che in frati che recentemente hanno subito il martirio – compaiono i nomi di Bartolomeo Greco, Bartolomeo da Bugiano e Antonio da Acquacanina, tre francescani non meglio conosciuti – e assume come proprio riferimento la figura di papa Niccolò III, più volte richiamato a garanzia di ortodossia.
Nelle parole di M. la scelta di povertà radicale – sottolineata dal frequente richiamo a un’osservanza integrale della Regola di s. Francesco – si lega strettamente alla disponibilità a morire per testimoniare la propria fede e si proietta nel futuro, nella certezza di un immediato premio e di un ormai prossimo intervento divino nella vita della Chiesa a opera di un papa santo, in una prospettiva apertamente escatologica.
La narrazione del viaggio dal palazzo del Capitano al luogo del supplizio segue il frate mentre dialoga con la folla. Nella prima parte del tragitto, lungo la via del Proconsolo, M. professa la sua fede in Dio, in Cristo e nella Vergine Maria. Di fronte alla cattedrale rimprovera ai Fiorentini la soggezione nei confronti del papa: è l’unico accenno a una lettura della vicenda del frate nel contesto delle tensioni politico-ecclesiastiche indotte dallo scisma. Nelle strade in cui più intense sono le attività economiche della città – la via di Calimala, il Mercato Nuovo, la piazza dei Priori, la piazza del Grano – il frate ammonisce la folla a far penitenza per i peccati, le usure, le fornicazioni e il gioco. Davanti a S. Croce, la chiesa dei minori, e poi nell’ultimo tratto del cammino, riafferma la sua identità di seguace di s. Francesco e di Cristo. Di via in via, ai Fiorentini sempre più numerosi che parteggiano emotivamente per lui, ma lo invitano all’abiura per salvarsi la vita, M. oppone la sua volontà di testimonianza fino al martirio: in un dialogo serrato egli esorta alla coerenza dei comportamenti con la verità, e lo fa con parole e gesti che richiamano i moduli della letteratura agiografica, ma soprattutto il racconto della passione di Cristo nel Vangelo di Giovanni. Conseguenza di tale fermezza è la reazione dei Fiorentini alla morte di M.: molti dei presenti – anche fra gli avversari – non possono non riconoscere che egli è morto da santo. E sul progetto di santificazione, temuto dai chierici e sostenuto dai seguaci del religioso, che si impossessano del suo corpo e lo nascondono, si chiude il racconto.
L’anonimo testo è costruito sulla base della testimonianza diretta dell’autore e di un compagno di M. che, dopo essere stato pure lui arrestato, si salvò dalla condanna a morte, verosimilmente a seguito di abiura. L’opera, inizialmente di intonazione narrativa, assume via via un andamento sempre più mimetico, fino a configurarsi come una sacra rappresentazione: il lettore è indotto a identificarsi con i protagonisti del dramma, perché alla fine possa riconoscere, come i Fiorentini che si erano recati alla tomba del frate, che M. era veramente santo. Dunque il racconto mira a intervenire sulla memoria di un gruppo religioso, per trasformare il ricordo di una sconfitta nell’affermazione di un modello di martirio. Ciò è confermato dalla tradizione del testo, pervenuto tramite un opuscolo cartaceo, forse di mano dell’autore stesso, che sul retro riporta una nota di altra mano con la richiesta da parte di alcuni seguaci, verosimilmente non fiorentini, di un’altra copia del fascicolo, da usare per la diffusione del culto di Michele.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Firenze, Capitanato del Popolo, nn. 1775, cc. 118-122 (processo delle autorità comunali a M.); 1782, cc. 25r-29r (testo della sentenza, edito da A. D’Ancona, Appendice, in Varietà storiche e letterarie, I, Milano 1883, pp. 345-355; cfr. Id., Fra M., ibid., pp. 1-13); Firenze, Biblioteca naz., Magl., XXXI.65, cc. 34-43: Storia di fra M. minorita (per il quale si veda la descrizione in F. Giambonini, Introduzione, in Giovanni dalle Celle - L. Marsili, Lettere, a cura di F. Giambonini, Firenze 1991, pp. 42-45). L’opera è stata pubblicata per la prima volta, con criteri che ne hanno modificato in parte le caratteristiche linguistiche e letterarie, in Storia di fra M. minorita, come fu arso in Firenze nel 1389, con documenti riguardanti i fraticelli della povera vita. Testi inediti del buon secolo di nostra lingua, a cura di F. Zambrini, Bologna 1864; rist. anast., Bologna 1968; ripr. parziale in G.A. Brucker, Firenze nel Rinascimento, Firenze 1980, pp. 390-394. Il testo definito da Zambrini è stato riproposto, con marginali variazioni dovute agli editori, sia in Anonimo trecentista, Storia di fra M. minorita, a cura di F. Flora, Firenze 1942 (poi ibid. 1946), sia in Il supplizio di fra M. da C., in Prosatori minori del Trecento, I, Scrittori di religione, a cura di G. De Luca, Milano-Napoli 1954, pp. 213-236: due edizioni riprese in seguito più volte, in particolare la prima in forma antologica in G. Petrocchi, Scrittori religiosi del Trecento, Firenze 1974, pp. 128-133, e la seconda, in forma integrale, in Anonimo fiorentino, Storia di fra M. minorita, a cura di E. Trevi, Roma 1991. Una nuova edizione, di carattere diplomatico-interpretativo, è stata data in A. Piazza, La passione di frate M. Un testo in volgare di fine Trecento, in Revue Mabillon, LXXI (1999), pp. 231-256; H.Ch. Lea, A history of the Inquisition, III, New York 1906, p. 165; F. 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Lambertini, «Non so che fraticelli …»: identità e tensioni minoritiche nella Marchia di Angelo Clareno, in Angelo Clareno francescano. Atti del Convegno, Assisi … 2006, Spoleto 2007, pp. 229. Per questa voce si è tenuta presente anche la biografia di M. scritta per il Diz. biogr. degli Italiani da R. Manselli nel 1966 e mai pubblicata.
A. Piazza