TORCIGLIANI, Michelangelo
– Nacque a Lucca nel 1618, non molto prima del 31 marzo, giorno in cui fu battezzato, da Giuliano e da Apollonia di Giovanni Morastrelli. Ebbe un fratello, Silvestro, e una sorella, Angela.
Manifestò fin da giovanissimo attitudine agli studi, e fra i suoi primi maestri lucchesi vi furono probabilmente Guido Vannini e Giuseppe Laurenzi, entrambi lettori di umanità in S. Girolamo, la più importante scuola di eloquenza della Repubblica.
Dal primo, traduttore in esametri della Gerusalemme liberata (Vicenza 1624) e prolifico autore di versi latini, poté attingere l’amore e la padronanza della poesia classica, dagli scritti di antiquaria del secondo la raffinata conoscenza della civiltà antica.
Completò la formazione nella Roma di Urbano VIII, ove si trattenne fino al 1636, avendo compagni di studi il lucchese Giovanni Buonvisi e l’umanista tirolese Giovanni Battista Bozzetta; lì conobbe il concittadino Lelio Guidiccioni e si legò alla Natio Lucensis de Urbe. A uno dei più eminenti rappresentanti di questa comunità lucchese, il cardinale Marco Antonio Franciotti, indirizzò il panegirico Gryphus purpuratus (Roma 1636), un prosimetro latino di rara erudizione classica, «che agli elogi del grifone franciottiano non trascura di unire gli omaggi per le api barberiniane» (Taddeo, 1993, p. 9). Allo stesso anno risale la stesura del Racconto de i successi di Giacinto Centini (rimasto inedito: Lucca, Biblioteca statale, ms. 2581), una storia della congiura ordita contro Urbano VIII dal nipote del cardinale Felice Centini, Giacinto, conclusasi con la sua condanna a morte nel 1635. Al pontefice presentò l’Eneide maccaronica (edita decenni più tardi in Echo cortese, 1680-1683, II, pp. 259-344), che comprende, fra gli epigrammi latini posti ad apertura del testo, una corrispondenza poetica fra l’autore e il papa Barberini.
L’opera conferma la perfetta padronanza della cultura classica, la quale però, in questo caso, viene messa a soqquadro con irriverente spirito beffardo. La maccheronea, così come la maggior parte della produzione letteraria torciglianesca, apparve a stampa postuma.
Risale al periodo romano l’ideazione di La coltre di Theti (in Echo cortese, cit., III, pp. 199-231), poemetto mitologico desunto dal carme LXIV di Catullo, e della satira contro Tommaso Stigliani in forma di commedia latina L’occhio comico (in Echo cortese, cit., II, pp. 29-71); ma soprattutto l’inedito Adone ridotto in otto canti del 1635 (Lucca, Biblioteca statale, ms. 2610), un’epitome del poema di Giovan Battista Marino che, pur cassando molte divagazioni mitologiche e avventurose, si inserì nella polemica sull’Adone affermando, in piena coerenza con le posizioni espresse nell’Occhio, «la validità del nucleo principale e della sostanza di quella poesia» (Taddeo, 1993, p. 10). Delle ottave di Marino venivano infatti conservati gli episodi squisitamente amorosi, nonché il sincretismo fra paganesimo e cristianesimo, che avevano costituito i motivi della condanna del poema: non stupisce, pertanto, che un’opera in così palese contrasto con l’orientamento culturale barberiniano non venisse pubblicata e che qualche mese più tardi – tra la fine del 1636 e i primi del 1637 – Torcigliani abbandonasse gli ambienti del classicismo romano per stabilirsi a Venezia, roccaforte della corrente filomariniana. In questa prospettiva va letta anche la prima produzione veneta: gli epitalami Le querele d’Amore (Venezia 1640) per le nozze di Alessandro Passi e Lucrezia Adelasi e L’Aurora fra le nereidi (Venezia 1645, con dedica a Paolina Badoaro Grimani) per le nozze di Antonio Landi ed Elisabetta Grimani – tra le pochissime opere di Torcigliani, insieme con il Gryphus, stampate vivente l’autore – si ponevano infatti sotto il segno di Marino, muovendosi entro il genere dell’idillio mitologico, marcato da uno stile concettoso e sensuale. A pochi mesi dall’approdo a Venezia curò inoltre la pubblicazione della traduzione italiana dell’Iphigène (1625) di Jean-Pierre Camus, vescovo di Belley, stendendo personalmente la dedicatoria ad Antonio Barberini, il cardinal nipote, e la prefazione all’opera (L’Ifigene del vescovo di Belley, Venezia 1638).
