CAETANI, Michelangelo
Nacque a Roma il 20 marzo 1804 da Enrico e da Teresa de' Rossi; principe di Teano, assunse il titolo di duca di Sermoneta alla morte del padre, avvenuta nel 1850. Secondo le consuetudini del tempo, la sua educazione si svolse nella ristretta cerchia familiare, sotto la guida di insegnanti privati, ma presto i suoi interessi e le sue curiosità lo spinsero a frequentare altri ambienti: divenne assiduo soprattutto negli studi di Thorvaldsen, Tenerani e Minardi, affinando un gusto artistico e una capacità tecnica di disegnare e di modellare che sarebbero stati alla base di tanti futuri lavori, fra cui si ricordano i gioielli di stile antico realizzati in collaborazione con gli orefici Castellani, oggi conservati in parte nel Museo di Villa Giulia a Roma. Con un'ampia serie di letture e di contatti allargava intanto le sue conoscenze e i suoi impegni culturali - letteratura, storia, archeologia -, che egli manteneva nel solco di quella attardata tradizione erudita e classicheggiante che caratterizzava ancora la vita intellettuale della città. Nel 1833 fu nominato comandante del corpo dei vigili del fuoco: era uno di quegli incarichi con cui i pontefici davano lustro formale alla funzione della aristocrazia romana, ma egli lo svolse per trenta anni con una partecipazione viva e interessata. Fu l'unico impegno civile: dedicò il resto del tempo, oltre alle evasioni culturali e artistiche, alla ricostruzione del patrimonio familiare, che consisteva in vasti possedimenti terrieri e inunobiliari, ed era stato dissestato da decenni di pessima amministrazione, gravato da numerose ipoteche. Sorvegliando personalmente i propri interessi, attuando rigide economie, riuscì presto a liberarsi da ogni preoccupazione e fini per lasciare ai figli una cospicua sostanza.
"Il governo italiano non fa altro che debiti; io non feci altro che pagarli" il C. rispose al ministro Sella che gli chiedeva il segreto di una così felice conduzione finanziaria (Alcuni ricordi, p. 141): uno degli aspetti più noti del suo carattere era quello della sferzante causticità, tipica della società romanai del mondo di Pasquino e Marforio, in lui resa più viva da una brillante intelligenza. Il suo salotto, largamente aperto al più illustri visitatori stranieri oltre che alle personalità locali, era conosciutissimo in Europa e in America; lo caratterizzava uno spirito di larga tolleranza verso tutte le tendenze e tutti gli interessi, culturali e politici, che neanche la chiusura ideologica della Chiesa negli anni duri della lotta antitemporale avrebbe smorzato. Era come un terreno d'incontro degli estremi, che rifletteva il carattere universalistico di Roma e la funzione della nobiltà, la più alta rappresentante - nella debolezza della borghesia - della società laica romana, avulsa però sempre dal terreno delle scelte e degli impegni.
Nel salotto del C. passarono, fra i tanti, Chateaubriand, Stendhal, Longfellow, Liszt, Scott, Balzac, Renan, Taine, Ozanam, Ampère, Ticknor, Mominsen, Gregorovius, Reumont, Witte, Senior, Ollivier, Peel, About. Egli si sarebbe legato di personale amicizia con il conte di Circourt, il granduca di Sassonia-Weimar, lord Cheney e, in Italia, con C. Troya e M. Amari, con i quali c'era anche il vincolo di un comune interesse storico e letterario. P la testimonianza di una apertura verso il mondo esterno che smentisce il preteso isolamento dei Romani, anche se si può riferire solo a ristretti ceti aristocratici, meno esposti alle pressioni del governo e della polizia. Il C. poté anche viaggiare (fu nel 1827 a Napoli, spesso in Toscana, nel 1835 e nel 1876 in Inghilterra) e l'atmosfera cosmopolitica della sua casa ricevette anche una impronta dalla presenza successiva di tre mogli straniere (la polacca Callista Rzewuska, da cui ebbe i figli Ersilia e Onorato, l'inglese Margherita Knight, l'inglese Enrichetta Ellis, figlia di lord Howard).