Nella città lagunare Torcigliani venne dapprima ospitato presso la dimora del filosofo David Spinelli, almeno fino al 1650, poi visse indipendente, senza impieghi stabili e incarichi ufficiali. Alla poesia idillico-epitalamica affiancò una ricchissima produzione anacreontica, che comprende la prima traduzione italiana integrale di quello che allora si considerava il corpus del poeta di Teo (odi, epigrammi, frammenti), corredata da un florilegio di lirici dell’Antologia greca, da alcune versioni dal greco al latino e da componimenti originali ispirati ad Anacreonte. La raccolta, già allestita all’altezza del 1642, venne affidata manoscritta all’amico Maiolino Bisaccioni per averne pareri e correzioni. Questi la passò, contro la volontà dell’autore, allo stampatore Combi, che ne allestì un’edizione: preso atto dell’operazione clandestina, Torcigliani fece interrompere la stampa ed eliminare i fogli già tirati. I testi vennero dunque impressi soltanto postumi nei volumi secondo e terzo dell’Echo cortese (cfr. M. Torcigliani, Anacreonte e altre versioni poetiche, a cura di E. Taddeo - F. Ciccolella, Bologna 1996, pp. 1-110). La spiccata propensione per le versioni poetiche di testi antichi è testimoniata altresì dalle traduzioni in versi volgari del carme LXIII di Catullo (Favola d’Ati), di alcuni Dialoghi di Luciano di Samosata, nonché del Cantico dei cantici, tutte apparse postume nel volume secondo dell’Echo cortese (ibid., pp. 137-139, 140-173, 113-136).
Dopo quella mitologica e quella anacreontica, in una terza fase Torcigliani si aprì all’ispirazione schiettamente religiosa. Lo attestano la serie di sonetti Settanta dui nomi di Dio (apparsa incompleta in Echo cortese, cit., III, pp. 335-362; una scelta è in Taddeo, 1993, pp. 51-56), in cui l’ansia metafisica trova espressione nell’insistita invocazione al Dio cristiano e nell’interrogazione sugli attributi della divinità; la poesia davidica dei Salmi latini (in Echo cortese, cit., I, pp. 115-120, III, pp. 395-400); il profetismo dell’«egloga fatidica» in endecasillabi La lucerna sotto lo staio (III, pp. 363-377; parzialmente in Taddeo, 1993, pp. 58-60) dedicata ad Alessandro VII e databile al 1658; nonché i dodici sonetti di La sedia coronata (I, pp. 380-386), stesi per il conclave che elesse Clemente X nel 1670, una delle ultime composizioni dell’autore.
Durante gli anni veneziani Torcigliani instaurò una salda amicizia con i poeti Pietro Michiele e Leonardo Quirini: al primo indirizzò l’epistola prefatoria alle Favole boscherecce (Venezia 1643); il secondo gli dedicò la raccolta poetica Vezzi d’Erato (Venezia 1649), includendovi una medaglia di Francesco Ruschi intitolata alla Felicitas Torciliana (p. [3]v) e tessendo nella dedica un lungo elenco di fautori ed eulogisti del letterato lucchese. Fu affiliato all’Accademia degli Incogniti (un suo medaglione biografico, con ritratto calcografico, è nelle Glorie de gli Incogniti, Venezia 1647, pp. 336-339). Con altri Incogniti concorse alle Glorie della signora Anna Renzi romana (Venezia 1644), l’encomio della grande cantante d’opera promosso da Giulio Strozzi (cfr. Michelassi, 2011, p. 363). Risaltano i rapporti con l’Assicurato Accademico Incognito, ossia il patrizio Giacomo Badoaro (A. Aprosio, Lo scudo di Rinaldo, Venezia 1646, p. 360). Da un lato, in una sua lettera pubblicata in apertura del già citato epitalamio L’Aurora fra le nereidi, l’Assicurato esortava Torcigliani a non interrompere la stesura del poema eroico Il ratto d’Elena (rimasto inedito). Dall’altro, nel 1644 Badoaro, nel pubblicare la propria «opera musicale» L’Ulisse errante (musica perduta di Francesco Sacrati), vi antepose una lunga lettera indirizzata a Torcigliani in cui argomentava e giustificava le proprie flagranti deroghe dalle unità pseudoaristoteliche (ed. in Fabbri, 2003; tali deroghe erano infatti nell’Ulisse errante assai più vistose che nel suo precedente melodramma di soggetto omerico, ossia Il ritorno d’Ulisse in patria del 1640, musica di Claudio Monteverdi).