Il C. era quindi consapevole delle idee e dei problemi di un mondo in evoluzione: ammirava la Germania, pur se animato da qualche diffidenza verso le sue speculazioni culturali (liquidava Mommsen con il giudizio di superficiale "sofista", ma modificò i suoi giudizi nel clima culturale posteriore al 1870); amava molto l'Inghilterra, che gli serviva anche da modello politico con il suo liberalismo temperato dalla alta funzione ancora garantita alla classe aristocratica; avversava tenacemente la Francia e le dottrine di cui essa si faceva animatrice con una valutazione che risentiva dell'amaro ricordo della grande Rivoluzione e del primo Napoleone. Non sentì però mai il bisogno di far echeggiare intorno a sé il soffio animatore che gli perveniva da oltre frontiera; non volle, o non poté, perché la città, caratterizzata da particolari e antiquate condizioni culturali, economiche e civili, era sorda, ed egli stesso si sentiva condizionato - e in definitiva pago - di tale sordità che nel culto di un mitico passato sembrava esprimere una pur sempre valida idealità. Era troppo intelligente e informato perché non si rendesse conto della marcia irresistibile della nuova società liberale e perché non intuisse che anche lo Stato pontificio ne sarebbe stato raggiunto, ma preferiva adattarsi al fluire degli eventi, alla evoluzione in atto, predicando una forma di attesa passiva: "Un giorno si vedrà che piega avranno preso le cose, e questa è la miglior via per ragionare" scriveva nel 1831 (Epistolario, p. 4). Definiva la politica militante "l'ottavo peccato capitale" e rifiutava ogni impegno nel mondo clandestino della opposizione settaria, la cui attività sembrava valutare anche con un orgoglioso spirito di casta nei confronti di quei gruppi borghesi che erano alla sua testa. Come l'impegno, anche il pensiero era carente, rivelandosi più distruttivo che costruttivo, più fustigatore dei difetti che ideatore dei rimedi, sempre profondamente scettico sugli uomini e sulle loro opere: giudicava necessarie riforme nella macchina dello Stato. specie sul piano finanziario, e mutamenti nelle strutture della Chiesa, riportata verso più antiche, semplici forme; divenne poi fautore di un moderato liberalismo. Desiderava seguire le realizzazioni come un semplice spettatore alla finestra, e fu invece personalmente travolto dal corso degli eventi che ormai avevano raggiunto, e agitavano, la stessa Roma.
L'ascesa al trono pontificio di Pio IX e la sua opera riformatrice videro il C. in quel gruppo di nobili - Aldobrandini, Massimo, Doria Pamphili, Gabrielli - scelti a occupare importanti cariche politiche e amministrative: essi sembravano garantire in alto loco una compartecipazione laica al potere che dava garanzie di prestigio e di moderazione, esercitare anche una importante funzione di mediazione tra le alte autorità ecclesiastiche e la popolazione; nel dicembre del 1847 il C. divenne presidente del moderato Circolo romano, nel febbraio del 1848 ministro di polizia nel governo presieduto dal cardinale Bofondi. Si occupò attivamente della emancipazione degli ebrei (il suo palazzo confinava con il ghetto). Ma presto la sua attività politica ebbe fine, preferendo egli stesso ritirarsi in disparte, lucido osservatore delle ambiguità e delle contraddizioni delle due parti in contrasto, dei limiti da un lato del pontefice, incerto e debole di fronte alle pressioni della Curia conservatrice, dall'altro delle richieste sempre più avanzate della massa popolare, che gli sembravano sovvertitrici di ogni ordine, pericolose anche per la religione. Non capiva a fondo, nelle sue varie graduazioni, il movimento democratico, che stigmatizzava con la facile definizione di "quel sistema di comunismo europeo, che in questi ultimi tempi è uscito fuori in campo con tanto impeto e con tanta ipocrisia di amor fraterno", predicato dalla "seduzione di Francia, nostra perpetua meretrice" (a Cheney, 10 giugno 1848, in Epistolario, pp. 34 s.). Mentre l'astio verso il partito radicale lo portava a un duello con il principe di Canino, il suo modello politico divenne Pellegrino Rossi, che solo avrebbe potuto riportare "l'ordine costituzionale" (ibid., p. 42). Ci fu invece la Repubblica del '49, e nel C. si riscontra l'atteggiamento tipico di tutta la nobiltà romana: ostilità netta, denuncia di comunismo e di distruzione sociale, accuse di responsabilità per il deterioramento della situazione rivolte ai "più facinorosi, i più disperati, i più perversi d'Europa e Italia calati a Roma", quasi in "orrenda parodia delle antiche compagnie di ventura" (ibid., p. 45).