Su questa base è stata ventilata l’ipotesi (Michelassi, 2007) che vada riconosciuto in Torcigliani, ossia nel destinatario di questa amichevole requisitoria di Badoaro, l’autore dell’adespota «tragedia di lieto fine» Le nozze d’Enea in Lavinia (Venezia, teatro dei Ss. Giovanni e Paolo, 1641, musica perduta di Monteverdi; ed. moderna in M.P. Sevieri, “Le nozze d’Enea con Lavinia”: dal testo alla scena dell’opera veneziana di Claudio Monteverdi, Recco 1997). Nell’Argomento et scenario a stampa di questo dramma, che in piena coerenza con l’ideologia sottesa alle prime opere in musica veneziane celebra la discendenza della Serenissima dalla Roma preimperiale e in ultima istanza da Troia, l’ignoto autore discuteva infatti entro quali limiti fosse ammesso trasgredire le norme della Poetica. L’attribuzione delle Nozze a Torcigliani, plausibile ma non suffragata da altri indizi, è in attesa di verifiche. Di sicuro nell’elenco delle tante opere inedite di Torcigliani (nelle citate Glorie de gli Incogniti) figurano imprecisati «drammi per musica». Ma alla luce dello zelo profuso dai postumi cultori della memoria del poeta lucchese sembra improbabile che la notizia della sua paternità di un’opera teatrale tanto importante non abbia lasciato traccia alcuna. Del resto, ancora nel 1649 Quirini lamentava che i drammi di Torcigliani non fossero ancora apparsi in scena (Vezzi d’Erato, cit., p. [30]).
Nel 1643 Torcigliani collaborò alla stesura del testo di L’amor pudico, spettacolo realizzato a Padova dall’amico Pio Enea II Obizzi, con musiche di Antonio dalle Tavole, per le nozze di Bartolomeo Zeno ed Elisabetta Landi. I suoi versi («inventione IV», sul tema dell’inverno), stampati nella cronaca dell’evento approntata da Luigi Manzini (L’Amor pudico, Este 1643, cc. [41]r-[42]r), ebbero un’elaborazione travagliata, come testimoniano le lettere indirizzate all’autore da Obizzi (in Echo cortese, cit., I, pp. 27 s., 39 s., 42; successive invece le missive a pp. 97 e 128 s.).
All’inizio del decennio successivo il concittadino Francesco Sbarra si rivolse a Torcigliani – stando agli scampoli epistolari pervenuti, essendo in contatto con lui almeno dal 1638 (ibid., pp. 9 s., 38) – per «rivedere ed emendare» il suo Alessandro vincitor di se stesso, destinato alle scene del teatro dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia nel gennaio del 1651 con musica dell’aretino Antonio Cesti: così risulta dalla lettera prefatoria inclusa nella stampa veneziana del dramma musicale datata Lucca 29 dicembre 1650 (ed. parziale in Rosand, 1991, 2013, pp. 686 s.; l’apporto torciglianesco è confermato da una coeva epistola di Sbarra allo scenografo Giovan Battista Balbi, in Echo cortese, cit., II, pp. 150-152).