Con la restaurazione il C. si riadagiò nella tranquilla vita della Roma pontificia, ma pieno di inquietudini e di attese, consapevole della crisi del potere temporale, della rivoluzione liberale e nazionale che sconvolgendo, in un mutato quadro internazionale, l'Italia, non avrebbe risparmiato lo Stato del papa. Rimase però, come sempre, appartato osservatore, e solo nel 1859, nel clima di entusiasmo con cui fu accolta a Roma la notizia della guerra all'Austria, lo si vide prender parte attiva alle dimostrazioni filoitaliane. Si ritirò presto nella riserva con l'aggravarsi della questione romana, una riserva favorita anche dalla sopravvenuta cecità.
Il C. era ormai in stretto contatto cm il Comitato nazionale romano, unico grande partito liberale di Roma, e con il suo gruppo dirigente, costituito da letterati e professionisti. Ormai convinto che lo Stato pontificio era destinato a crollare, giudicava inutile ogni intervento interno per una soluzione che aveva altrove - a Parigi e a Torino - le sue premesse. Resistette quindi alle pressioni esercitate su di lui, direttamente o indirettamente, dai vari capi di governo italiani che, a cominciare da Cavour, avrebbero voluto una significativa partecipazione della popolazione romana nel più ampio quadro della questione, con forme che andavano dalla manifestazione di una pubblica opinione alla nomina di deputati per il Parlamento italiano, dalla lotta al regime pontificio alla rivolta armata. Si mantenne caustico e attento osservatore delle debolezze di tutti: quelle di Pio IX e del suo governo che si sforzavano di ridare vitalità al potere temporale assicurando uno sviluppo economico e civile allo Stato, quelle degli Italiani che combattevano faticosamente la loro battaglia sul terreno diplomatico e rivoluzionario, quelle di Napoleone III che si dibatteva fra opposte tendenze.
La vasta risonanza del C., la necessità che aveva il governo italiano di dare lustro anche internazionale alla scelta unitaria dei Romani e di appoggiarsi, nell'opera di trasformazione della nuova capitale, su ambienti che garantivano prestigio e moderazione lo fecero considerare nel settembre 1870 la persona più qualificata per guidare la deputazione che doveva portare a Vittorio Emanuele i voti di Roma; ricevette il collare dell'Annunziata. Aveva dovuto anche prender parte alle più importanti iniziative politiche del nuovo regime: dalla nomina dei membri della giunta di governo (e Montecchi ricorda la sua avversione ai comizi popolari che avrebbero dovuto sanzionare dal basso le scelte), di cui fu presidente, al plebiscito. Consigliere nella amministrazione comunale e provinciale, nelle prime elezioni riuscì eletto deputato per il V collegio di Roma (Trastevere).
A nessuna di queste attività partecipò profondamente ("me voilà, tout aveugle que je suis, condamné à faire de la prose politique comme le Bourgeois Gentilhomme, ou, pour mieux dire, de la Comédie, comme un gentilhomme condamné à faire le bourgeois": Epistolario, p. 75); si dimise da tutte le cariche, si dimise anche dal Parlamento, ma fu costretto a subire una rielezione (rifiuterà poi decisamente ogni candidatura futura). Mentre i figli Onorato ed Ersilia assicuravano la presenza della famiglia nella vita sociale, politica, culturale della nuova Roma, il C. risfoggiava l'antico pessimismo nei giudizi sulle vicende e sugli sviluppi del regime italiano.
Amaramente confessava di non aver ancora capito, ad oltre settanta anni di età, quale fosse la vera forma di progresso della società umana; giudicava con molto pessimismo la realtà del momento: "La civiltà avvenire promette tanto disordine e tanto male, quanto ne poté avere la prima barbarie. Il progresso materiale presta tutte le sue potenze al male come al bene, se l'ordine morale non governa le sue cose. Quest'ordine morale non è più governato da religione e perciò non ha l'ubiconsistat…" (12 genn. 1872: Epistolario, p. 106). Lamentava che le nuove istituzioni, di modello piemontese, fossero pessime, che il Parlamento non rappresentasse lo spirito della nazione, che non si affirontassero riforme serie nel campo finanziario e giudiziario, che il papa restasse chiuso "nella crisalide vaticana" (ibid.;a chi gli manifestava le proprie speranze nel nuovo pontefice Leone XIII, giudicato "un gioiello", rispondeva: "Sì, ma nell'astuccio del predecessore": De Gubernatis, p. 35), che il carattere antico di Roma fosse ormai perduto e che i Romani poco avessero guadagnato con il nuovo regime, senza le vecchie fonti di sostentamento e senza nuove possibilità di lavoro. Per la prima volta colpito da tasse gravose, temeva lo sconvolgimento dei patrimoni familiari con la fine anche del maggiorascato; vedeva il tramonto della sua casta che solo a Roma era sopravvissuta così a lungo con gli antichi privilegi e le antiche funzioni. Per dispetto, ma forse anche per una ultima forma di realistica valutazione della nuova parte politica in ascesa, si avvicinò a un certo momento ad alcuni uomini della Sinistra.
Il C. morì a Roma il 12dic. 1882. Corse voce che prima della morte, avesse fatto pervenire al Vaticano una ritrattazione delle sue idee liberali (cfr. D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Roma 1961-1962, ad Indicem).Non se ne trova sicura notizia: il De Gubernatis narra che al religioso che lo assisteva ribadì la fede e l'attaccamento alla Chiesa cattolica, auspicando la sua conciliazione con lo Stato italiano, la sua accettazione del principio di libertà e il suo ritorno a primitive forme di semplicità evangelica.
Negli anni della cecità il C. si era dedicato quasi esclusivamente agli studi danteschi, entrando in fitti rapporti epistolari con vari studiosi, fra i quali C. Troya, M. Amari, C. Witte, G. B. Giuliani, A. Torri. Pubblicò La materia della Divina Commedia di Dante Alighieri dichiarata in VI tavole, Roma 1855 (più volte ristampata), e una serie di interpretazioni di discussi passi danteschi: Della dottrina che si asconde nell'ottavo e nono canto dell'Inferno, Roma 1852 (il "messo celeste" viene individuato in Enea, padre dell'Impero); Di una più precisa dichiarazione intorno a un passo della Divina Commedia nel XVIII canto del Paradiso, Roma 1852 (l'oscura "emme" è chiarita come figura dell'Aquila); Matelda nella divina foresta della Commedia di Dante Allighieri, Roma 1857 (il personaggio è identificato nella beata Matilde, madre dell'imperatore Ottone); i saggi vennero ristampati anche insieme: Tre chiose di M. C. duca di Sermoneta nella Divina Commedia di Dante Alighieri, 3 ed., Roma 1881. Dopo la morte del C. venne creata a suo nome una fondazione in Orsanmichele a Firenze per letture dantesche. Anche se non ne accetta tutte le interpretazioni, l'odierna critica ne loda "l'elegante erudizione" (cfr. Enciclopedia dantesca).