Negli ultimi anni di vita il poeta, celibe, si stabilì «presso tre anziane sorelle Loredan, che lo coccolavano come un figlio» (Taddeo, 1993, p. 13). Nel 1674 uscì a Padova, per le cure di Carlo de’ Dottori, il breve opuscolo L’acque della Vergine: una silloge di rime da lui scritte in lode delle acque del santuario della Vergine di Monteortone, sui colli Euganei, ove aveva soggiornato per le cure termali.
Morì a Venezia il 25 novembre 1679.
Alla morte dell’autore, Bernardo Nave e Geronimo Giuliani raccolsero i molti scritti rimasti inediti e da Venezia, la città dove Michelangelo aveva trascorso la seconda parte della vita, li spedirono a Lucca al fratello Silvestro, che ne curò la pubblicazione. Uscirono così, sotto il titolo di Echo cortese, tre volumi che costituiscono il più copioso collettore a stampa dell’opera di Torcigliani. Nel primo volume (Lucca 1680) furono riunite quasi esclusivamente lettere di, a, o intorno a Torcigliani; nel secondo (1681) e nel terzo (1683), ai quali venne aggiunto il titolo Iride posthuma, furono raccolti numerosi componimenti poetici italiani e latini, insieme con altre missive, che unitamente a quelle del primo volume testimoniano la vasta rete di contatti dell’autore, con figure del calibro di Agostino Mascardi, Angelico Aprosio, Francesco Pona, Scipione Ammirato, Federigo Meninni, Giovan Francesco Loredan, Guido Casoni.
Fonti e Bibl.: Oltre agli scambi epistolari pubblicati nell’Echo cortese, sono note lettere di Torcigliani ad Angelico Aprosio: Genova, Biblioteca universitaria, E.VI.9 (il poeta è nominato a più riprese anche nelle missive di Pietro Michiele ad Aprosio: ibid., E.V.21). Un breve carteggio con Cristoforo Ivanovich è nella di lui Minerva al tavolino, Venezia 1681, pp. 134-136. Un ampio elogio è in G. Leti, L’Italia regnante, parte IV, Roma 1676, pp. 412-431. La riscoperta moderna dell’autore si deve a E. Taddeo, La cetra e l’arpa. Studio su M. T., in Studi secenteschi, XXXIV (1993), pp. 3-60 (cui si rimanda anche per riferimenti alle fonti dei secoli XVII-XIX); Id., Per la biografia di M. T., in Actum Luce, XXI (1992), pp. 95-110; Id., T. fra gli astri e l’alchimia, in Studi secenteschi, XXXV (1994), pp. 233-272; Id., T. e Delfino, patriarca atomista, ibid., XL (1999), pp. 83-95; C. Carminati, Narrazione e storia nella riflessione dei romanzieri secenteschi, in Narrazione e storia tra Italia e Spagna nel Seicento, a cura di C. Carminati - V. Nider, Trento 2007, pp. 57-62; P.G. Riga, Sulle lettere di Pietro Michiel ad Angelico Aprosio (1637-1650), in Archilet. Per uno studio delle corrispondenze letterarie di età moderna, a cura di C. Carminati et al., Verona 2016, pp. 513 s., 521. Sul versante operistico: L. Bianconi - T. Walker, Dalla “Finta pazza” alla “Veremonda”: storie di Febiarmonici, in Rivista italiana di musicologia, X (1975), pp. 420, 442; E. Rosand, L’opera a Venezia nel XVII secolo. La nascita di un genere (1991), Roma 2013, pp. 175, 214, 221, 305, 671, 686 s.; P. Fabbri, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera nel Seicento, Roma 2003, pp. 149-154; N. Michelassi, M. T. e l’Incognito autore delle “Nozze di Enea con Lavinia”, in Studi secenteschi, XLVIII (2007), pp. 381-386; E. Rosand, Le ultime opere di Monteverdi. Trilogia veneziana (2007), San Giuliano Milanese 2012, ad ind.; N. Michelassi, Glorie secentesche dell’opera commerciale veneziana, in Forme e occasioni dell’encomio tra Cinque e Seicento, a cura di D. Boillet - L. Grassi, Lucca 2011, pp. 347, 353 s., 363; N. Matsumoto, Pio Enea degli Obizzi (1592-1674): power and authorship, in Music and power in the Baroque era, a cura di R. Rasch, Turnhout 2018, ad indicem.