Fonti e Bibl.: Il ricchissimo carteggio è conservato a Roma nell'Archivio Caetani; nel Museo centrale del Risorgimento sono anche diverse lettere del C., firmate con lo pseudonimo di "Scultore". La corrispondenza con Cheney, Circourt, Taine è stata edita in Epistolario del duca M. C. di Sermoneta, a cura della moglie, Firenze 1902; una scelta di lettere a vari corrisp. (1859-1874) è in corso di stampa a cura di F. Bartoccini. Per il carteggio riguard. le ricerche su Dante, cfr.: G. Trevisani, Alcunelettere dantesche a M. C., Firenze 1875; M. Caetani, Lettere al conte C. Troya, in Giorn. dantesco, VII(399), pp. 518-42; Carteggio dantesco del duca di Sermoneta…, a cura di A. De Gubernatis, Milano 1883, pp. 139-157; Epistolario del duca M. C. di Sermoneta, a cura di G. L. Passerini, Firenze 1903; per i giudizi critici sui suoi lavori: C. Troya, Del Veltro allegorico de' Ghibellini…, Napoli 1856; L. Delatre, La cosmografia dantesca del duca M. C., in Giornale del centenario, 1865, p. 283; Parole dette di Antonio Ranieri Presentando in nome dell'autore le opere sopra Dante Alighieri di M. C., Napoli, 1875; Dantisti e dantofili dei secc. XVIII e XIX: contr. alla st. della fortuna di Dante, a cura di G. L. Passerini, Firenze 1901; V. Presta, in Enc. dantesca, I, Roma 1970, p. 746.
Numerosi sono gli accenni al C. nei diari e nelle memorie dei visitatori di Roma: ricordiamo solo F. Gregorovius, Diari romani, a cura di R. Lovera, Milano 1885, ad Indicem; A. v. Reumont, Charakterbilder aus der neueren Geschichte Italiens, Leipzig 1886; W. Nassau Senior, L'Italia dopo il 1848, Bari 1937, ad Indicem; Mém. de la comtesse Rosalie Rzewuska, II, Roma 1939, pp. 455-470 passim. Al C. non è dato particolare rilievo nelle opere sul '46-'49 romano (ma si veda il giudizio di M. Minghetti sulle sue scarse capacità politiche in Miei ricordi, I, Torino 1889, pp. 331 s.) e in quelle sulla fine del potere temporale nel 1870: accenni in M. Montecchi, La Giunta romana ed il Comizio popolare del 22 sett. 1870, Venezia 1870, pp. 23, 25; C. Pavone, Alcuni aspetti dei primi mesi di governo italiano a Roma e nel Lazio, in Arch. stor. ital., CXV(1957), pp. 312 ss.; R. Cadorna, La liberazione di Roma nel 1870, a cura di G. Talamo, Milano 1970, ad Indicem; U.Pesci, Come siamo entrati in Roma, Milano 1970, pp. 200, 214, 216 s., 218 s., 262; E. Perodi, Roma italiana, Roma, 1896, capp. 1-2; manca una biografia: cfr. Alcuni ricordi di M. C…, 2 ediz., Milano 1904; i brevi profili di A. De Gubernatis nell'introd. dell'op. cit.; U. Pesci, Il duca di Sermoneta, in Illustr. ital., 31 dic. 1882, pp. 425-28; R. Bonfadini, M. C., in Perseveranza, 16 dic. 1882; A. v. Reumont, Don M. C., in Beilage zur Aligemeinen Zeitung, 13-14 febbr. 1883, e le "voci" in T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, p.198; Dizion. del Risorg. ital., II, pp.463 s.; Enc. Ital., VIII, p. 253. Illustrano alcuni aspetti della sua personalità culturale e politica: R. De Cesare, Roma e lo Stato del papa…, Roma 1907, I, pp. 87 ss.; F. Chabod, Storia della politica estera italiana, Bari 1951, pp. 492 ss.; S. Negro, Seconda Roma, Vicenza 1966, ad Indicem; F.Bartoccini, La "Roma dei Romani", Roma 1971, ad Indicem. Per la sua attività artistica: Ch. Gere, Victorian Jewellery designs, London 1972, pp. 120-26, 257 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, V, sub voce.